ATP Finals, spunta San Pietroburgo. La Regione cerca fondi per Torino (Semeraro). Matteo Codignola: “Il tennis e la letteratura? Uguali. Se sbagli il colpo stracci e butti via il foglio” (Mascheroni)

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ATP Finals, spunta San Pietroburgo. La Regione cerca fondi per Torino (Semeraro). Matteo Codignola: “Il tennis e la letteratura? Uguali. Se sbagli il colpo stracci e butti via il foglio” (Mascheroni)

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ATP Finals, spunta San Pietroburgo. La Regione cerca fondi per Torino (Stefano Semeraro, La Stampa)

Anche la Regione scende in campo concretamente per il progetto che vuole portare le Atp Finals a Torino dal 2021 al 2026. Sergio Chiamparino e il suo braccio destro Carlo Bongiovanni ieri hanno incontrato Diego Nepi Molineris (Coni) e Isidoro Alvisi (Fit), ribadendo che il Piemonte è pronto a sostenere sia economicamente sia istituzionalmente l’iniziativa, agendo da volano per raccogliere le risorse produttive del territorio e sostenere la candidatura. Per questo l’11 dicembre, quando i responsabili dell’Atp arriveranno in città per verificare sotto tutti i profili l’offerta della cittadina, accanto a Fit, Coni, Comune e governo ci sarà anche un rappresentante della Regione. L’obiettivo a breve termine è quello di entrare nella «short-list», nel gruppo ristretto di tre città che l’Atp annuncerà entro fine anno e che si contenderanno poi l’assegnazione del prossimo marzo. Fra le concorrenti ci sono Londra – che da dieci anni ospita con successo il torneo che mette in campo gli 8 migliori tennisti dell’anno — e poi Abu Dhabi, Singapore, Pechino (o Shanghai), San Pietroburgo. «È una gara non facile, nessuno se lo nasconde», dice Diego Nepi Molineris, responsabile Marketing e Sviluppo del Coni. «Torino e l’Italia, con il successo anche economico del Foro Italico e con lo sforzo organizzativo delle Next Gen Finals di Milano, hanno dimostrato di sapersi sedere al tavolo con tutti. L’importante è credere in sè stessi. E comprendere, ha fatto il presidente Chiamparino, che le Atp Finals per il Piemonte non sono solo un torneo di tennis, ma un biglietto da visita lungo cinque anni per rilanciarsi a livello internazionale, facendo impresa oltre che sport. L’esempio è un po’ quello che è riuscito alla Juventus, che si sta imponendo come marchio a livello mondiale»[SEGUE]. Oggi dopo la giunta comunale i rappresentanti di Coni e Fit incontreranno la sindaca Appendino e l’assessore allo Sport Finardi, sul piatto tutto ciò che riguarda le infrastrutture («A partire dal PalaAlpitour, che ha già attorno un parco su cui ad esempio la 02 Arena di Londra non può contare») organizzazione, offerta digitale, accoglienza.


Intervista a Matteo Codignola: “Il tennis e la letteratura? Uguali. Se sbagli il colpo stracci e butti via il foglio” (Luigi Mascheroni, Il Giornale)

Forty, love. Sono quarant’anni, forse anche qualche palleggio in più, che Matteo Codignola ama forsennatamente il tennis («Scriva pure che ne sono vittima»). Lo ama da giocatore («Ho iniziato da ragazzino e non ho mai smesso»), da spettatore («Fosse per me lo guarderei in tivù anche 24 ore su 24»), da lettore («Diciamo che maneggio al materia»), e da scrittore: da tempo lo fa per un magazine di sport&cultura. Mentre di pubblicare un libro ci ha pensato per anni. Solo che non sapeva cosa raccontare. Poi, tempo fa, il suo amico Vincenzo Campo (editore sofisticato di Henry Beyle e cacciatore di mercatini) trova una valigia zeppa di vecchie fotografie d’agenzia, tra cui un centinaio sono di tennis, scattate nel circuito amatoriale del secondo dopoguerra, anni ’50 e ’60, prima che nascesse il professionismo come lo intendiamo oggi, cioè prima dell’era Open nel 1968… [SEGUE]. Ed ecco Vite brevi di tennisti eminenti (un po’ biografie d’autore, un po’ cronache al massimo livello di uno sport minore, un po’ riflessione autoironica sul gioco più serio che esista) pubblicato dalla stessa casa editrice di cui Codignola – genovese di nascita, milanese di rinascita e tennista più che amatoriale – è editor di lungo corso e traduttore. Tra gli altri di Patrick McGrath, Mordecai Richler, Patrick Dennis e John McPhee (autore peraltro ben noto a chi sa di letteratura e di tennis…). Vite brevi, storie fantastiche (per quanto vere). Come quella del barone Gottfried von Cramm, nobile eleganza e classe teutonica, forse – secondo una battuta crudele ma perfetta – «il più forte giocatore a non aver mai vinto Wimbledon». O come quella («una delle mie preferite…») di Eleanor “Teach” Tennant, la prima grande coach della storia del tennis: indipendente, sessualmente libera, amica di mezza Hollywood, fanaticamente devota alla sue allieve. O quella del losangelino Pancho Gonzales (1928-95), «il più grande di sempre», ma che in pochissimi hanno avuto al fortuna di vedere, dato che giocava nei circuiti professionisti, quindi fuori dai tornei del Grande Slam, e che a 41 anni, nel ’69, a Wimbledon, vince la partita più lunga mai giocata fino a quel momento… Dietro quelle foto d’epoca ci sono storie meravigliose. Dietro le copertine e le conferenze stampa dei campioni di oggi… «C’è quello che loro vogliono che tu sappia. Sono giocatori straordinari, intendiamoci. Ma sopratutto grandi personaggi mediatici dei quali, al di là di ciò che ti dice il loro portavoce, non sai niente. Una volta i tennisti giocavano di meno ma giravano di più. Li vedevi, ci parlavi, di loro si sapeva molto… Le cronache giornalistiche di quegli anni – ricchissime di aneddoti, battute, curiosità dentro e fuori dal campo – sono stupende… Un po’ meno i libri. Erano ragazzi che a 35-40 anni si ritrovavano senza sapere più cosa fare, e così si mettevano a scrivere un’autobiografia, con l’aiuto di un ghost, e quasi mai divertente: poco più di un elenco di match. Il tennis ha sempre prodotto un’editoria sotterranea mediamente noiosa». Fino a Open. L’eccezione. «Open è un notevolissimo caso di scuola, un libro che alla storia di Agassi aggiunge molto, e toglie anche qualcosa – diciamo così – di “spinoso”. Ma è un libro che si è fatto leggere da milioni di persone proprio perché è stato costruito da un grande scrittore, J.R. Moehringer, sull’impalcatura del Grande Romanzo Americano. E qualcosa un po’ più del tennis, qualcosa un po’ meno della letteratura». Qual è il rapporto tra tennis e letteratura? «Mi sono fatto l’idea che nel tennis, rispetto a tutti gli altri sport, c’è una indubitabile ricerca della bellezza, del “bel gesto”, un desiderio di eleganza formale che si può accostare a quell’armonia, o equilibro, che qualcuno – non tutti… – ricerca scrivendo. Di più: nel tennis c’è la stessa ossessione e la stessa incontentabilità che trovi in letteratura. Cerchi sempre la partita perfetta, senza sbavature, come nella scrittura. Se sbagli un quindici, appallottoli e butti via il foglio…». Cosa significa – cito – che «tra la linea di fondo del campo e la rete ci sono più cose di quante ne contenga la filosofia di un giocatore»? O di uno scrittore… «Significa che nel tennis tu pensi in continuazione, in maniera – anche qui – ossessiva, per tutta la durata della partita: pensi nelle pause, mentre colpisci la palla, mentre la raccogli. Pensi cosa c’è che non va, perché hai fatto quell’errore, pensi al terrore che ti paralizza quando la possibilità di vincere inizia a prendere forma. E pensi anche nei momenti in cui continui ostinatamente a ripetere, senza una logica apparente, il tuo errore. Il punto è, come disse un grande coach, che il giocatore di tennis non ha mai un piano B. Solo un piano A. Non so, in quello strano rettangolo c’è qualcosa di più di quello che vediamo…». Genio e sregolatezza vanno sempre insieme, nello sport e anche in letteratura. E così? «Premessa. A me piacciono i talentuosi; mai avuto la mistica del “mediano”, o il culto del gregario. Ma credo che non esista il genio senza sudore e lavoro. Non ci credo. C’è l’intuito, la predisposizione, ci sono tante cose, certo… Ma per essere il numero uno devi studiare, allenarti, sputare sangue. Nella scrittura e nello sport. Roger Federer – che io reputo il giocatore più talentuoso mai esistito – è una splendida macchina da guerra. Ma non spunta dal nulla. È frutto di migliaia di ore di allenamento. Nel tennis, e in letteratura, non basta il talento. Non è mai bastato». Il libro, e il tennis in generale, è pieno di storie di inglesi, americani, australiani soprattutto. E di italiani anche. Cosa ha dato l’Italia al tennis? «Molto. Grandi giocatori, come Giorgio De Stefani negli anni Trenta. Ha dato Beppe Merlo, esile, amatissimo dalle donne, che giocava pianissimo ma vinceva contro tennisti che avevano quattro volte la sua forza. E poi, in un’altra stagione, ha dato un giocatore come Panatta. Io non amo molto il tennis vintage e lentissimo, preferisco quello attuale. Ma di recente mi sono imbattuto nel documentario The French, sul Roland-Garros… Ho visto tre spezzoni di Panatta. E mi sono ricordato delle cose sovrumane, per bellezza, che faceva». Tennis e editoria. Come va la partita? «Bene, meglio che nel cinema forse. Detto tra di noi Borg McEnroe e La battaglia dei sessi, usciti l’anno scorso, sono due film ben fatti, ma deludenti. Le storie sono belle. Quello che manca è il gioco, che nessun tentativo di imitazione, o di ricostruzione, riesce a rendere. In compenso, sì, vedo che i libri sul tennis anche da noi cominciano ad avere il loro pubblico… [SEGUE].

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