Editoriali del Direttore
Next Gen, successo a metà. Ma Milano sogna le vere finali con Torino
MILANO – Livello tecnico ok, biglietteria no. 3.300 biglietti venduti in meno rispetto al 2017. Le cause. Brutto segno per la candidatura torinese?

Da Milano a Londra, il tennis si fa più serio. Di certo più rispettoso delle tradizioni. Sulla qualità dell’evento londinese alla 02 Arena infatti nessun dubita. E di certo non dubita l’ATP che da quel torneo ricava le sue maggior risorse. Tant’è che l’ha tenuto lì dal 2009, per dieci anni quindi, registrando oltre 2 milioni e mezzo di spettatori (cifre difficili da contrastare… con il lievitare della sterlina). E lo lascerà lì almeno fino al 2020 incluso, per altri due anni ancora insomma. “E non è detto che si abbandoni una sede di così grande successo per dare anche ad altre nazioni la possibilità di vedere grande tennis e promuovere il nostro sport” è stato il bla bla del boss ATP, il CEO Chris Kermode. In questi giorni ha parlato di 40 città che si sarebbero candidate ad ospitare il vecchio Masters dal 2021 in poi… e fra queste anche la nostra Torino. Voglio proprio vedere quale sia la città che darebbe le stesse garanzie di Londra. Ma su questo argomento scrivo più giù.
Ciò detto il torneo di Milano, il cosiddetto Next Gen non va bocciato. Direi si possa parlare di un successo a metà. Chi c’è stato, in linea di massima, se non si è svenato per i prezzi esosi e non ha smoccolato per gli orari e le difficoltà del ritorno a casa, si è divertito. Però, anche se il livello tecnico, suggellato dall’ottima finale raggiunta dalle prime due teste di serie oltre che da due giocatori Most improved player of the Year e Newcomer of the Year come il vincitore Tsitsipas n.15 ATP e de Minaur n.31, è stato eccellente, non mi pare che la promozione del Next Gen abbia troppo funzionato. Un anno di avviamento avrebbe invece dovuto portare a dei progressi, non a dei regressi.
Sappiamo i dati ufficiali e sappiamo anche che questi non dicono mai tutta la verità – non solo in Italia, ma ovunque eh, ho sempre letto risultati dilatati quando c’era da diffondere i numeri dell’affluenza, un sacco di record battuti erano in realtà fake news… ufficiali! A Montecarlo ho visto per anni aumentare il dato dell’affluenza anche quando le tribune erano le stesse… – ma fidandomi dei miei stanchi occhi mi ero già accorto che gli spettatori erano stati meno dello scorso anno. E, come ho appena accennato, questo non avrebbe dovuto succedere dopo un anno di avviamento e per un torneo che tutto sommato allineava ai nastri di partenza tre tennisti dei top-40, quattro dei top 50, sette dei top 85, dopo che Shapovalov aveva dato un poco giustificato (e poco accettabile) forfait. Sotto il profilo tecnico non si poteva pretendere molto di più.
Magari fra qualche ora ci diranno che al calo di presenze si accompagna però un aumento degli introiti. Chissà? In effetti la voce dei biglietti venduti, in tutta franchezza, da tempo non è la più importante. I diritti tv, gli sponsor, fanno molto più la vera differenza. Tutto ciò salvo che per l’immagine del torneo. Vedi i tornei cinesi, qatari, singaporensi, negli Emirati: spalti semivuoti, montepremi sempre più ricco, 25 persone fra dirigenti sportivi e politici locali (e non) a premiare, tutti che si parlano addosso, mille ringraziamenti (da giocatori e non solo) agli sponsor “senza i quali questo torneo non avrebbe potuto esistere”, un buffettino ai raccattapalle e tutti contenti. Siccome in Italia siamo molto più… furbi, si è pensato bene di oscurare le tribune ai teleutenti: chi ha guardato il Next Gen in tv, infatti, non ha così potuto capire se esse rigurgitassero di appassionati (magari!) oppure no. Una bella lezione data a quegli ingenui dei cinesi! Il comunicato FIT riferisce che Milano avrebbe registrato 19.150 spettatori in cinque giornate di tennis, per 9 sessioni di tennis. Sarebbero mediamente circa 2.127 persone (presumo paganti) a sessione.
Il comunicato federale evita di dire che lo scorso anno ci furono 3.300 spettatori in più. Nessuno ammetterà che si poteva fare anche di più. Comunque era una scommessa e si può dire che è stata più vinta che persa, anche se pensavo dopo l’anno scorso che quest’anno potesse essere ancora più vincente, nonostante il comprensibile calo di curiosità mediatica. Lo scorso anno le regole erano una novità, arrivarono giornalisti a coprire l’evento da tutta Europa. Quest’anno dall’estero sono venuti quattro gatti… e non solo perché a Wimbledon i giornalisti usufruiscono di 25 sterline di diaria al giorno, a New York di 20 dollari, a Melbourne di 25, a Parigi di 11 ma ci sono prezzi fortemente scontati e controllati – insomma non 7 euro per una focaccina! – nei tornei tedeschi e spagnoli c’è quasi sempre ospitalità almeno per quanto riguarda i pasti. Con i giornali in crisi e questi chiari di luna, gli editori i conti li fanno con grande oculatezza prima di mandare in giro un inviato a piè di lista. Del resto Roma con i suoi Internazionali d’Italia è rimasto uno dei pochissimi tornei, direi il solo fra i Masters 1000, in cui ogni giornalista si deve arrangiare e mantenere con i soldi propri se è freelance, o con quelli dell’editore se è staff-writer. Milano idem. Inutile farlo presente – soprattutto se lo faccio io! – ai dirigenti della FIT. Magari potrebbe farlo il capufficio stampa FIT, ma gli darebbero retta? Mmm…
Spero quindi che almeno sotto il profilo economico il torneo meneghino abbia dato i risultati sperati, anche se lì per lì al mio arrivo (martedì scorso) mi aveva lasciato un po’ perplesso l’abbandono di alcuni sponsor presenti qui l’anno passato con il loro stand. Chissà, magari come hanno fatto con i i biglietti, FIT e ATP hanno tirato troppo la corda e qualcuno (penso alla Head…) non c’è voluto più stare. Strano, ad esempio, che non fosse presente Australian che è quasi la linea d’abbigliamento ufficiale della Federtennis. E Giordano Maioli a Milano avrebbe giocato in casa (anche se lui è di Piacenza). Ma il successo organizzativo locale in termini di pubblico – e qui approccio il secondo argomento – avrebbe dovuto essere un bel biglietto di presentazione per le chances italiche di ospitare in futuro quel Masters ATP di fine anno che, come dicevo più su, dal 2021 potrebbe abbandonare Londra. Il pubblico invece ha risposto in maniera tiepida.
Ripeto quanto scritto ieri: biglietti troppo cari e orari assurdi. Assurdo soprattutto quello di sabato sera con la finale alle 21, giornata non lavorativa e che quindi non richiedeva un orario così notturno per favorire l’accesso di chi lavora. Oltretutto non giocavano, questo sabato, né Inter né Milan, quindi non c’era nemmeno da evitare una temibile concomitanza. Chiunque avesse voluto raggiungere Milano da città dell’Emilia Romagna, Toscana, Veneto, Piemonte, a) sarebbe stato costretto a fare le ore piccole per tornare a casa, quindi bambini a casa e affidati alla baby sitter (per chi ce l’ha); b) non avrebbe avuto alternativa all’auto propria – i senza patente a casa… – perché oltre al metro che a mezzanotte ti lascia a piedi nella ridente Rho per arrivare al centro, di treni per tornare via da Milano e raggiungere altre regioni non ce n’è l’ombra. Antico problema mai risolto. Sarebbe bastato giocare alle 15 per risolvere quel problema. Mi ha fatto effetto invece constatare il grande successo della contemporanea mostra delle moto, non ricordo il nome ma… pazzesco. C) così si è rinunciato in partenza ad avere tutti gli spettatori non milanesi… salvo che avessero deciso di spendere una fortuna e aggiungere ai prezzi dei biglietti anche quelli di un albergo dignitoso. Ma, insomma, una settimana in un 5 stelle del Mar Rosso costa meno.
Quale che sia la valutazione che l’ATP darà di questi primi due anni di esperimento Next Gen a Milano, il 14 dicembre sapremo quali sono le tre città candidate a ospitare le ATP World Finals e a marzo sapremo quale delle tre sarà stata prescelta. Inutile dire che per il tennis e la sua popolarità dalle Alpi alle Piramidi l’eventuale assegnazione delle finali ATP – quelle vere – a Torino per il 2021, costituirebbe un grandissimo colpo. Forse rispunterebbero nelle edicole perfino le riviste di tennis più desaparecide. La FIT ha appena annunciato la candidatura ufficiale di Torino cominciando dai ringraziamenti al CONI, alla Coni Servizi (che i 5 Stelle vorrebbero far fuori), al Governo, al comune di Torino, alla Regione Piemonte e chi più ha più ne metta. Ma i 20 milioni di dollari di tassa di entrata li dovrà garantire la FIT. Il Pala Alpitour sarebbe quello destinato a ospitare le Finali. Le mie Olimpiadi sono state tutte estive, dal 1992 in poi, e a quelle invernali del 2006 non c’ero per potervi dire se il Pala Alpitour è all’altezza o meno della magnifica O2 Arena. Ma ci si sono giocati mondiali di Volley e altri grandi eventi sportivi, come ha ricordato il sindaco Chiara Appendino. E certe competenze probabilmente ci saranno. Sulla crescente bellezza di Torino – e questo lo posso dire per averla visitata in tempi recenti – non si può davvero nutrire alcuna perplessità.
Quali chances avrebbe Torino? Beh, la FIT che ha accettato la scommessa della Next Gen a Milano, garantendone l’attuazione per 5 anni, quindi fino al 2021 compreso, ha acquisito dei meriti presso l’ATP o no? L’Italia è in credito? Kermode sorride e dice che “non lo può dire”. Ma lo sarebbe al punto da non escludere che nel 2021 si possa giocare la Next Gen a Milano fino al sabato e le World ATP Finals a Torino domenica? Oppure due manifestazioni ATP nello stesso Paese e a un’ora di distanza verranno giudicate incompatibili? In quest’ultimo caso, beh, cornuti e mazziati.
Dovessi puntare su una città diversa da Londra – al cui confronto qualsiasi altra città rischia di impallidire, anche se la Brexit potrebbe averne indebolito l’appeal – punterei comunque su una europea. Un po’ perché la stragrande maggioranza dei top-ten è europea, un po’ perché con l’ultimo Masters 1000 a Parigi-Bercy due settimane prima, far varcare gli Oceani per passare da Parigi chissà dove non mi parrebbe geniale. Né apprezzato dai giocatori che sono i padroni del giochino. Quindi niente Stati Uniti né Sud America, ma nemmeno Australia se Down Under ci si va da gennaio in poi. Impossibile, se la data resta quella, pensare a una qualsiasi candidatura francese, o cinese, perché i due Masters 1000 ravvicinati di Bercy e Shanghai parrebbero escludere tale ipotesi. No anche all’Oriente e al Medio Oriente dove i soldi abbondano, ma gli spalti sono sempre mezzi vuoti. Se si resta in Europa immagino che si debba prioritariamente pensare all’Europa Occidentale. Io dico che potrebbe rispuntare fuori la Germania, dove c’è un certo Zverev che da top-five farà certamente da traino alla popolarità del tennis una volta che gli attuali primi quattro del mondo, Djokovic, Nadal, Federer e del Potro si arrenderanno all’anagrafe e agli acciacchi. I soldi non mancano ai tedeschi, né la capacità di farli. E difatti quando avevano i Becker e gli Stich furono capaci di organizzare a distanza di poco tempo sia tante edizioni del vecchio Masters che la Coppa del Grande Slam. Ma non si possono sottovalutare neppure le chances della Russia, sebbene Khachanov e Rublev per ora nel loro grane Paese non suscitino le stesse fibrillazioni che provocarono Safin e Kafelnikov… ma allora il primo grande fan del tennis era Boris Yeltsin!
E Torino? Potrebbe avere le stesse chance di Bruxelles, una città che avrebbe bisogno di un recupero d’immagine europeo, ora che i vari populismi sparsi stanno mettendola sotto attacco da più parti. Sarà la Deloitte a studiare la consistenza delle varie candidature pervenute all’ATP. Per quanto mi riguarda non c’è dubbio che se le finali ATP venissero disputate in Italia sarebbe un magnifico spot per il tennis. Fare il tifo per Torino è un obbligo. Mica lo devo fare per la Juventus… (scherzo eh).
Editoriali del Direttore
Berrettini e Musetti. È vera crisi? No, ci sono troppi “becchini”. Perché io li difendo. Una fiducia motivata
A 27 anni Matteo Berrettini e a 21 anni Lorenzo Musetti non possono essere vittime di uno “stallo” duraturo. Aliassime, Rublev, Alcaraz, Ruud non hanno regalato i loro duelli. Il computer ATP non è stato manipolato per issarli n.6 e n.18 del mondo. Pioli, Inzaghi e Allegri…

Che Matteo Berrettini e Lorenzo Musetti stiano attraversando un bruttissimo periodo è purtroppo indiscutibile. A me dispiace molto per loro e confido che si riprendano abbastanza presto perché – sic et simpliciter – non mi risulta che abbiano conquistato vittorie e classifica mondiale manipolando avversari e financo il computer dell’ATP.
E’ inevitabile che le loro recenti ripetute sconfitte con avversari assai peggio classificati suscitino critiche e commenti severi. Giudizi che riflettono la delusione di quanti si erano affezionati all’idea complessiva e suggestiva di un vero “Rinascimento” del tennis italiano e si ritrovano invece oggi a potersi rallegrare soltanto per i risultati conseguiti da Jannik Sinner e, in misura minore, da Lorenzo Sonego.
E’ comprensibile che ciò accada, nondimeno mi dispiace che troppa gente scriva commenti cattivi e gratuiti su Matteo e Lorenzo. Avverto una sorta di sadismo in alcuni, di invidia in altri. Ma forse soprattutto di estrema superficialità.
Certo è che quando leggo questo genere di commenti sinceramente mi dispiace sia per loro due, sia – in tutta onestà – per chi li scrive perché a mio avviso non fanno bella figura. Mi dispiace – egoisticamente – anche per Ubitennis perché quel tipo di commenti vengono scritti anche qui su questo sito, sebbene non siano censurabili in quanto frutto di libere opinioni. Anche se non le condivido… non sarebbe infatti giusto cassarle solo perché non sono in sintonia con loro. Però mi piacerebbe invece sempre leggere commenti sereni e obiettivi di lettori intelligenti e come tali equilibrati…Sì, perché vorrei che quest’ultimo genere di commenti, appunto intelligenti ed equilibrati, ispirasse quelli di un numero sempre maggiore di lettori, in modo da fare crescere il livello di discussione e quindi di partecipazione a Ubitennis.
Ho già scritto molte volte che occuparsi di moderare centinaia, migliaia, decine di migliaia di commenti in capo a un anno, è una fatica improba e non solo perché porta via un sacco di tempo. E’ un lavoro complesso che richiede grande attenzione, equilibrio, aspirazione concreta all’oggettività pur nella inevitabile soggettività di ciascun moderatore. Una fatica ingrata che sarà sempre soggetta a critiche, talvolta per una mancata tempestività nella pubblicazione, talvolta per un atto censorio che può apparire discutibile, talvolta per disomogeneità di interventi quasi impossibile da combattere, ma certo mai preconcetta nei confronti di alcuno se questi si sia in genere ben comportato, espresso con toni educati e civili e in tema con l’argomento trattato…
Non è però certo un caso che una gran parte dei siti abbiano rinunciato alla pubblicazione dei commenti dei lettori. Da direttore-editore a me piacerebbe che Ubitennis si affermasse sempre più per un sito che raccoglie pareri e opinioni intelligenti, stimolanti. Non sono tantissimi coloro che commentano, ma sono tantissimi coloro che li leggono.
Dopo questa lunghissima e noiosa premessa vorrei tornare a ribadire in toto la mia fiducia nel prossimo futuro di due ragazzi, Matteo e Lorenzo, che hanno 27 e 21 anni. Con ancora – e proprio per via sia della loro anagrafe, nonché dell’impegno che mettono loro e i loro qualificati team, coach, fisio, mental coach etcetera – tantissimi margini di miglioramento.
Mi picco di essere stato fra coloro che hanno creduto nelle loro qualità quando molti sembravano dubitarne. Non credo di averlo fatto da tifoso.
A differenza di Lorenzo Musetti che già da junior aveva rivelato qualità non comuni, sotto i miei occhi vincendo da sedicenne il torneo junior di Firenze vent’anni dopo un certo Roger Federer su quegli stessi campi e all’incirca alla stessa età prima di laurearsi campione under 18 anche all’Australian Open, Matteo Berrettini nel 2016 _ a 20 anni e 8 mesi – era ancora n.433 ATP.
Era più difficile profetizzare per lui, piuttosto che per Musetti un grande futuro. Un futuro da top-ten. Figurarsi se da top-6.
Fui criticatissimo da molti lettori su questo sito quando, dopo aver visto diversi parecchi duelli fra primavera e autunno 2019 di Matteo – in gran parte vittoriosi ma anche taluni persi con una decina di giocatori “termometro di ottimo livello” quali Bautista Agut, Zverev, Aliassime, Rublev, Khachanov, Schwartzman, Monfils, Murray, Dimitrov, Nadal e poi Thiem più volte- mi sbilanciai sull’avvenire di Matteo.
Proprio dopo una partita persa di un soffio a Vienna con Thiem, con Dominik sospinto alla vittoria anche dall’entusiasta pubblico di casa, scrissi che secondo me Matteo non era così inferiore all’austriaco che pure aveva già colto importantissimi exploit al Roland Garros, ma aveva a mio avviso il potenziale per diventare a dispetto di quella sconfitta – se non top 3 o top 5 come Thiem era già stato – però uno stabile top-ten.
Oggi che Federer è andato in pensione, che Nadal è uscito dai top-ten dopo 18 anni, che Djokovic si batte contro i vaccini e l’anagrafe, dovrei aver cambiato idea solo perché Matteo ha perso una serie di partite di fila? Non la cambio, anche se ho sempre ammesso che il suo rovescio – salvo che sull’erba – è e resta (nonostante qualche progresso) il più debole rovescio dei top 20, forse dei top 30…anche perché paga anche una mobilità francamente non al livello dei migliori del mondo. Una mobilità che lo penalizza in fase di risposta al servizio, e via via quando lo scambio si prolunga, ma quando si è alti un metro e 96 cm e si pesa sugli 85 kg, non è facile da conquistare. Soprattutto nei cambi di direzione e, in difesa, per via del rovescio bimane sul quale tutti cercano di attaccare, si deve superare anche l’handicap di quei 25 cm in meno di allungo. Chi si muove benissimo recupera (già Sonego è un esempio), chi invece non riesce paga dazio.
Ma altrettanto mi sento di dire che il suo servizio resta da top-3 e il suo dritto da top-5, purchè la percentuale di “prime” torni ad essere quella che è stata fra il 2019 e il 2021, purchè il lavoro atletico lo riporti a riconquistare la stessa agilità di quel suo miglior biennio in modo che lui possa riprendere a girare attorno alla palla per colpirla con un furioso dritto dei suoi, ma senza troppo scomporsi. E’ anche fondamentale il ritorno della fiducia, certo. Ma questa torna appena si sistemano quei primi due aspetti appena citati e arrivano i primi inevitabili risultati. Se non si è sofferto per uno straordinario infortunio fisico quale quello patito da Thiem – e forse anche da Zverev – a 27 anni non si può essere finiti.
Io almeno non ci credo, anche se nello sport ne ho viste accadere tante. A parte il caso Bjorno Borg, consumato e prepensionato a 26 anni, anche John McEnroe dopo il magico 1984, dai 26 anni in poi non è più riuscito a giocare come prima. Ma nel suo caso cambiarono le racchette, il tennis subì una profonda trasformazione, diventò molto più potenza che tocco, molto più fisicità che varietà, le battute superarono tutte i 210 km orari e in massa salirono alla ribalta sul circuito oltre a “Robot-Lendl” anche i vari “BoomBoom” Becker, i “Serve&Volley Edberg prima dei “Corri e Tira” Agassi, Courier, Chang o “Big Big Serve” “Sweet Pete” Sampras e “Mister Ace” Ivanisevic…
Non mi sembra, salvo che per il fenomeno Alcaraz e direi anche per il nostro Sinner – mi auguro! – che si stia profilando una tale irruente ondata di campioni capace di rendere impossibile il rientro di Berrettini fra i top-ten.
LEGGI A PAGINA DUE: Le chance e i meriti di Berrettini, e le critiche immeritate verso Lorenzo Musetti
Editoriali del Direttore
È morto Roberto Mazzanti, per 20 anni direttore di Matchball, la Bibbia dei veri appassionati di tennis
Tennis e giornalismo i suoi grandi amori. Sotto la sua guida saggia ed equilibrata hanno lavorato Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, Viviano Vespignani, un giovanissimo Scanagatta. un imberbe Stefano Semeraro, il boy Luca Marianantoni e tanti altri. Era impossibile litigarci

Aveva 82 anni, era stato colpito da un malore a gennaio. Purtroppo non si più ripreso Roberto Mazzanti, uno dei pochi, pochissimi giornalisti davvero signori, con i quali era impossibile litigare. Un uomo per bene. E non lo scrivo perchè ci ha lasciato, ma perchè è vero. E lo può dire e confermare chiunque lo abbia conosciuto.
Roberto era stato negli anni Settanta il direttore di Matchball (in edicola dal 1970 al 1996), la seconda rivista di tennis – dopo “Tennis Club” diretta da Rino Tommasi – per la quale poco più che ventenne avevo cominciato a collaborare, spinto dalla mia inesauribile passione per il tennis e per il giornalismo, gli stessi due grandi amori di Roberto. Per lui, come per me, era una passione romantica, senza mai l’ambizione di arricchirsi, ad alimentare quei due eterni amori.
Lui, bolognese, era cresciuto all’interno del Resto del Carlino dove era stato assunto inizialmente come correttore di bozze. Infatti, diventato poi redattore professionista del quotidiano bolognese, dividendosi fra le pagine della cronaca cittadina come dello sport – come sarebbe successo anche a chi scrive – non avrebbe mai sopportato i refusi.
Non l’ho mai visto arrabbiato, mai perdere il controllo, mai alzare la voce. Un gentiluomo con aplomb british, mascherato da un moderato accento emiliano. Adorava guardare il tennis, non solo quello dei grandi – venne anche a vedermi giocare la finale di doppio dei campionati italiani di Seconda Categoria al Circolo Tennis Giardini Margherita, lui che frequentava la Virtus del presidente (anche FIT) Giorgio Neri – ma gli piaceva anche giocarlo. E lo ha fatto da dilettante fino a tempi anche recenti, sebbene avesse scoperto anche il golf e, negli anni, gli fosse venuta anche la passione per le automobili, la tecnologia, il loro evolversi.
Lavoravamo per lo stesso gruppo editoriale, la Poligrafici, ma io – più giovane e scapolo mentre lui era sposato – ero più disponibile a sacrificare ferie e vacanze (a caccia di ospitalità o alberghi a due stelle) per andare a seguire il tennis nel maggior numero possibile di tornei.
Quindi per Nazione e “Carlino” accadeva che lui mi lasciasse il passo per gli Slam e che io lo lasciassi a lui per la Coppa Davis …che allora era una cosa seria, ma si esauriva in alcuni long-weekend e che potevano essere anche 5, 6 o 7 in un anno se l’Italia andava in finale come accadde per quattro anni su cinque fra il ’76 e l’80. Accadde anche che con quei ripetuti exploit dei nostri 4 moschettieri azzurri io mi ritrovassi a seguire insieme a Roberto anche quegli eventi a squadre.
Non esisteva Internet, né la composizione digital-elettronica e Matchball optò, anche per contrapporsi a “Il Tennis Italiano” che era un mensile, una cadenza quattordicinale. Usciva in edicole (sì, esistevano ancora…) ogni due martedì e sotto la guida di Roberto scrivevamo i nostri articoli Roberto, Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, il sottoscritto, Paolo Francia, Viviano Vespignani e (diversi anni dopo) si sarebbe aggiunto, fra i tanti, anche Luca Marianantoni con tutti i numeri che si portava appresso. In redazione due giovani di belle speranze, Stefano Semeraro e Enrico Schiavina., Al lunedì mattina Matchball doveva essere “chiuso” in tipografia. La domenica sera…si finiva per scrivere editoriali, pagelle, statistiche, a notte inoltrata. Sempre facendo le corse, perché magari le partite, ai più diversi fusi orari, finivano tardissimo e la copertura era massiccia. Per merito di tutto il team Matchball diventò ben presto la rivista leader e tale restò fino a che l’avvento di Internet, delle notizie on line, delle coperture televisive di più network, fece strage di gran parte delle riviste cartacee, impossibilitate a reggere la concorrenza sul piano della tempestività dell’informazione.
Roberto, giornalista elegante ed equilibrato, prediligeva i tennisti dal bel braccio, McEnroe, Panatta, Bertolucci (e più recentemente inevitabilmente Federer), Rino era prima innamorato di Rosewall e poi di Edberg, io stravedevo per l’arte e l’imprevedibilità di Nastase, per la grinta e i limiti tecnici di Connors oltre che per Boris Becker (per far da contraltare a Rino), quando sarebbe arrivato Luca avremmo annoverato nel team di Matchball anche un grande fan di Lendl.
Vabbè, vedete, anche adesso che Roberto ci ha improvvisamente lasciato affiorano nella mia mente tanti ricordi, tanti amichevoli dibattiti e lui che, con fare quasi ecumenico, mi diceva: “Dai Ubaldo scrivi le tue pagelle, falle un po’ tecniche, un po’ironiche, senza infierire mai troppo…anche se lo sappiamo tutti che se devi scrivere di promossi e bocciati, ai lettori piaceranno sempre più i voti bassi che quelli alti, quelli più critici che quelli pieni di elogi. Il mondo va così” diceva chiaramente dispiacendosene. E a quei tempi non esistevano ancora i leoni da tastiera, gli “webeti”. Che la terra ti sia lieve caro amico. E che tua moglie Anna, tuo figlio Luca, la tua nipotina adorata, sopportino con forza e coraggio il vuoto che lasci a loro e a tutti quelli che ti hanno stimato e voluto bene.
Australian Open
Australian Open: Il fenomeno Djokovic è di un altro pianeta. Tsitsipas non poteva fare di più. Non è la parola fine sul GOAT
I fenomeni non sono stati solo tre, Djokovic, Federer e Nadal. Perché se si dà peso primario ai titoli Slam, Rosewall e Laver non possono essere ignorati. E perchè un solo anno, e non sempre, laurea il vero n.1

Il resto del video, che qui potete vedere in anteprima, è disponibile sul sito di Intesa Sanpaolo, partner di Ubitennis.
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Non ho mai pensato che potesse finire diversamente. L’unico momento di dubbio l’ho avuto – insieme a Djokovic – quando entrambi abbiamo temuto che il suo problema alla coscia fosse un problema serio.
Così come gli altri due fenomeni, Federer e Nadal (elencati, a scanso equivoci, in ordine alfabetico), Novak Djokovic è di un altro pianeta rispetto a tutti gli altri contendenti. Come fenomeni sono stati nello sport più popolare – se cito soltanto i fenomeni del calcio, anziché altre discipline sportive, è perché è più facile che quasi tutti capiscano di che cosa parlo – Pelè a cavallo degli anni 60/70, Maradona un ventennio dopo, Messi e Cristiano Ronaldo nel terzo millennio.
Djokovic, Federer e Nadal (ancora in ordine alfabetico) hanno lasciato le briciole a tutti gli altri tennisti loro contemporanei. E l’hanno fatto con una continuità spaventosa, in un arco temporale inimmaginabile che ha spaziato fra i 15 e i 20 anni. Davvero incredibile.
Mentre i campioni Slam del passato una volta superati i 30 anni difficilmente riuscivano a restare competitivi per più anni,– salvo rarissime eccezioni: Rosewall, Connors, Agassi su tutti – mentre qualche straordinario campione come Borg o McEnroe ha smesso di giocare o di vincere già a 26 anni – questi tre hanno continuato a dominare il resto della concorrenza come se fosse la cosa più normale del mondo. E tutti a sorprendersi, a meravigliarsi con infinito stupore quando ciò, a uno dei tre, ma mai a tutti e tre insieme, non succedeva.
Nel conquistare il meritato appellativo di “fenomeni” i tre supercampioni non si sono limitati a registrare un record dopo l’altro pur dovendosi affrontare fra le 50 e le 60 volte in pazzeschi testa a testa, dopo essersi inseguiti come i celebri duellanti di Conrad ai tempi di Napoleone ai 5 angoli/continenti del mondo sulle più varie superfici. Ma tutti e tre hanno dato dimostrazione di formidabili e superiori doti tecniche, atletiche, caratteriali, intellettuali, morali, umane. Ho forse dimenticato un qualche aspetto?
A trovar loro un vero difetto, come campioni e come uomini, personalmente ho sempre fatto fatica. Anche perché li ho conosciuti tutti da vicino e fin da quando hanno cominciato a cogliere i loro primi stupefacenti successi, quasi imberbi, a 16 e 17 anni. Quando anche un “parvenu” del tennis avrebbe intravisto le loro eccezionali qualità. Personalità intelligenza, simpatia, resilienza, determinazione, avevano tutto fin da subito. Le si potevano scorgere a occhio nudo, senza farsi condizionare dalla semplice precocità.
Forse proprio Djokovic, il più giovane dei tre e colui che sembra destinato a restare sulla breccia più a lungo degli altri, è quello – anche per le sue posizioni NOVAX (peraltro coerenti al massimo, diversamente da chi ha presentato certificati falsi assolutamente imperdonabili) – che ha sollevato più casi controversi. Talvolta nemmeno interamente per sue responsabilità. Il background della sua famiglia, l’educazione, lo stile di vita, sono stati diversi da quelli di Federer e Nadal.
Eppoi lui è arrivato dopo di loro, quasi un intruso, in un mondo che tennisticamente si era diviso all’80% fra federeriani e nadaliani. Per conquistarsi un posto, ha dovuto farsi spazio fra loro, impossessandosi di quel 20% che era rimasto ai neutrali. E dovendo giocare dappertutto con folle di tifosi più ostili che amiche. In patria è diventato un simbolo, un eroe, un semiDio. Fuori no. E’ stata dura, molto più dura che per gli altri due fenomeni conquistarsi un suo pubblico, un suo status internazionale. Lo ha potuto fare nel solo modo che lo sport consente: i risultati. Risultati assolutamente straordinari. Pian piano ha battuto i suoi leggendari rivali più volte di quanto di avesse perso. Pian piano ha autorizzato i suoi estimatori a inserirlo nell’eterno dibattito sul GOAT, sul più forte giocatore di tutti i tempi.
Non si metteranno mai d’accordo i tifosi dei tre fenomeni. Tutti avranno buoni motivi per sponsorizzare il loro fenomeno d’elezione. Chi privilegerà un’epoca ad un’altra, una strong era a una weak era (e qualche vuoto pneumatico al top dei competitor c’è stato per tutti e tre), chi lo stile e l’eleganza, chi la forza e la garra, chi la completezza, chi una superficie o un’altra. E qualunque conclusione verrà raggiunta sarà sempre ingiusta. Anche perché se in uno stesso anno possono cambiare in maniera pazzesca le cose – pensate solo al 2016 con i primi 6 mesi di Djokovic e i secondi 6 mesi di Murray – e figurarsi da un anno all’altro – pensate al 2017 e ai 4 Slam divisi fra i “risorti” Federer e Nadal che molti avevano già dati per finiti – se si dovessero confrontare pacchetti di più anni, in cui sono magari cambiate le attrezzature, le superfici, ogni paragone fra epoche diverse condurrebbe a emettere verdetti assolutamente discutibili, comunque superficiali.
Oggi, e chiudo questo lunga premessa, i fan di Djokovic ebbri di gioia per i 22 Slam che hanno consentito a Nole di eguagliare i 22 di Rafa Nadal e di “staccare” definitivamente i 20 di Federer sembrano aver buon gioco a sostenere che chi vincerà più Slam a fine carriera potrà tappare la bocca a tutti gi altri pretendenti al GOAT.
Ma non è così. Ken Rosewall, cui abbiamo dedicato un bell’articolo in questi giorni, ha vinto 8 Slam ma ne ha dovuti saltare – perché professionista per 11 anni – ben 44. E Rod Laver, unico campione ad aver realizzato due volte il Grande Slam (1962 e 1969, a sette anni di distanza, i suoi migliori 7 anni…), ha vinto 11 Slam dovendo saltare 20 Slam fra il 1963 e il 1967. Non potevano essere loro i GOAT? I fenomeni del tennis non sono stati solo tre.
Quelle ultime due lettere, A e T, stanno per ALL TIME. Se allora ALL TIME, per i motivi su esposti, non si può dire, limitiamoci allora a dire chi sia stato il miglior tennista del mondo anno per anno. E solo in quel caso è più probabile che non ci si sbagli, anche se – ripetendo l’esempio fatto poc’anzi – se si prende in esame un anno come il 2016 nel quale Novak domina i rimi sei mesi, Andy Murray i secondi sei, e il computer ATP assegna il numero uno year-ending a Murray perché vince la finale del Masters…beh anche in quel caso siamo così sicuri che il verdetto fosse così inequivocabile, inappellabile? Una sola partita può decidere chi sia il miglior tennista di tutto l’anno, solo perché lo dice un computer che – cito per l’ennesima volta Rino Tommasi – “sa far di conto, ma il tennis non lo capisce?”.
Vabbè, torno sulla finale e sulla superiorità disarmante di Djokovic perfino al termine di un match non immune da pecche, da errori evitabili, da nervosismi quasi inesplicabili come quello che lo ha colto a metà del secondo set quando avrebbe potuto continuare a gestire tranquillamente il match come aveva fatto fino ad allora.
Tsitsipas non poteva far molto di più, salvo che – nel tiebreak del secondo set – evitare quei quattro errori di dritto, il suo colpo migliore andato improvvisamente…in barca.
Ma Djokovic, che è indiscutibilmente da anni il miglior ribattitore del mondo – e qui, su questo giudizio, credo possano essere d’accordo perfino i tifosi di Federer e Nadal – era stato ingiocabile sui propri servizi. Fino a quel game in cui Tsitsipas è riuscito – sul 4-5 del secondo set- a conquistarsi contemporaneamente sia la prima palla break che l’unico setpoint Djokovic, aveva lasciato al più temibile dei suoi avversari la miseria di sei punti nel primo set in cinque turni di battuta (la sola volta che Stefanos era arrivato a 30 però Novak era avanti già 3-1 e 40-0) e nel secondo set 5 punti nei quattro turni di servizio. Mai Tsitsipas era ancora arrivato a 40.
Ok? Bene: c’è arrivato in quel frangente e sulla pallabreak-setpoint che fa Djokovic? Prima di servizio e dritto vincente.
Poi un tiebreak giocato maluccio da entrambi, perché sul 4-1 per Nole frutto di tre minibreak seguiti a 3 inattesi errori di dritto di Tsitsipas Nole ha prima regalato un insolito rovescio per lui banalissimo e poi ha fatto anche il secondo doppio fallo del suo match. Ma sul 4 pari ecco di nuovo Tsitsipas, evidentemente teso come una corda di violino, sbagliare un quarto dritto! Djokovic non se l’è fatto dire due volte e dal 4 pari al 7-4 è stato un gioco da ragazzi.
Qualcuno poteva illudersi che dopo il toilette break e l’unico servizio perso da Nole all’inizio del terzo set le cose potessero cambiare? Forse neppure l’irriducibile Tsitsipas.
Dal 2 a 2 in poi Djokovic – che ribadisco essere il miglior ribattitore del mondo – tiene per 4 volte consecutive il servizio a zero: 17 punti di fila (contando l’ultimo che gli aveva dato il 2-1 in un game vinto a 15). Cui seguiranno gli altri primi tre del tiebreak che decide l’ultimo tiebreak in cui, giusto per non illudere Tsitsi e le migliaia di fan greci che non smettevano di gridare “Tsitsipas, Tsitsipas” – mentre fuori dal centrale la stragrande maggioranza nel garden davanti al mega schermo era invece serba (mica facile procurarsi i biglietti…) – Djokovic sale sul 5-0, subisce dopo 20 punti conquistati con il servizio un mini-break, ma poco dopo chiude con un dritto vincente sul terzo matchpoint.
Sì, mi scuso, ho riscritto una cronaca che Cipriano Colonna aveva già scritto brillantemente chiudendola su Ubitennis nei 5 minuti successivi alla conclusione, ma solo per sottolineare come oggi perfino un Djokovic che ha giocato senza fare troppe cose straordinarie, è stato assolutamente ingiocabile in 12 turni di servizio su 14 (salvo che sul 4-5 e sul primo gae del terzo set) ed è sempre stato fortissimo – sì, proprio come sempre – quando doveva rispondere.
I suoi record li abbiamo già ricordati dappertutto. Non credo serva scriverli ancora, prima di cominciare a pensare a che cosa potrà accadere nel regno di Nadal al Roland Garros. Novak ha perso un solo set nel torneo, ma perché con Couacaud al secondo turno gli faceva male la coscia sinistra. Però se fossi stato a Melbourne tutti i suoi dieci trionfi, i 22, i 93, le 374 settimane da n.1 (verso le 377 di Steffi Graf) magari avrei trovato un modo per ricordarglieli in conferenza stampa.
Qua dico soltanto….davvero not too bad! carissimo fenomeno Djokodiecivic.