Editoriali del Direttore
I manager dei tennisti hanno ucciso la Davis più di Haggerty
Con la Coppa non guadagnavano né loro né i “clienti”. Piqué: “Davis più sexy”. Significa più dollari! Dirigenti che vergogna. Il disgusto di Noah. I 4 Slam in rissa perenne. Le tre vite d’un campione

Non è davvero solo colpa di David Haggerty se la Coppa Davis ha recitato il De Profundis con l’edizione n.107 (vedi articolo-commento di Vanni Gibertini e anche il mio di qualche giorno fa). Il dirigente americano potrà sempre dire, anche se Yannick Noah gli ha gridato in faccia tutto il suo disgusto e quanto fosse incavolato – a lui, come al presidente della Federazione francese Giudicelli e indirettamente a tutti i presidenti delle federazioni che hanno votato per questa riforma così radicale, inclusa quindi la nostra italiana che ha cercato di nascondere fino all’ultimo le proprie intenzioni in modo più squallido che ambiguo – che se in fondo più del 75% delle nazioni aderenti alla Federazione Internazionale (ITF) hanno votato a favore, significa che essa è stata più che condivisa.
I METODI DISGUSTOSI PER IL VOTO DI SCAMBIO
A proposito di disgusto… soprassediamo, per carità di patria, sui metodi non meno disgustosi attraverso i quali alcuni di quei voti sarebbero stati conquistati. Per parecchie federazioni si è trattato di un vero e proprio voto di scambio cui si è prestato chi voleva ottenere wild card, chi sperava di ottenerle, chi pretendeva sconti sui diritti televisivi passati e/o futuri, chi voleva strappare promesse di vario tipo, chi aspirava a futuri incarichi nel board dell’ITF. Metodi purtroppo cui quasi nessuno sport è immune – gli scandali FIFA e UEFA da Blatter a Platini sono ben noti nel mondo del calcio, meno noti in altre discipline meno popolari ma ci sono anche lì – soprattutto quando i dirigenti si ritengono poco o mal retribuiti. E quasi sempre si ritengono tali. Ovviamente – va detto a scanso di equivoci – perché ci sia un voto di scambio ci vogliono due parti che si mettano d’accordo. Una non basta.
ROMANTICI ALLA NOAH, INGENUI ALLA CILIC E BUSINESSMEN
Si è chiaramente avvertito in questo periodo il contrasto fra chi vive le cose in maniera nostalgica per il tempo che fu e più sentimentale, quasi romantica, e chi invece ormai vede lo sport soprattutto come business e allora… business is business, i soldi sono la molla di tutto.
La Coppa Davis è certo finita per un tipo come Yannick Noah che evoca sentimenti genuini dell’innamorato dello sport al di sopra del Dio dollaro: “Ma quanto vale per un raccattapalle stringere la mano a Lucas Pouille e fare una foto con lui? Vengo da un sogno che ho vissuto fin da bambino, quando un giorno qualcuno (Arthur Ashe) mi ha stretto la mano e mi ha regalato una racchetta. Questo non accadrà più. Quello che è successo a Lille questo week-end, tra noi e i giovani, non succederà più a Singapore (né a Madrid né altrove), lo so”. Ma ha un senso però anche quel che aveva detto Marin Cilic: “Sono triste di veder scomparire una competizione per come l’abbiamo conosciuta, ma penso anche che la nuova Davis possa permettere a dei Paesi come la mia Croazia di veder crescere i propri mezzi in modo da poter permettere la promozione del tennis fra i giovani”.
Fra queste due posizioni più estreme, romantica quella di Yannick, pragmatica quella di Marin, c’era quella più intermedia, più di compromesso, di Nicolas Mahut: “C’erano altri mezzi per recuperare i soldi. I tornei dello Slam avrebbero potuto donare una parte dei loro ricavi (enormi… i giocatori si sono sempre lamentati della modestissima percentuale che è rappresentata dal montepremi; nota di UBS) e la Coppa Davis sarebbe sopravvissuta. Abbiamo provato a dare un sacco di idee. Ora io non tiro una pietra alle piccole federazioni. Ma il fatto che la Francia abbia votato a favore della riforma, questo non è davvero ammissibile”. Allora va premesso che non c’è dubbio che le federazioni ricche che hanno votato a favore della riforma, come la Francia, l’Italia, gli Stati Uniti, e altre, lo hanno fatto per scopi certamente meno nobili di quelle piccole realtà che invece dei soldi del signor Piqué – tre miliardi in 25 anni con una grossa fetta che finirebbe all’ITF e di riflesso alla federazioni sono tanti soldi – hanno effettivamente bisogno per sopravvivere e magari crescere. Sperare di crescere, perché del doman non v’è certezza.
L’AFFARISMO AUSTRALIANO SENZA SCRUPOLI
Così come va detto che se Tennis Australia ha votato invece contro – pur essendo una federazione che ha avuto dal 1991 al ’99 nel suo ex presidente federale Brian Tobin il presidente dell’ITF, predecessore di Ricci Bitti – e da sempre era stata elemento cardine dell’ITF, è stato perché all’Australia oggi conviene molto di più che si sviluppi l’altro evento a squadre, anzi gli altri due eventi a squadre: a) quello promosso in partnership con l’ATP, l’ATP Cup che dai primi del gennaio 2020 fino al torneo di Sydney escluso dovrebbe decollare in sostituzione della Hopman Cup a Perth e del torneo di Brisbane (più una terza sede che potrebbe essere Darwin per un equilibrio geografico fra i vari punti cardinali dell’Australia… ma sarà più probabilmente una questione di dollari a far scegliere la terza città nella quale si disputeranno i gruppi eliminatori); b) la Laver Cup che è gestita, con il manager di Federer Tony Godsick e lo stesso Roger, sempre dalla federazione australiana con tutto il suo staff e che ha per partner anche la federazione statunitense, mai distratta quando si tratta di far business e soldi.
MAHUT HA PECCATO DI DEMAGOGIA – LA RIVALITÀ FRA SLAM
Ma anche Mahut qui ha fatto un intervento piuttosto demagogico, come potrebbe fare qualcuno che non conoscesse la reale situazione: gli Slam non appartengono all’ITF, ma sono entità a se stanti, ciascuna va per conto suo. Esiste sì un comitato del Grande Slam, con l’avvocato del Minnesota Bill Babcock che da 20 anni ne è il direttore, ma di fatto ha poteri molto limitati. Anche se le federazioni fanno parte dell’ITF, l’US Open appartiene all’USTA che può decidere di imporre il tiebreak al quinto set anche se gli altri Slam non sono d’accordo e non si va a maggioranza (come sarebbe auspicabile per dare le stesse regole a tutti). Il Roland Garros è della FFT, la federazione francese che può decidere di avere tre domeniche per la disputa del suo Slam e cominciare quindi con un giorno d’anticipo rispetto agli altri (rispetto a Wimbledon ha così due giorni di più di incassi e di diritti tv, visto che Wimbledon comincia il lunedì e chiude i Doherty Gates nella domenica di mezzo: quindi i Championships hanno solo 13 giorni “utili”).
L’Australian Open come abbiamo visto fa quel che vuole infischiandosene dell’appartenenza all’ITF e decidendo di aprire e chiudere il tetto più o meno quando fa comodo (le regole della Heat Policy le ha messe Tennis Australia e le applica secondo una flessibilità che non usa in altre situazioni; fa firmare ai giornalisti un documento nel quale questi si impegnano a non sollecitare le scommesse e poi per anni ha avuto la William Hill fra gli sponsor principali da quattro milioni di euro l’anno); Wimbledon infine appartiene all’All England Club che versa i ricavi netti per il 90 per cento alla LTA, la federazione inglese che nell’ultimo bilancio ha sì registrato un “rosso” di 7 milioni di sterline – ma c’era da costruire il tetto per il campo n.1 e tutta un’altra serie di lavori importanti da pianificare e anticipare – ma ha 150 milioni di sterline di deposito fruttifero nel proprio conto in banca. Con quella americana è la federazione più ricca. Ma quella australiana se continua così si avvicinerà.
Per mettere d’accordo su una qualsiasi cosa i quattro “proprietari” degli Slam non basterebbe neppure il miglior Kissinger. Ricorderete il discorso delle sanzioni ai giocatori, emerse anche nel caso della squalifica di Fabio Fognini allo US Open 2017. Nessun altro Slam voleva dimostrare la propria solidarietà al provvedimento preso. E se Fognini fosse diventato una star? Se si fosse trattato di un top-player? Se uno Slam squalifica un giocatore lo fa per il suo torneo, non per gli altri. Quello successivo in calendario non sarebbe mai disposto a subire le eventuali conseguenze di una squalifica eventualmente imposta a un top-player. Non ci penserebbe nemmeno. E anche sull’entità dei montepremi, e di quanto possono offrire ai giocatori in termini di servizi, per ingraziarsene la partecipazione, i quattro Slam si fanno anzi una concorrenza non indifferente. Di fatto annunciano gli incrementi di montepremi quasi a sorpresa, come per prendere in contropiede gli altri “fratelli” (coltelli?). Immaginatevi poi se i quattro proprietari degli Slam si preoccuperebbero di finanziare le attività giovanili della Croazia, dello Zimbabwe, della Thailandia e di 120 piccole nazioni sparse per i cinque continenti. Figurarsi.
MAHUT E LA CONDANNA DELL’IPOCRISIA DI GIUDICELLI
Detto questo, e sottolineata quindi l’incongruità dell’affermazione di Mahut, il doppista francese ha però ragionissima a sostenere quanto sia stata assolutamente ipocrita la condotta del suo presidente Giudicelli che aspira a succedere alla presidenza ITF di Haggerty. L’americano, dopo un secondo mandato non potrebbe essere rieletto, salvo che abbia imparato a muoversi come il nostro impareggiabile Francesco Ricci Bitti, il quale ha fatto esercizi straordinari di equilibrismo per mantenere la propria ben retribuita poltrona di presidente ITF, poco inferiore ai 500.000 euro annui fra una cosa e l’altra, per 16 anni, quattro mandati di quattro anni, senza mai cambiare niente: un capolavoro strategico di grandissimo immobilismo!
Tutti i giocatori francesi, tutta l’opinione pubblica francese era contraria alla riforma della Davis e Giudicelli invece ha sposato la causa Haggerty. Quando grazie agli introiti del Roland Garros e ai successi (anche di ricavi) della squadra di Coppa Davis – tre finali in cinque anni, 2014 sconfitti da Federer e soci, 2017 vittoriosi sul Belgio, e 2018 –, non solo a Lille ma anche altrove, la FFT ha guadagnato montagne di soldi. E in quest’ultima Coppa senza neppure poter contare su un tennista top 20. I tennisti francesi sperano che Giudicelli non se la cavi con il processo per il quale è imputato… E ciò anche se Giudicelli ha fatto comprare una pagina de l’Equipe per ringraziare, con un gigantesco MERCI (grazie), “au jouers pour l’emotion, au staff pour la preparation, aux supporters pour leur passion”, firmato Federation Francaise de Tennis.
LE ILLUSIONI DI CILIC – IL CASO DELL’UNGHERIA
Anche a proposito della dichiarazione di Cilic ho qualche riserva. Mi sa che Cilic si illude sul fatto che i soldi che arriverebbero a un centinaio di piccole povere federazioni verrebbero davvero gestiti a beneficio del tennis e dei giovani che volessero avvicinarsi al tennis. Forse Cilic non ha avuto le mie stesse occasioni di incontrare tanti dirigenti di varie federazioni, di vari Paesi (a me è capitato in tanti tornei, in tante Davis). Troppi dirigenti di troppe nazioni (e non solo in Africa, che è sempre stato un bacino importante e piuttosto influenzabile con modi non sempre leciti e trasparenti per chi era a caccia di voti) non sono affidabili. So – un esempio per tutti – che i migliori tennisti ungheresi di Davis e Fed Cup, Fucsovics e Babos, sono inferociti con il presidente della federtennis magiara Attila Richter e hanno dichiarato a più riprese che mai giocheranno per il proprio Paese finché lui resterà su quella poltrona. Perché?
Perché pare che i soldi messi in palio dall’ITF li abbia sempre intascati la federazione senza farne toccare che una minima parte ai giocatori e anche perché il torneo di Budapest da 250.000 dollari che Tiriac ha “trasferito” in Ungheria ottenendo sussidi delle autorità locali avrebbe dovuto richiedere spese di massimo 750.000/un milione di euro – di solito per un torneo si calcola fra le tre e le quattro volte per il costo del montepremi – e invece pare siano stati necessari fra le pieghe del bilancio del torneo quasi 2 milioni. Come si è fatto a spendere così tanto? Fucsovics e Babos sono convinti di saperlo. Haggerty – che era sempre stato ottimista sull’esito del voto di Orlando ad agosto – ha detto anche che non gli era possibile rivelare i nomi dei Paesi che avessero votato a favore della riforma e quali contro. Ma è chiaro che tutti i mesi precedenti sono serviti a contattare e negoziare i sì. Il suo ottimismo era dunque abbastanza giustificato dagli accordi presi. E allora a questo punto è inutile scandalizzarsi. Piuttosto, guardando avanti, cosa succederà?
GERARD PIQUÉ E LA PROPOSTA SEXY – COSA VUOLE HAGGERTY
Gerard Piqué – che si presume parli per nome e conto di Kosmos, Rakuten, Larry Ellison e forse ITF – ha detto l’altro giorno: “Abbiamo riflettuto su diverse possibilità. Non possiamo annunciare nulla perché non abbiamo ancora trovato un accordo nella riunione tenutasi a Londra (durante le finali ATP). Ma siamo più vicini che prima della riunione”. Piqué e l’ATP avevano proposto di fondere in un unico evento la ATP Cup e la Davis, ma Haggerty (che pure ha ritenuto un progresso l’incontro di Londra) ha rifiutato. Pare che lo abbia fatto dicendo di non avere mandato per agire da tutte le federazioni. Di fatto sta trattando.
Pare anche che si stia trattando sul fatto che l’ITF potrebbe cedere una delle sue quattro settimane abitualmente spettanti alla vecchia Davis (quella di aprile: per la Laver Cup?) pur di conservare quella di febbraio per i play-off di 24 squadre che devono diventare 12 e unirsi alle 4 semifinaliste di quest’anno (e di ogni anno) più due wild card che per Madrid sono già state concesse a Inghilterra – nessuno è miglior lobbista di un inglese – e Argentina (Paese che ha votato di sicuro per la riforma Haggerty). In cambio Haggerty chiede che l’ATP ceda all’ITF una settimana a settembre da attaccare all’altra per poteri disputare sia Davis Cup con più respiro sia in futuro la Fed Cup per otto o anche 12 squadre. Ma l’ATP che ha il supporto dei giocatori (felicissimi di poter giocare l’ATP Cup prima del torneo di Sydney e in preparazione all’Open d’Australia) pare avere il coltello dalla parte del manico. A questo proposito Piqué ha aggiunto: “I giocatori lottano per i loro interessi, è normale che sia così. E quel che noi vogliamo è di rendere le cose più facili per loro. Forse si dovrà sacrificare qualcosa. Se si vuole ricreare una grande competizione è obbligatorio che i grandi giocatori la giochino. Forse non l’anno prossimo o fra due anni. Ma, a lungo andare, questo evento dovrà diventare… sexy (ha detto proprio così), interessante per i giocatori”.
NON BASTA CHE LA NUOVA DAVIS DIVENTI SEXY PER I GIOCATORI…
Speriamo allora che la Davis diventi davvero sexy per i giocatori, ma secondo me deve diventare sexy (sesso a pagamento?) soprattutto per i loro agenti, cui chi scrive si sente di imputare più che a chiunque altro (insieme ai giocatori che oggi fanno tanto i patrioti, ma hanno dimostrato di esserlo soltanto fino a quando è loro convenuto) la morte della Coppa fatta coniare da Dwight Davis 118 anni fa. Il fatto assodato è che i top-player dalla Coppa Davis hanno sempre ricavato poco o niente dal giocarla – rispetto ai guadagni che potevano fare altrove in qualche esibizione giocata in qualche Emirato – ma fino a che non l’hanno vinta, loro che hanno probabilmente sognato come tutti i ragazzini di “arrivare in Nazionale” e diventare idoli in patria, hanno fatto di tutto per riuscirci. Una volta raggiunto lo scopo e messa la Coppa in bacheca, l’anno dopo (anzi due mesi dopo) hanno spesso guardato la loro squadra che retrocedeva da lontano. Con la massima indifferenza. Ed egoismo. Ciò anche se Djokovic ha sempre detto che la vittoria in Davis nel 2010 gli aveva dato l’entusiasmo, la fiducia e la spinta a un 2011 da favola con la prima incoronazione a n.1 del mondo. E così nel 2014 Federer e Wawrinka hanno coronato il sogno che Murray aveva realizzato nel 2015 e del Potro nel 2016. E Nadal prima di tutti loro. Tutti ad abbracciarsi alla bandiera, a piangere al suono degli inni. Ma poi, passata la festa gabbato lo Santo e… chissenefrega.
… DEVE DIVENTARLA ANCHE PER GLI AGENTI
Perché, già tutti ormai nababbi, avevano così disperato bisogno di guadagnare ancora altri milioni rinunciando a disputare la Coppa Davis affossandola di fatto come hanno fatto? Un anno fa la Francia conquistò la Coppa senza incrociare sulla propria strada alcun top 40, salvo Goffin. Sì, qualche volta può essere stato un problema di programmazione, di necessità di concentrarsi su certi tornei, di non cambiare superficie, ma – credetemi – una grande influenza l’hanno avuta i loro manager (quando non anche coach, mogli e compagne). Perché gli agenti e i coach dalla partecipazione di un proprio giocatore alla Davis (il cui coach in campo era un altro) non hanno mai guadagnato nulla. Da tutti gli altri eventi, tornei ed esibizioni (Laver Cup inclusa) invece sì. E tanto, tantissimo. I grandi campioni vivono in eterno, una, due, tre vite. Gli agenti no. Tutto il resto sono balle.
Editoriali del Direttore
È morto Roberto Mazzanti, per 20 anni direttore di Matchball, la Bibbia dei veri appassionati di tennis
Tennis e giornalismo i suoi grandi amori. Sotto la sua guida saggia ed equilibrata hanno lavorato Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, Viviano Vespignani, un giovanissimo Scanagatta. un imberbe Stefano Semeraro, il boy Luca Marianantoni e tanti altri. Era impossibile litigarci

Aveva 82 anni, era stato colpito da un malore a gennaio. Purtroppo non si più ripreso Roberto Mazzanti, uno dei pochi, pochissimi giornalisti davvero signori, con i quali era impossibile litigare. Un uomo per bene. E non lo scrivo perchè ci ha lasciato, ma perchè è vero. E lo può dire e confermare chiunque lo abbia conosciuto.
Roberto era stato negli anni Settanta il direttore di Matchball (in edicola dal 1970 al 1996), la seconda rivista di tennis – dopo “Tennis Club” diretta da Rino Tommasi – per la quale poco più che ventenne avevo cominciato a collaborare, spinto dalla mia inesauribile passione per il tennis e per il giornalismo, gli stessi due grandi amori di Roberto. Per lui, come per me, era una passione romantica, senza mai l’ambizione di arricchirsi, ad alimentare quei due eterni amori.
Lui, bolognese, era cresciuto all’interno del Resto del Carlino dove era stato assunto inizialmente come correttore di bozze. Infatti, diventato poi redattore professionista del quotidiano bolognese, dividendosi fra le pagine della cronaca cittadina come dello sport – come sarebbe successo anche a chi scrive – non avrebbe mai sopportato i refusi.
Non l’ho mai visto arrabbiato, mai perdere il controllo, mai alzare la voce. Un gentiluomo con aplomb british, mascherato da un moderato accento emiliano. Adorava guardare il tennis, non solo quello dei grandi – venne anche a vedermi giocare la finale di doppio dei campionati italiani di Seconda Categoria al Circolo Tennis Giardini Margherita, lui che frequentava la Virtus del presidente (anche FIT) Giorgio Neri – ma gli piaceva anche giocarlo. E lo ha fatto da dilettante fino a tempi anche recenti, sebbene avesse scoperto anche il golf e, negli anni, gli fosse venuta anche la passione per le automobili, la tecnologia, il loro evolversi.
Lavoravamo per lo stesso gruppo editoriale, la Poligrafici, ma io – più giovane e scapolo mentre lui era sposato – ero più disponibile a sacrificare ferie e vacanze (a caccia di ospitalità o alberghi a due stelle) per andare a seguire il tennis nel maggior numero possibile di tornei.
Quindi per Nazione e “Carlino” accadeva che lui mi lasciasse il passo per gli Slam e che io lo lasciassi a lui per la Coppa Davis …che allora era una cosa seria, ma si esauriva in alcuni long-weekend e che potevano essere anche 5, 6 o 7 in un anno se l’Italia andava in finale come accadde per quattro anni su cinque fra il ’76 e l’80. Accadde anche che con quei ripetuti exploit dei nostri 4 moschettieri azzurri io mi ritrovassi a seguire insieme a Roberto anche quegli eventi a squadre.
Non esisteva Internet, né la composizione digital-elettronica e Matchball optò, anche per contrapporsi a “Il Tennis Italiano” che era un mensile, una cadenza quattordicinale. Usciva in edicole (sì, esistevano ancora…) ogni due martedì e sotto la guida di Roberto scrivevamo i nostri articoli Roberto, Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, il sottoscritto, Paolo Francia, Viviano Vespignani e (diversi anni dopo) si sarebbe aggiunto, fra i tanti, anche Luca Marianantoni con tutti i numeri che si portava appresso. In redazione due giovani di belle speranze, Stefano Semeraro e Enrico Schiavina., Al lunedì mattina Matchball doveva essere “chiuso” in tipografia. La domenica sera…si finiva per scrivere editoriali, pagelle, statistiche, a notte inoltrata. Sempre facendo le corse, perché magari le partite, ai più diversi fusi orari, finivano tardissimo e la copertura era massiccia. Per merito di tutto il team Matchball diventò ben presto la rivista leader e tale restò fino a che l’avvento di Internet, delle notizie on line, delle coperture televisive di più network, fece strage di gran parte delle riviste cartacee, impossibilitate a reggere la concorrenza sul piano della tempestività dell’informazione.
Roberto, giornalista elegante ed equilibrato, prediligeva i tennisti dal bel braccio, McEnroe, Panatta, Bertolucci (e più recentemente inevitabilmente Federer), Rino era prima innamorato di Rosewall e poi di Edberg, io stravedevo per l’arte e l’imprevedibilità di Nastase, per la grinta e i limiti tecnici di Connors oltre che per Boris Becker (per far da contraltare a Rino), quando sarebbe arrivato Luca avremmo annoverato nel team di Matchball anche un grande fan di Lendl.
Vabbè, vedete, anche adesso che Roberto ci ha improvvisamente lasciato affiorano nella mia mente tanti ricordi, tanti amichevoli dibattiti e lui che, con fare quasi ecumenico, mi diceva: “Dai Ubaldo scrivi le tue pagelle, falle un po’ tecniche, un po’ironiche, senza infierire mai troppo…anche se lo sappiamo tutti che se devi scrivere di promossi e bocciati, ai lettori piaceranno sempre più i voti bassi che quelli alti, quelli più critici che quelli pieni di elogi. Il mondo va così” diceva chiaramente dispiacendosene. E a quei tempi non esistevano ancora i leoni da tastiera, gli “webeti”. Che la terra ti sia lieve caro amico. E che tua moglie Anna, tuo figlio Luca, la tua nipotina adorata, sopportino con forza e coraggio il vuoto che lasci a loro e a tutti quelli che ti hanno stimato e voluto bene.
Australian Open
Australian Open: Il fenomeno Djokovic è di un altro pianeta. Tsitsipas non poteva fare di più. Non è la parola fine sul GOAT
I fenomeni non sono stati solo tre, Djokovic, Federer e Nadal. Perché se si dà peso primario ai titoli Slam, Rosewall e Laver non possono essere ignorati. E perchè un solo anno, e non sempre, laurea il vero n.1

Il resto del video, che qui potete vedere in anteprima, è disponibile sul sito di Intesa Sanpaolo, partner di Ubitennis.
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Non ho mai pensato che potesse finire diversamente. L’unico momento di dubbio l’ho avuto – insieme a Djokovic – quando entrambi abbiamo temuto che il suo problema alla coscia fosse un problema serio.
Così come gli altri due fenomeni, Federer e Nadal (elencati, a scanso equivoci, in ordine alfabetico), Novak Djokovic è di un altro pianeta rispetto a tutti gli altri contendenti. Come fenomeni sono stati nello sport più popolare – se cito soltanto i fenomeni del calcio, anziché altre discipline sportive, è perché è più facile che quasi tutti capiscano di che cosa parlo – Pelè a cavallo degli anni 60/70, Maradona un ventennio dopo, Messi e Cristiano Ronaldo nel terzo millennio.
Djokovic, Federer e Nadal (ancora in ordine alfabetico) hanno lasciato le briciole a tutti gli altri tennisti loro contemporanei. E l’hanno fatto con una continuità spaventosa, in un arco temporale inimmaginabile che ha spaziato fra i 15 e i 20 anni. Davvero incredibile.
Mentre i campioni Slam del passato una volta superati i 30 anni difficilmente riuscivano a restare competitivi per più anni,– salvo rarissime eccezioni: Rosewall, Connors, Agassi su tutti – mentre qualche straordinario campione come Borg o McEnroe ha smesso di giocare o di vincere già a 26 anni – questi tre hanno continuato a dominare il resto della concorrenza come se fosse la cosa più normale del mondo. E tutti a sorprendersi, a meravigliarsi con infinito stupore quando ciò, a uno dei tre, ma mai a tutti e tre insieme, non succedeva.
Nel conquistare il meritato appellativo di “fenomeni” i tre supercampioni non si sono limitati a registrare un record dopo l’altro pur dovendosi affrontare fra le 50 e le 60 volte in pazzeschi testa a testa, dopo essersi inseguiti come i celebri duellanti di Conrad ai tempi di Napoleone ai 5 angoli/continenti del mondo sulle più varie superfici. Ma tutti e tre hanno dato dimostrazione di formidabili e superiori doti tecniche, atletiche, caratteriali, intellettuali, morali, umane. Ho forse dimenticato un qualche aspetto?
A trovar loro un vero difetto, come campioni e come uomini, personalmente ho sempre fatto fatica. Anche perché li ho conosciuti tutti da vicino e fin da quando hanno cominciato a cogliere i loro primi stupefacenti successi, quasi imberbi, a 16 e 17 anni. Quando anche un “parvenu” del tennis avrebbe intravisto le loro eccezionali qualità. Personalità intelligenza, simpatia, resilienza, determinazione, avevano tutto fin da subito. Le si potevano scorgere a occhio nudo, senza farsi condizionare dalla semplice precocità.
Forse proprio Djokovic, il più giovane dei tre e colui che sembra destinato a restare sulla breccia più a lungo degli altri, è quello – anche per le sue posizioni NOVAX (peraltro coerenti al massimo, diversamente da chi ha presentato certificati falsi assolutamente imperdonabili) – che ha sollevato più casi controversi. Talvolta nemmeno interamente per sue responsabilità. Il background della sua famiglia, l’educazione, lo stile di vita, sono stati diversi da quelli di Federer e Nadal.
Eppoi lui è arrivato dopo di loro, quasi un intruso, in un mondo che tennisticamente si era diviso all’80% fra federeriani e nadaliani. Per conquistarsi un posto, ha dovuto farsi spazio fra loro, impossessandosi di quel 20% che era rimasto ai neutrali. E dovendo giocare dappertutto con folle di tifosi più ostili che amiche. In patria è diventato un simbolo, un eroe, un semiDio. Fuori no. E’ stata dura, molto più dura che per gli altri due fenomeni conquistarsi un suo pubblico, un suo status internazionale. Lo ha potuto fare nel solo modo che lo sport consente: i risultati. Risultati assolutamente straordinari. Pian piano ha battuto i suoi leggendari rivali più volte di quanto di avesse perso. Pian piano ha autorizzato i suoi estimatori a inserirlo nell’eterno dibattito sul GOAT, sul più forte giocatore di tutti i tempi.
Non si metteranno mai d’accordo i tifosi dei tre fenomeni. Tutti avranno buoni motivi per sponsorizzare il loro fenomeno d’elezione. Chi privilegerà un’epoca ad un’altra, una strong era a una weak era (e qualche vuoto pneumatico al top dei competitor c’è stato per tutti e tre), chi lo stile e l’eleganza, chi la forza e la garra, chi la completezza, chi una superficie o un’altra. E qualunque conclusione verrà raggiunta sarà sempre ingiusta. Anche perché se in uno stesso anno possono cambiare in maniera pazzesca le cose – pensate solo al 2016 con i primi 6 mesi di Djokovic e i secondi 6 mesi di Murray – e figurarsi da un anno all’altro – pensate al 2017 e ai 4 Slam divisi fra i “risorti” Federer e Nadal che molti avevano già dati per finiti – se si dovessero confrontare pacchetti di più anni, in cui sono magari cambiate le attrezzature, le superfici, ogni paragone fra epoche diverse condurrebbe a emettere verdetti assolutamente discutibili, comunque superficiali.
Oggi, e chiudo questo lunga premessa, i fan di Djokovic ebbri di gioia per i 22 Slam che hanno consentito a Nole di eguagliare i 22 di Rafa Nadal e di “staccare” definitivamente i 20 di Federer sembrano aver buon gioco a sostenere che chi vincerà più Slam a fine carriera potrà tappare la bocca a tutti gi altri pretendenti al GOAT.
Ma non è così. Ken Rosewall, cui abbiamo dedicato un bell’articolo in questi giorni, ha vinto 8 Slam ma ne ha dovuti saltare – perché professionista per 11 anni – ben 44. E Rod Laver, unico campione ad aver realizzato due volte il Grande Slam (1962 e 1969, a sette anni di distanza, i suoi migliori 7 anni…), ha vinto 11 Slam dovendo saltare 20 Slam fra il 1963 e il 1967. Non potevano essere loro i GOAT? I fenomeni del tennis non sono stati solo tre.
Quelle ultime due lettere, A e T, stanno per ALL TIME. Se allora ALL TIME, per i motivi su esposti, non si può dire, limitiamoci allora a dire chi sia stato il miglior tennista del mondo anno per anno. E solo in quel caso è più probabile che non ci si sbagli, anche se – ripetendo l’esempio fatto poc’anzi – se si prende in esame un anno come il 2016 nel quale Novak domina i rimi sei mesi, Andy Murray i secondi sei, e il computer ATP assegna il numero uno year-ending a Murray perché vince la finale del Masters…beh anche in quel caso siamo così sicuri che il verdetto fosse così inequivocabile, inappellabile? Una sola partita può decidere chi sia il miglior tennista di tutto l’anno, solo perché lo dice un computer che – cito per l’ennesima volta Rino Tommasi – “sa far di conto, ma il tennis non lo capisce?”.
Vabbè, torno sulla finale e sulla superiorità disarmante di Djokovic perfino al termine di un match non immune da pecche, da errori evitabili, da nervosismi quasi inesplicabili come quello che lo ha colto a metà del secondo set quando avrebbe potuto continuare a gestire tranquillamente il match come aveva fatto fino ad allora.
Tsitsipas non poteva far molto di più, salvo che – nel tiebreak del secondo set – evitare quei quattro errori di dritto, il suo colpo migliore andato improvvisamente…in barca.
Ma Djokovic, che è indiscutibilmente da anni il miglior ribattitore del mondo – e qui, su questo giudizio, credo possano essere d’accordo perfino i tifosi di Federer e Nadal – era stato ingiocabile sui propri servizi. Fino a quel game in cui Tsitsipas è riuscito – sul 4-5 del secondo set- a conquistarsi contemporaneamente sia la prima palla break che l’unico setpoint Djokovic, aveva lasciato al più temibile dei suoi avversari la miseria di sei punti nel primo set in cinque turni di battuta (la sola volta che Stefanos era arrivato a 30 però Novak era avanti già 3-1 e 40-0) e nel secondo set 5 punti nei quattro turni di servizio. Mai Tsitsipas era ancora arrivato a 40.
Ok? Bene: c’è arrivato in quel frangente e sulla pallabreak-setpoint che fa Djokovic? Prima di servizio e dritto vincente.
Poi un tiebreak giocato maluccio da entrambi, perché sul 4-1 per Nole frutto di tre minibreak seguiti a 3 inattesi errori di dritto di Tsitsipas Nole ha prima regalato un insolito rovescio per lui banalissimo e poi ha fatto anche il secondo doppio fallo del suo match. Ma sul 4 pari ecco di nuovo Tsitsipas, evidentemente teso come una corda di violino, sbagliare un quarto dritto! Djokovic non se l’è fatto dire due volte e dal 4 pari al 7-4 è stato un gioco da ragazzi.
Qualcuno poteva illudersi che dopo il toilette break e l’unico servizio perso da Nole all’inizio del terzo set le cose potessero cambiare? Forse neppure l’irriducibile Tsitsipas.
Dal 2 a 2 in poi Djokovic – che ribadisco essere il miglior ribattitore del mondo – tiene per 4 volte consecutive il servizio a zero: 17 punti di fila (contando l’ultimo che gli aveva dato il 2-1 in un game vinto a 15). Cui seguiranno gli altri primi tre del tiebreak che decide l’ultimo tiebreak in cui, giusto per non illudere Tsitsi e le migliaia di fan greci che non smettevano di gridare “Tsitsipas, Tsitsipas” – mentre fuori dal centrale la stragrande maggioranza nel garden davanti al mega schermo era invece serba (mica facile procurarsi i biglietti…) – Djokovic sale sul 5-0, subisce dopo 20 punti conquistati con il servizio un mini-break, ma poco dopo chiude con un dritto vincente sul terzo matchpoint.
Sì, mi scuso, ho riscritto una cronaca che Cipriano Colonna aveva già scritto brillantemente chiudendola su Ubitennis nei 5 minuti successivi alla conclusione, ma solo per sottolineare come oggi perfino un Djokovic che ha giocato senza fare troppe cose straordinarie, è stato assolutamente ingiocabile in 12 turni di servizio su 14 (salvo che sul 4-5 e sul primo gae del terzo set) ed è sempre stato fortissimo – sì, proprio come sempre – quando doveva rispondere.
I suoi record li abbiamo già ricordati dappertutto. Non credo serva scriverli ancora, prima di cominciare a pensare a che cosa potrà accadere nel regno di Nadal al Roland Garros. Novak ha perso un solo set nel torneo, ma perché con Couacaud al secondo turno gli faceva male la coscia sinistra. Però se fossi stato a Melbourne tutti i suoi dieci trionfi, i 22, i 93, le 374 settimane da n.1 (verso le 377 di Steffi Graf) magari avrei trovato un modo per ricordarglieli in conferenza stampa.
Qua dico soltanto….davvero not too bad! carissimo fenomeno Djokodiecivic.
Australian Open
Australian Open: Sabalenka sugli scudi. Ha vinto il miglior servizio o il miglior dritto? E l’assenza di inno e bandiere bielorusse ha senso?
Hanno vinto…gli studi biomeccanici della regina 2022 dei doppi falli. Ma fra dritto e rovescio, quale è il colpo da fondo di solito più decisivo? Il duello Djokovic-Tsitsipas suggerisce una risposta sbagliata

La nuova campionessa dell’Australian Open, Aryna Sabalenka, è una ragazza che l’anno scorso aveva vinto…la classifica di chi aveva fatto più doppi falli fra tutte le prime 100 tenniste della WTA.
Roba da far arrossire Sascha Zverev. Aryna, che diventa la seconda bielorussa a vincere uno Slam in Australia dieci anni dopo Vika Azarenka, di doppi falli ne aveva commessi ben 427 nel 2022, a una media di 8 a match. Ma lo scorso anno, durante lo US Open, subito dopo aver perso dalla Swiatek, lei che ama farsi chiamare “Tigre” –e che si è fatta fare un tatuaggio di una tigre sull’avambraccio sinistro “perché mi deve ricordare di lottare sempre come una tigre…”- aveva deciso di mettersi a studiare la tecnica della sua battuta con uno specialista di biomeccanica, con due obiettivi: 1) ritrovare percentuali migliori sulle prime palle di servizio 2) servire seconde palle meno aleatorie.
Prima della finale il coach della Rybakina Stefano Vukov aveva dato l’aria di mettere le mani avanti, quasi anche a voler mettere maggior pressione su Aryna: “Il risultato dipenderà da chi servirà meglio”.
E quello della Sabalenka, Anton Dubrov: “Vincerà chi saprà controllare meglio le proprie emozioni”. Anche questo, per la verità, sembrava più un messaggio rivolto alla sua “assistita” piuttosto che a Elena Rybakova, ragazza piuttosto introversa che sembra spesso anche fin troppo in controllo dei suoi nervi. Almeno all’apparenza, perché oggi l’ho vista spesso parlare con se stessa dopo alcuni errori.
Beh, in questa finale vinta 4-6,6-3,6-4, Aryna ha perso il primo set della finale e il primo dell’anno, ma dopo è riuscita abbastanza bene a controllare le proprie emozioni fino a quando – a seguito dell’ennesimo dritto lungo della Rybakina (decisamente il colpo più incerto della kazaka) sul suo quarto matchpoint e dopo che sul primo aveva commesso un doppio fallo – si è lasciata andare lungo distesa sul campo centrale della Rod Laver Arena coprendosi il volto e piangendo come un vitellino, con tutto il petto percorso da sussulti irrefrenabili.
Direi che lo studio ha pagato – soprattutto in percentuale di prime palle, il 65% contro la Rybakina che si è fermata al 59%; la seconda palla invece secondo me necessità di studi ulteriori: è troppo piatta, c’è poco lift – perché durante tutto l’Australian Open di doppi falli Iryna ne ha fatti “soltanto” 29 in 7 partite. Quindi è scesa a 4 di media a match.
Vero, però, che le prime sei Aryna le ha vinte tutte in due set e sempre perdendo pochi game, così come aveva vinto in due set tutte le partite giocate al torneo di Adelaide. Oggi che la partita è durata 2h e 29 minuti per 3 set, i doppi falli sono stati 7, non pochissimi, però sono stati bilanciati da 17 ace (mentre la Rybakina ne ha fatti 9 e un solo doppio fallo: insomma la forbice dice +10 per gli ace a favore della ragazza bielorussa, + 6 a favore per i doppi falli a favore della kazaka) e poi non so dirvi quanti siano stati i servizi immediatamente vincenti, ma in quelle 70 volte in cui ha messo direttamente la prima ha fatto 50 punti. Sospetto che i servizi vincenti che siano stati parecchi.
Quindi il servizio ha svolto un ruolo importante in un match caratterizzato da pochi break, cinque in tutto in 29 game, come vediamo di solito accadere più in un match di uomini piuttosto che di donne.
D’altra parte le due ragazze finaliste hanno un fisico non così comune per il tennis femminile: un metro e 84 centimetri la Rybakina, un metro e 82 la Sabalenka che ha anche due spalle e una potenza che non tanti tennisti di sesso maschili possono vantare e disporre.
I servizi della Sabalenka sfiorano i 200 km orari e fanno male. Se un numero sufficiente di battute le sta dentro, strapparle il servizio è tutt’altro che semplice. Infatti la Rybakina c’è riuscita solo due volte pur essendosi procurata 7 pallebreak, entrambe nel primo set. E poi più.
Con le sue possenti, fracassanti risposte, invece la Sabalenka di palle break ne ha conquistate 13 e dopo l’inutile break del primo set per risalire dal 2-4 al 4 pari, un break a set nei due set successivi le sono bastati per vincere il match e conquistare il suo primo Slam alla sua prima finale e dopo tre stop in tre precedenti semifinali Slam.
Di solito, se fra due giocatrici di simile livello (ma vale forse ancor più per i giocatori) una ha un grandissimo dritto e l’altra ha un grandissimo rovescio, dai tempi di Steffi Graf (anche se Chris Evert potrebbe aver argomenti validi per obiettare), vince quella con il miglior dritto.
Il dritto, in genere, procura più punti. Tant’è che salvo poche eccezioni se a un tennista si offre una palla a mezza altezza e a metà campo, è più normale che il tennista giri attorno alla palla per schiaffeggiarla con il dritto piuttosto che con il rovescio. Il dritto è un colpo più dirompente. E’ più normale schiacciarlo dando anche una spallata. Ma su questa tesi sono più che aperto ad aprire un fronte di discussione e contradditorio…
Ora ci sarà chi, alla vigilia della finale maschile fra Djokovic e Tsitsipas mi obietterà che Djokovic è il favorito anche se il greco ha il miglior dritto e il serbo il miglior rovescio, ma io a mia volta potrò controbattere che Nole fa comunque di solito più punti vincenti con il dritto che con il rovescio. Vedremo domani (ore 9,30 su Discovery-plus).
Intanto chiudo il discorso sulla finale femminile osservando che la bielorussa Sabalenka non ha potuto godere né dell’inno nazionale a celebrare il suo trionfo, né della bandiera bielorussia sul tabellone e sul palmares dell’Australian Open accanto al suo nome. Magari fra qualche anno ricomparirà al posto di una bandiera bianca. E chissà poi che cosa deciderà Wimbledon quest’anno. Molti auspicano un ripensamento. Non i tennisti ucraini. La Kostyuk, sconfitta in semifinale nel doppio femminile, ha chiesto agli inglesi di non fare marcia indietro.
Io ripenso con piacere a quando l’indiano Bopanna e il pakistano Qureshi si sono messi a giocare il doppio assieme.
Ma fra Russia-Bielorussia e Ucraina la guerra è ancora purtroppo così terribilmente virulenta, orribile oggi perché possano essere dei tennisti i primi a soprassedervi, a non farci caso. Anche se potrebbe essere un gran bel messaggio.
La newsletter Slalom.it di Angelo Carotenuto ha riportato un articolo del Sydney Morning Herald secondo cui “Sopprimendo le loro bandiere (di russi e bielorussi), i dirigenti maldestri offrono solo più fiato al loro vittimismo. Che si tratti di Australia, Parigi, Londra o New York, l’anno scorso ha dimostrato che più bandiere vengono bandite dagli eventi sportivi, maggiore è la sfida che producono. Quanto più il mondo condanna il nazionalismo, tanto più acquistano forza coloro che ci credono. Chiediamolo agli ucraini”
Comunque sia quando hanno chiesto a Aryna Sabalenkaq, nuovamente n.2 del mondo “nel giorno più bello della mia vita” (la Rybakina sarà top-ten, ma sarebbe stata top-five se avesse potuto contare anche i 2.000 punti di Wimbledon 2022) se non le sembrasse strano aver vinto uno Slam senza una sola bandiera bielorussa e neppure una menzione alla bielorussa, lei ha risposto con un sorriso: “Credo che tutto il mondo sappia che sono bielorussa, non vale la pena di aggiungerlo”.