Non è davvero solo colpa di David Haggerty se la Coppa Davis ha recitato il De Profundis con l’edizione n.107 (vedi articolo-commento di Vanni Gibertini e anche il mio di qualche giorno fa). Il dirigente americano potrà sempre dire, anche se Yannick Noah gli ha gridato in faccia tutto il suo disgusto e quanto fosse incavolato – a lui, come al presidente della Federazione francese Giudicelli e indirettamente a tutti i presidenti delle federazioni che hanno votato per questa riforma così radicale, inclusa quindi la nostra italiana che ha cercato di nascondere fino all’ultimo le proprie intenzioni in modo più squallido che ambiguo – che se in fondo più del 75% delle nazioni aderenti alla Federazione Internazionale (ITF) hanno votato a favore, significa che essa è stata più che condivisa.
I METODI DISGUSTOSI PER IL VOTO DI SCAMBIO
A proposito di disgusto… soprassediamo, per carità di patria, sui metodi non meno disgustosi attraverso i quali alcuni di quei voti sarebbero stati conquistati. Per parecchie federazioni si è trattato di un vero e proprio voto di scambio cui si è prestato chi voleva ottenere wild card, chi sperava di ottenerle, chi pretendeva sconti sui diritti televisivi passati e/o futuri, chi voleva strappare promesse di vario tipo, chi aspirava a futuri incarichi nel board dell’ITF. Metodi purtroppo cui quasi nessuno sport è immune – gli scandali FIFA e UEFA da Blatter a Platini sono ben noti nel mondo del calcio, meno noti in altre discipline meno popolari ma ci sono anche lì – soprattutto quando i dirigenti si ritengono poco o mal retribuiti. E quasi sempre si ritengono tali. Ovviamente – va detto a scanso di equivoci – perché ci sia un voto di scambio ci vogliono due parti che si mettano d’accordo. Una non basta.
ROMANTICI ALLA NOAH, INGENUI ALLA CILIC E BUSINESSMEN
Si è chiaramente avvertito in questo periodo il contrasto fra chi vive le cose in maniera nostalgica per il tempo che fu e più sentimentale, quasi romantica, e chi invece ormai vede lo sport soprattutto come business e allora… business is business, i soldi sono la molla di tutto.
La Coppa Davis è certo finita per un tipo come Yannick Noah che evoca sentimenti genuini dell’innamorato dello sport al di sopra del Dio dollaro: “Ma quanto vale per un raccattapalle stringere la mano a Lucas Pouille e fare una foto con lui? Vengo da un sogno che ho vissuto fin da bambino, quando un giorno qualcuno (Arthur Ashe) mi ha stretto la mano e mi ha regalato una racchetta. Questo non accadrà più. Quello che è successo a Lille questo week-end, tra noi e i giovani, non succederà più a Singapore (né a Madrid né altrove), lo so”. Ma ha un senso però anche quel che aveva detto Marin Cilic: “Sono triste di veder scomparire una competizione per come l’abbiamo conosciuta, ma penso anche che la nuova Davis possa permettere a dei Paesi come la mia Croazia di veder crescere i propri mezzi in modo da poter permettere la promozione del tennis fra i giovani”.
Fra queste due posizioni più estreme, romantica quella di Yannick, pragmatica quella di Marin, c’era quella più intermedia, più di compromesso, di Nicolas Mahut: “C’erano altri mezzi per recuperare i soldi. I tornei dello Slam avrebbero potuto donare una parte dei loro ricavi (enormi… i giocatori si sono sempre lamentati della modestissima percentuale che è rappresentata dal montepremi; nota di UBS) e la Coppa Davis sarebbe sopravvissuta. Abbiamo provato a dare un sacco di idee. Ora io non tiro una pietra alle piccole federazioni. Ma il fatto che la Francia abbia votato a favore della riforma, questo non è davvero ammissibile”. Allora va premesso che non c’è dubbio che le federazioni ricche che hanno votato a favore della riforma, come la Francia, l’Italia, gli Stati Uniti, e altre, lo hanno fatto per scopi certamente meno nobili di quelle piccole realtà che invece dei soldi del signor Piqué – tre miliardi in 25 anni con una grossa fetta che finirebbe all’ITF e di riflesso alla federazioni sono tanti soldi – hanno effettivamente bisogno per sopravvivere e magari crescere. Sperare di crescere, perché del doman non v’è certezza.
L’AFFARISMO AUSTRALIANO SENZA SCRUPOLI
Così come va detto che se Tennis Australia ha votato invece contro – pur essendo una federazione che ha avuto dal 1991 al ’99 nel suo ex presidente federale Brian Tobin il presidente dell’ITF, predecessore di Ricci Bitti – e da sempre era stata elemento cardine dell’ITF, è stato perché all’Australia oggi conviene molto di più che si sviluppi l’altro evento a squadre, anzi gli altri due eventi a squadre: a) quello promosso in partnership con l’ATP, l’ATP Cup che dai primi del gennaio 2020 fino al torneo di Sydney escluso dovrebbe decollare in sostituzione della Hopman Cup a Perth e del torneo di Brisbane (più una terza sede che potrebbe essere Darwin per un equilibrio geografico fra i vari punti cardinali dell’Australia… ma sarà più probabilmente una questione di dollari a far scegliere la terza città nella quale si disputeranno i gruppi eliminatori); b) la Laver Cup che è gestita, con il manager di Federer Tony Godsick e lo stesso Roger, sempre dalla federazione australiana con tutto il suo staff e che ha per partner anche la federazione statunitense, mai distratta quando si tratta di far business e soldi.
MAHUT HA PECCATO DI DEMAGOGIA – LA RIVALITÀ FRA SLAM
Ma anche Mahut qui ha fatto un intervento piuttosto demagogico, come potrebbe fare qualcuno che non conoscesse la reale situazione: gli Slam non appartengono all’ITF, ma sono entità a se stanti, ciascuna va per conto suo. Esiste sì un comitato del Grande Slam, con l’avvocato del Minnesota Bill Babcock che da 20 anni ne è il direttore, ma di fatto ha poteri molto limitati. Anche se le federazioni fanno parte dell’ITF, l’US Open appartiene all’USTA che può decidere di imporre il tiebreak al quinto set anche se gli altri Slam non sono d’accordo e non si va a maggioranza (come sarebbe auspicabile per dare le stesse regole a tutti). Il Roland Garros è della FFT, la federazione francese che può decidere di avere tre domeniche per la disputa del suo Slam e cominciare quindi con un giorno d’anticipo rispetto agli altri (rispetto a Wimbledon ha così due giorni di più di incassi e di diritti tv, visto che Wimbledon comincia il lunedì e chiude i Doherty Gates nella domenica di mezzo: quindi i Championships hanno solo 13 giorni “utili”).
L’Australian Open come abbiamo visto fa quel che vuole infischiandosene dell’appartenenza all’ITF e decidendo di aprire e chiudere il tetto più o meno quando fa comodo (le regole della Heat Policy le ha messe Tennis Australia e le applica secondo una flessibilità che non usa in altre situazioni; fa firmare ai giornalisti un documento nel quale questi si impegnano a non sollecitare le scommesse e poi per anni ha avuto la William Hill fra gli sponsor principali da quattro milioni di euro l’anno); Wimbledon infine appartiene all’All England Club che versa i ricavi netti per il 90 per cento alla LTA, la federazione inglese che nell’ultimo bilancio ha sì registrato un “rosso” di 7 milioni di sterline – ma c’era da costruire il tetto per il campo n.1 e tutta un’altra serie di lavori importanti da pianificare e anticipare – ma ha 150 milioni di sterline di deposito fruttifero nel proprio conto in banca. Con quella americana è la federazione più ricca. Ma quella australiana se continua così si avvicinerà.
Per mettere d’accordo su una qualsiasi cosa i quattro “proprietari” degli Slam non basterebbe neppure il miglior Kissinger. Ricorderete il discorso delle sanzioni ai giocatori, emerse anche nel caso della squalifica di Fabio Fognini allo US Open 2017. Nessun altro Slam voleva dimostrare la propria solidarietà al provvedimento preso. E se Fognini fosse diventato una star? Se si fosse trattato di un top-player? Se uno Slam squalifica un giocatore lo fa per il suo torneo, non per gli altri. Quello successivo in calendario non sarebbe mai disposto a subire le eventuali conseguenze di una squalifica eventualmente imposta a un top-player. Non ci penserebbe nemmeno. E anche sull’entità dei montepremi, e di quanto possono offrire ai giocatori in termini di servizi, per ingraziarsene la partecipazione, i quattro Slam si fanno anzi una concorrenza non indifferente. Di fatto annunciano gli incrementi di montepremi quasi a sorpresa, come per prendere in contropiede gli altri “fratelli” (coltelli?). Immaginatevi poi se i quattro proprietari degli Slam si preoccuperebbero di finanziare le attività giovanili della Croazia, dello Zimbabwe, della Thailandia e di 120 piccole nazioni sparse per i cinque continenti. Figurarsi.
MAHUT E LA CONDANNA DELL’IPOCRISIA DI GIUDICELLI
Detto questo, e sottolineata quindi l’incongruità dell’affermazione di Mahut, il doppista francese ha però ragionissima a sostenere quanto sia stata assolutamente ipocrita la condotta del suo presidente Giudicelli che aspira a succedere alla presidenza ITF di Haggerty. L’americano, dopo un secondo mandato non potrebbe essere rieletto, salvo che abbia imparato a muoversi come il nostro impareggiabile Francesco Ricci Bitti, il quale ha fatto esercizi straordinari di equilibrismo per mantenere la propria ben retribuita poltrona di presidente ITF, poco inferiore ai 500.000 euro annui fra una cosa e l’altra, per 16 anni, quattro mandati di quattro anni, senza mai cambiare niente: un capolavoro strategico di grandissimo immobilismo!
Tutti i giocatori francesi, tutta l’opinione pubblica francese era contraria alla riforma della Davis e Giudicelli invece ha sposato la causa Haggerty. Quando grazie agli introiti del Roland Garros e ai successi (anche di ricavi) della squadra di Coppa Davis – tre finali in cinque anni, 2014 sconfitti da Federer e soci, 2017 vittoriosi sul Belgio, e 2018 –, non solo a Lille ma anche altrove, la FFT ha guadagnato montagne di soldi. E in quest’ultima Coppa senza neppure poter contare su un tennista top 20. I tennisti francesi sperano che Giudicelli non se la cavi con il processo per il quale è imputato… E ciò anche se Giudicelli ha fatto comprare una pagina de l’Equipe per ringraziare, con un gigantesco MERCI (grazie), “au jouers pour l’emotion, au staff pour la preparation, aux supporters pour leur passion”, firmato Federation Francaise de Tennis.
LE ILLUSIONI DI CILIC – IL CASO DELL’UNGHERIA
Anche a proposito della dichiarazione di Cilic ho qualche riserva. Mi sa che Cilic si illude sul fatto che i soldi che arriverebbero a un centinaio di piccole povere federazioni verrebbero davvero gestiti a beneficio del tennis e dei giovani che volessero avvicinarsi al tennis. Forse Cilic non ha avuto le mie stesse occasioni di incontrare tanti dirigenti di varie federazioni, di vari Paesi (a me è capitato in tanti tornei, in tante Davis). Troppi dirigenti di troppe nazioni (e non solo in Africa, che è sempre stato un bacino importante e piuttosto influenzabile con modi non sempre leciti e trasparenti per chi era a caccia di voti) non sono affidabili. So – un esempio per tutti – che i migliori tennisti ungheresi di Davis e Fed Cup, Fucsovics e Babos, sono inferociti con il presidente della federtennis magiara Attila Richter e hanno dichiarato a più riprese che mai giocheranno per il proprio Paese finché lui resterà su quella poltrona. Perché?
Perché pare che i soldi messi in palio dall’ITF li abbia sempre intascati la federazione senza farne toccare che una minima parte ai giocatori e anche perché il torneo di Budapest da 250.000 dollari che Tiriac ha “trasferito” in Ungheria ottenendo sussidi delle autorità locali avrebbe dovuto richiedere spese di massimo 750.000/un milione di euro – di solito per un torneo si calcola fra le tre e le quattro volte per il costo del montepremi – e invece pare siano stati necessari fra le pieghe del bilancio del torneo quasi 2 milioni. Come si è fatto a spendere così tanto? Fucsovics e Babos sono convinti di saperlo. Haggerty – che era sempre stato ottimista sull’esito del voto di Orlando ad agosto – ha detto anche che non gli era possibile rivelare i nomi dei Paesi che avessero votato a favore della riforma e quali contro. Ma è chiaro che tutti i mesi precedenti sono serviti a contattare e negoziare i sì. Il suo ottimismo era dunque abbastanza giustificato dagli accordi presi. E allora a questo punto è inutile scandalizzarsi. Piuttosto, guardando avanti, cosa succederà?
GERARD PIQUÉ E LA PROPOSTA SEXY – COSA VUOLE HAGGERTY
Gerard Piqué – che si presume parli per nome e conto di Kosmos, Rakuten, Larry Ellison e forse ITF – ha detto l’altro giorno: “Abbiamo riflettuto su diverse possibilità. Non possiamo annunciare nulla perché non abbiamo ancora trovato un accordo nella riunione tenutasi a Londra (durante le finali ATP). Ma siamo più vicini che prima della riunione”. Piqué e l’ATP avevano proposto di fondere in un unico evento la ATP Cup e la Davis, ma Haggerty (che pure ha ritenuto un progresso l’incontro di Londra) ha rifiutato. Pare che lo abbia fatto dicendo di non avere mandato per agire da tutte le federazioni. Di fatto sta trattando.
Pare anche che si stia trattando sul fatto che l’ITF potrebbe cedere una delle sue quattro settimane abitualmente spettanti alla vecchia Davis (quella di aprile: per la Laver Cup?) pur di conservare quella di febbraio per i play-off di 24 squadre che devono diventare 12 e unirsi alle 4 semifinaliste di quest’anno (e di ogni anno) più due wild card che per Madrid sono già state concesse a Inghilterra – nessuno è miglior lobbista di un inglese – e Argentina (Paese che ha votato di sicuro per la riforma Haggerty). In cambio Haggerty chiede che l’ATP ceda all’ITF una settimana a settembre da attaccare all’altra per poteri disputare sia Davis Cup con più respiro sia in futuro la Fed Cup per otto o anche 12 squadre. Ma l’ATP che ha il supporto dei giocatori (felicissimi di poter giocare l’ATP Cup prima del torneo di Sydney e in preparazione all’Open d’Australia) pare avere il coltello dalla parte del manico. A questo proposito Piqué ha aggiunto: “I giocatori lottano per i loro interessi, è normale che sia così. E quel che noi vogliamo è di rendere le cose più facili per loro. Forse si dovrà sacrificare qualcosa. Se si vuole ricreare una grande competizione è obbligatorio che i grandi giocatori la giochino. Forse non l’anno prossimo o fra due anni. Ma, a lungo andare, questo evento dovrà diventare… sexy (ha detto proprio così), interessante per i giocatori”.
NON BASTA CHE LA NUOVA DAVIS DIVENTI SEXY PER I GIOCATORI…
Speriamo allora che la Davis diventi davvero sexy per i giocatori, ma secondo me deve diventare sexy (sesso a pagamento?) soprattutto per i loro agenti, cui chi scrive si sente di imputare più che a chiunque altro (insieme ai giocatori che oggi fanno tanto i patrioti, ma hanno dimostrato di esserlo soltanto fino a quando è loro convenuto) la morte della Coppa fatta coniare da Dwight Davis 118 anni fa. Il fatto assodato è che i top-player dalla Coppa Davis hanno sempre ricavato poco o niente dal giocarla – rispetto ai guadagni che potevano fare altrove in qualche esibizione giocata in qualche Emirato – ma fino a che non l’hanno vinta, loro che hanno probabilmente sognato come tutti i ragazzini di “arrivare in Nazionale” e diventare idoli in patria, hanno fatto di tutto per riuscirci. Una volta raggiunto lo scopo e messa la Coppa in bacheca, l’anno dopo (anzi due mesi dopo) hanno spesso guardato la loro squadra che retrocedeva da lontano. Con la massima indifferenza. Ed egoismo. Ciò anche se Djokovic ha sempre detto che la vittoria in Davis nel 2010 gli aveva dato l’entusiasmo, la fiducia e la spinta a un 2011 da favola con la prima incoronazione a n.1 del mondo. E così nel 2014 Federer e Wawrinka hanno coronato il sogno che Murray aveva realizzato nel 2015 e del Potro nel 2016. E Nadal prima di tutti loro. Tutti ad abbracciarsi alla bandiera, a piangere al suono degli inni. Ma poi, passata la festa gabbato lo Santo e… chissenefrega.
… DEVE DIVENTARLA ANCHE PER GLI AGENTI
Perché, già tutti ormai nababbi, avevano così disperato bisogno di guadagnare ancora altri milioni rinunciando a disputare la Coppa Davis affossandola di fatto come hanno fatto? Un anno fa la Francia conquistò la Coppa senza incrociare sulla propria strada alcun top 40, salvo Goffin. Sì, qualche volta può essere stato un problema di programmazione, di necessità di concentrarsi su certi tornei, di non cambiare superficie, ma – credetemi – una grande influenza l’hanno avuta i loro manager (quando non anche coach, mogli e compagne). Perché gli agenti e i coach dalla partecipazione di un proprio giocatore alla Davis (il cui coach in campo era un altro) non hanno mai guadagnato nulla. Da tutti gli altri eventi, tornei ed esibizioni (Laver Cup inclusa) invece sì. E tanto, tantissimo. I grandi campioni vivono in eterno, una, due, tre vite. Gli agenti no. Tutto il resto sono balle.