Editoriali del Direttore
Djokovic dice una cosa, Tiley un’altra, Federer una terza
Ma l’ATP Cup 2020 avrà successo. I tennisti si scoprono improvvisamente grandi patrioti. E si innamorano tutti del tennis di squadra. Trattative in corso ITF-ATP. L’ostacolo Laver Cup. Scambio di battute Federer-Scanagatta

Domanda: come si fa a riconoscere una top-star della racchetta fuori dal campo? Risposta: dal ritardo con cui si presenta agli appuntamenti. Sono quasi tutti sponsorizzati da grandi marche di orologi, ma non sono mai puntuali. In nessuna circostanza. Altro che shot-clock ci vorrebbe. Magari ci fosse un warning per il… sorpasso dei 25 secondi. Ieri mattina Novak Djokovic è arrivato con una bella mezzora di ritardo alla presentazione dell’ATP Cup, il nuovo evento a squadre che con il misero montepremi di 15 milioni di dollari e con 750 punti ATP per la squadra vincente decollerà in Australia il 3 gennaio 2020 per 10 giorni, sostituendosi alla Hopman Cup e al torneo di Brisbane, ma non a quello di Sydney, e le cui caratteristiche le ha ben descritte Michelangelo Sottili in un ottimo pezzo pubblicato tempestivamente già ieri.
E ieri sera per la sua conferenza stampa post vittoria in due set su Anderson e post qualificazione alle semifinali per la quindicesima volta in sedici partecipazioni, nel corso della quale c’è stato un divertente siparietto con il sottoscritto – se ascoltate l’audio che trovate qui sotto potete farvi un sorriso (e coloro che sostengono che io abbia un cattivo rapporto con Roger saranno costretti a ricredersi) – Roger Federer è arrivato con una ventina di minuti oltre l’orario annunciato, forse per cambiarsi d’abito e vestirsi con l’ormai consueto casual grigio e un po’ tristanzuolo (lui che prima era di solito così classico ed elegante) del suo sponsor Uniqlo. Cosa non si fa per i soldi. Non ricordo un giapponese che sia mai stato chiamato arbiter elegantiarum.
Djokovic si è però… riscattato in mattinata. È stato lui infatti a pronunciare per primo, ma dopo un buon quarto d’ora di prolusioni del CEO dell’ATP Chris Kermode e del direttore dell’Australian Open Craig Tiley, la doppia parola di quel vecchio evento che dal 1900 a oggi si è sempre chiamato Coppa Davis. Gli altri hanno fatto di tutto per evitare di menzionarla. Prima ci siamo sorbiti infatti un buon quarto d’ora di “promo” alternati del CEO dell’ATP Chris Kermode che magnificava il nuovo “concept” dell’ATP Cup (spiegando anche perché dopo gli errori di comunicazione del passato – “Chiamare le nostre nostre finali Barclays Bank World ATP Finals era un titolo improponibile per uscire sui giornali” -, si è abbandonato l’idea di World Team Cup e si è scelto la più semplice, concisa e diretta ATP Cup) e del direttore dell’Australian Open Craig Tiley per nulla imbarazzato di tutti i conflitti di interesse che anche i non addetti ai lavori sono in grado di percepire quando la stessa persona, lui, si trova a gestire Australian Open in partnership con l’ITF, ATP Cup in partnership con l’ATP, la Laver Cup in partnership con Tony Godsick (e Roger Federer).
In mezzo a tanti discorsi, il video dell’ATP che anche voi potete vedere, con tutti i discorsi entusiasti di tutti i top players che parevano diventati tutti i più grandi patrioti della storia. Anche quelli che si sono sempre fatti pregare in ginocchio dai loro dirigenti per giocare uno o due match l’anno di Coppa Davis. Imbarazzante. Alcuni, direi, senza vergogna. Nella mia domanda assai diretta a Craig Tiley ho esordito: “Che bello scoprire tanti giocatori diventare improvvisamente così patrioti e fieri di difendere i colori del proprio Paese… ma non ti senti in imbarazzo a trovarti a gestire tutti questi eventi che potrebbero essere apparentemente in conflitto di interessi?”. Lui naturalmente ha detto di no. “Sono anzi orgoglioso, bla bla bla”.
Detto questo, sono sicuro che l’ATP Cup sarà un grande successo. La data è straordinaria, non allunga il calendario ma occupa settimane in cui già tutti giocavano, tornei veri o esibizioni in preparazione dell’Australian Open, ci sono un sacco di soldi, di punti ATP e inoltre essendo una manifestazione dell’Associazione Giocatori è chiaro che otterrà l’adesione di tutti i migliori. Tiley non sapeva probabilmente cosa aveva detto, in risposta a una mia domanda, Novak Djokovic la sera prima. Risposte in aperta contraddizione. La risposta di Nole è stata ripresa dai siti e dalle tv di tutto il mondo e mi ha fatto piacere che fosse stato Ubitennis a sollevare con Nole la questione dei conflitti di interesse e delle varie lotte intestine al tennis sollevate in nome del dio Dollaro fra le varie sigle, ATP-ITF, ATP Cup, Davis Cup, Laver Cup.
Il n.1 del mondo aveva detto che i giocatori, pur intravedendo più opportunità di lavoro e guadagni, vedevano con maggior favore la partecipazione a un solo evento “perché il calendario è già sovrasaturo e avendo la stagione più lunga rispetto a tutti gli altri sport, dobbiamo focalizzarci in scelte di qualità piuttosto che di quantità”. Poiché fino a quel momento Novak si era riferito in particolare ai due eventi sistemati a sei settimane di distanza nel calendario, Kosmos-Davis Cup e ATP Cup, lo avevo incalzato: “E la Laver Cup allora?”. “Non è una competizione ufficiale, non dà punti, ma ha molto successo, attira tanta attenzione. È l’unica competizione che è capace di far giocare nello stesso team anche grandi rivali… ma in tre o quattro mesi sono troppi eventi. Dobbiamo lavorarci su… e cominciare da qualche parte”.
Ma Tiley invece, rispondendo a varie domande, non poteva essere così drasticamente avverso alla Kosmos-Davis Cup promossa dall’ITF. La sua federazione fa parte dell’ITF. Così è stato più diplomatico e possibilista: “In tanti sport ci sono anche più eventi a squadre nello stesso anno, non è detto che anche il tennis non possa averne”. E soltanto proprio nell’ultima risposta si è fatto quasi scappare una parolina conciliante nei confronti dell’ITF, “con il quale organismo ho sempre collaborato in questi anni anche per la Coppa Davis”. Evviva, ha nominato anche lui la magica doppia parola: Coppa Davis! Solo se l’ATP concederà due settimane a fine settembre all’ITF, in cambio di una delle quattro settimane di cui l’ITF non avrebbe più bisogno, si potrebbe arrivare a un compromesso che consentisse la disputa di entrambe le competizioni. Ai giocatori non dispiacerebbe potersi accaparrare 35 milioni di dollari invece di soli 15 (dell’ATP Cup) o 20 (della Kosmos-Davis Cup). Ma ora c’è in mezzo anche la Laver Cup a complicare le cose. E la Laver Cup “assolda” – la parola è giusta no? – sedici tennisti di gran nome. Spostare quella in un altro periodo, a primavera? Non è facile.
Comunque sia, approfittando di questa apparente contraddizione fra quanto detto da Djokovic e quanto da Tiley, ho voluto chiedere allora ieri sera a Federer – approfittando del suo palese buon umore per la qualificazione appena ottenuta alle semifinali – a) se anche lui era d’accordo con Djokovic su “meglio più qualità che quantità” o invece con Tiley e il suo “ci sono molti sport con molte competizioni a squadre nello stesso anno”. Ma a questa domanda volevo attaccarne un’altra e temendo di poter essere male interpretato me l’ero (insolitamente) scritta: b) se un tennista è invitato a giocare la Laver Cup e poi disputa l’Australian Open dove chiede un trattamento di favore a Tiley (un campo, un orario) non attirerebbe sospetti di… un possibile conflitto di interessi?Roger mi ha interrotto sorridendo: “Stai leggendo?”. E io: “Sì, perché avevo paura di dimenticare…”. La media manager dell’ATP Fabienne Benoit avrebbe voluto interrompermi per la lunghezza della doppia domanda… ma Roger ha gentilmente protestato: “No, no, mi piace ascoltarlo. È come la favola della buona notte (sorridente). Bella voce!”.
Allora sono andato avanti e ho concluso. E lui: “Dopo devi ripetermi la seconda risposta, era lunga e ho perso l’inizio perché non potevo credere che stessi leggendo! Ma lo capisco… dovevi essere molto preciso! La prima domanda era su…?”. “Parecchi eventi a squadre, Djokovic dice no…”, sintetizzo. “Beh, non abbiamo visto la nuova Coppa Davis ancora. Né la ATP Cup (lui la chiama ancora World Team Cup: hanno tenuto nascosto anche a lui il nuovo short name) che esisteva in Dusseldorf. Dobbiamo vedere… È un bene che ci siano tanti eventi, che si possa scegliere. Se i giocatori vorranno giocare la prima settimana dell’anno (dieci giorni in realtà) sarà entusiasmante. La Davis ha una storia così ricca, penseresti che i giocatori vorrebbero giocarla. Se ci saranno più eventi a squadra sono sicuro che i giocatori sono contenti. A tutti piace giocare insieme ad altri invece che per se stessi. Anche della IPTL molti hanno detto che era super divertente, insieme alle ragazze, Tre settimane, tanto divertimento. A volte a giocare questo sport individuale ti senti solo… vinci, guardi il tuo team, mostri il pugno in aria, ma sei solo. In Davis, Hopman Cup, Laver Cup giochi per gli altri, un Paese, è una sensazione diversa… E l’altra tua domanda quale era? Era lunga, voglio rispondere con precisione dal momento che la tua domanda era così precisa che hai dovuto scriverla!”.
E la sua risposta è poi stata: “Non penso possano esserci conflitti di interessi. Il torneo decide con l’ATP, considerano tutte le richieste che ricevono, le mettono a confronto con quelle delle tv, non so se gli sponsor per gli Slam… di solito sono le tv e qualche home market. Quindi non mi preoccupo per questi ma… certo ci sono conflitti di interesse in questo sport. Lo sappiamo. Sappiamo dove sono. Ci sono stati per tanto, tanto tempo. Non spariranno mai. Ma a quel proposito non credo ce ne siano”. E così, come ieri si era conclusa la conferenza di Djokovic dietro una mia piccola provocazione, si è conclusa quella di Federer.
Ho evitato di farne un’altra con Anderson, perché aveva perso e non mi pareva il caso, ma a proposito di conflitti di interessi posso dirvi che il direttore del torneo di Chengdu è letteralmente furibondo con lui. Anderson era la testa di serie n.1 e la star più attesa del torneo e solo pochi giorni prima dell’inizio del torneo, mentre era a Chicago per giocare la Laver Cup (ovviamente profumatamente pagato) ha dato forfait dicendo che non stava bene, non si sentiva di giocare. Un paio di giorni dopo ha battuto Djokovic nella Laver Cup. Così gli ho chiesto soltanto se – visto che la selezione della ATP Cup sarà fatta sulla base del ranking del numero uno di ciascuno Paese, e quindi il Sud Africa potrà certamente essere fra le 24 squadre che parteciperanno all’ATP Cup nel 2020 (sempre che lui sia uno dei primi 24 tennisti del mondo alla data di iscrizione) – non fosse senza compagni in grado di formare una squadra. “Ce li ho. Per il doppio c’è Raven Klaasen che è qui. Lloyd Harris è n.110 ATP, vicino a entrare in tabellone all’Australian Open. Poi un altro paio di ragazzi classificati fra n.500 e n.700…”.
Un sistema di selezione basato su un criterio automatico mi convince di più che quando c’era quello che distribuiva punti ATP per la Coppa Davis e la decisione di convocare un giocatore piuttosto che un altro spettava a un capitano, che poteva quindi favorire per vari motivi anche soggettivi un giocatore a discapito di un altro. Se un Paese, la Spagna o la Francia per esempio, ha più giocatori fra i primi 40 del mondo, i primi due vanno automaticamente in squadra, gli altri andranno a giocare gli altri tornei ATP (Doha…) in calendario. Ma sarà una scelta basata su criteri oggettivi. Vero che un giocatore peggio classificato potrebbe essere più uomo squadra di uno meglio, ma si rientrerebbe nella soggettività di un dirigente. E non sarebbe giusto. Semmai un regolamento andrà pensato anche per la convocazione di chi gioca il doppio: si seguirà il ranking del singolare o quello del doppio? Ci penseranno.
A oggi direi che la prima controindicazione di questo sistema che sceglie le nazioni partecipanti (tipico criterio da star system) sulla base del ranking del n.1 sta naturalmente nel fatto che in questo modo può venire prescelto fra i 24 Paesi uno che non ha un numero 2 dignitoso: come si deduce dal caso appena riferito del Sud Africa. O se si verificasse un altro caso tipo il Baghdatis top-ten di qualche anno fa. Che senso avrebbe avere una… Cipro fra le 24 nazioni in lizza per una sorta di campionato del mondo a squadre? Altra contraddizione: i giocatori hanno sempre sostenuto che la Coppa Davis avrebbe dovuto avere uno svolgimento biennale e non annuale. Ma ora la ATP Cup si giocherebbe ogni anno. Chiudo con un pensiero forse… egocentrico: quale giornale potrà mai permettersi di inviare un proprio cronista in Australia ogni anno dal 29 di dicembre a fine gennaio? E chiudendo davvero: a questi sponsor e organizzatori i giornali, i siti, danno solo fastidio. Costano, non pagano. Contano solo le tv che pagano salato per i diritti.
Editoriali del Direttore
Berrettini e Musetti. È vera crisi? No, ci sono troppi “becchini”. Perché io li difendo. Una fiducia motivata
A 27 anni Matteo Berrettini e a 21 anni Lorenzo Musetti non possono essere vittime di uno “stallo” duraturo. Aliassime, Rublev, Alcaraz, Ruud non hanno regalato i loro duelli. Il computer ATP non è stato manipolato per issarli n.6 e n.18 del mondo. Pioli, Inzaghi e Allegri…

Che Matteo Berrettini e Lorenzo Musetti stiano attraversando un bruttissimo periodo è purtroppo indiscutibile. A me dispiace molto per loro e confido che si riprendano abbastanza presto perché – sic et simpliciter – non mi risulta che abbiano conquistato vittorie e classifica mondiale manipolando avversari e financo il computer dell’ATP.
E’ inevitabile che le loro recenti ripetute sconfitte con avversari assai peggio classificati suscitino critiche e commenti severi. Giudizi che riflettono la delusione di quanti si erano affezionati all’idea complessiva e suggestiva di un vero “Rinascimento” del tennis italiano e si ritrovano invece oggi a potersi rallegrare soltanto per i risultati conseguiti da Jannik Sinner e, in misura minore, da Lorenzo Sonego.
E’ comprensibile che ciò accada, nondimeno mi dispiace che troppa gente scriva commenti cattivi e gratuiti su Matteo e Lorenzo. Avverto una sorta di sadismo in alcuni, di invidia in altri. Ma forse soprattutto di estrema superficialità.
Certo è che quando leggo questo genere di commenti sinceramente mi dispiace sia per loro due, sia – in tutta onestà – per chi li scrive perché a mio avviso non fanno bella figura. Mi dispiace – egoisticamente – anche per Ubitennis perché quel tipo di commenti vengono scritti anche qui su questo sito, sebbene non siano censurabili in quanto frutto di libere opinioni. Anche se non le condivido… non sarebbe infatti giusto cassarle solo perché non sono in sintonia con loro. Però mi piacerebbe invece sempre leggere commenti sereni e obiettivi di lettori intelligenti e come tali equilibrati…Sì, perché vorrei che quest’ultimo genere di commenti, appunto intelligenti ed equilibrati, ispirasse quelli di un numero sempre maggiore di lettori, in modo da fare crescere il livello di discussione e quindi di partecipazione a Ubitennis.
Ho già scritto molte volte che occuparsi di moderare centinaia, migliaia, decine di migliaia di commenti in capo a un anno, è una fatica improba e non solo perché porta via un sacco di tempo. E’ un lavoro complesso che richiede grande attenzione, equilibrio, aspirazione concreta all’oggettività pur nella inevitabile soggettività di ciascun moderatore. Una fatica ingrata che sarà sempre soggetta a critiche, talvolta per una mancata tempestività nella pubblicazione, talvolta per un atto censorio che può apparire discutibile, talvolta per disomogeneità di interventi quasi impossibile da combattere, ma certo mai preconcetta nei confronti di alcuno se questi si sia in genere ben comportato, espresso con toni educati e civili e in tema con l’argomento trattato…
Non è però certo un caso che una gran parte dei siti abbiano rinunciato alla pubblicazione dei commenti dei lettori. Da direttore-editore a me piacerebbe che Ubitennis si affermasse sempre più per un sito che raccoglie pareri e opinioni intelligenti, stimolanti. Non sono tantissimi coloro che commentano, ma sono tantissimi coloro che li leggono.
Dopo questa lunghissima e noiosa premessa vorrei tornare a ribadire in toto la mia fiducia nel prossimo futuro di due ragazzi, Matteo e Lorenzo, che hanno 27 e 21 anni. Con ancora – e proprio per via sia della loro anagrafe, nonché dell’impegno che mettono loro e i loro qualificati team, coach, fisio, mental coach etcetera – tantissimi margini di miglioramento.
Mi picco di essere stato fra coloro che hanno creduto nelle loro qualità quando molti sembravano dubitarne. Non credo di averlo fatto da tifoso.
A differenza di Lorenzo Musetti che già da junior aveva rivelato qualità non comuni, sotto i miei occhi vincendo da sedicenne il torneo junior di Firenze vent’anni dopo un certo Roger Federer su quegli stessi campi e all’incirca alla stessa età prima di laurearsi campione under 18 anche all’Australian Open, Matteo Berrettini nel 2016 _ a 20 anni e 8 mesi – era ancora n.433 ATP.
Era più difficile profetizzare per lui, piuttosto che per Musetti un grande futuro. Un futuro da top-ten. Figurarsi se da top-6.
Fui criticatissimo da molti lettori su questo sito quando, dopo aver visto diversi parecchi duelli fra primavera e autunno 2019 di Matteo – in gran parte vittoriosi ma anche taluni persi con una decina di giocatori “termometro di ottimo livello” quali Bautista Agut, Zverev, Aliassime, Rublev, Khachanov, Schwartzman, Monfils, Murray, Dimitrov, Nadal e poi Thiem più volte- mi sbilanciai sull’avvenire di Matteo.
Proprio dopo una partita persa di un soffio a Vienna con Thiem, con Dominik sospinto alla vittoria anche dall’entusiasta pubblico di casa, scrissi che secondo me Matteo non era così inferiore all’austriaco che pure aveva già colto importantissimi exploit al Roland Garros, ma aveva a mio avviso il potenziale per diventare a dispetto di quella sconfitta – se non top 3 o top 5 come Thiem era già stato – però uno stabile top-ten.
Oggi che Federer è andato in pensione, che Nadal è uscito dai top-ten dopo 18 anni, che Djokovic si batte contro i vaccini e l’anagrafe, dovrei aver cambiato idea solo perché Matteo ha perso una serie di partite di fila? Non la cambio, anche se ho sempre ammesso che il suo rovescio – salvo che sull’erba – è e resta (nonostante qualche progresso) il più debole rovescio dei top 20, forse dei top 30…anche perché paga anche una mobilità francamente non al livello dei migliori del mondo. Una mobilità che lo penalizza in fase di risposta al servizio, e via via quando lo scambio si prolunga, ma quando si è alti un metro e 96 cm e si pesa sugli 85 kg, non è facile da conquistare. Soprattutto nei cambi di direzione e, in difesa, per via del rovescio bimane sul quale tutti cercano di attaccare, si deve superare anche l’handicap di quei 25 cm in meno di allungo. Chi si muove benissimo recupera (già Sonego è un esempio), chi invece non riesce paga dazio.
Ma altrettanto mi sento di dire che il suo servizio resta da top-3 e il suo dritto da top-5, purchè la percentuale di “prime” torni ad essere quella che è stata fra il 2019 e il 2021, purchè il lavoro atletico lo riporti a riconquistare la stessa agilità di quel suo miglior biennio in modo che lui possa riprendere a girare attorno alla palla per colpirla con un furioso dritto dei suoi, ma senza troppo scomporsi. E’ anche fondamentale il ritorno della fiducia, certo. Ma questa torna appena si sistemano quei primi due aspetti appena citati e arrivano i primi inevitabili risultati. Se non si è sofferto per uno straordinario infortunio fisico quale quello patito da Thiem – e forse anche da Zverev – a 27 anni non si può essere finiti.
Io almeno non ci credo, anche se nello sport ne ho viste accadere tante. A parte il caso Bjorno Borg, consumato e prepensionato a 26 anni, anche John McEnroe dopo il magico 1984, dai 26 anni in poi non è più riuscito a giocare come prima. Ma nel suo caso cambiarono le racchette, il tennis subì una profonda trasformazione, diventò molto più potenza che tocco, molto più fisicità che varietà, le battute superarono tutte i 210 km orari e in massa salirono alla ribalta sul circuito oltre a “Robot-Lendl” anche i vari “BoomBoom” Becker, i “Serve&Volley Edberg prima dei “Corri e Tira” Agassi, Courier, Chang o “Big Big Serve” “Sweet Pete” Sampras e “Mister Ace” Ivanisevic…
Non mi sembra, salvo che per il fenomeno Alcaraz e direi anche per il nostro Sinner – mi auguro! – che si stia profilando una tale irruente ondata di campioni capace di rendere impossibile il rientro di Berrettini fra i top-ten.
LEGGI A PAGINA DUE: Le chance e i meriti di Berrettini, e le critiche immeritate verso Lorenzo Musetti
Editoriali del Direttore
È morto Roberto Mazzanti, per 20 anni direttore di Matchball, la Bibbia dei veri appassionati di tennis
Tennis e giornalismo i suoi grandi amori. Sotto la sua guida saggia ed equilibrata hanno lavorato Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, Viviano Vespignani, un giovanissimo Scanagatta. un imberbe Stefano Semeraro, il boy Luca Marianantoni e tanti altri. Era impossibile litigarci

Aveva 82 anni, era stato colpito da un malore a gennaio. Purtroppo non si più ripreso Roberto Mazzanti, uno dei pochi, pochissimi giornalisti davvero signori, con i quali era impossibile litigare. Un uomo per bene. E non lo scrivo perchè ci ha lasciato, ma perchè è vero. E lo può dire e confermare chiunque lo abbia conosciuto.
Roberto era stato negli anni Settanta il direttore di Matchball (in edicola dal 1970 al 1996), la seconda rivista di tennis – dopo “Tennis Club” diretta da Rino Tommasi – per la quale poco più che ventenne avevo cominciato a collaborare, spinto dalla mia inesauribile passione per il tennis e per il giornalismo, gli stessi due grandi amori di Roberto. Per lui, come per me, era una passione romantica, senza mai l’ambizione di arricchirsi, ad alimentare quei due eterni amori.
Lui, bolognese, era cresciuto all’interno del Resto del Carlino dove era stato assunto inizialmente come correttore di bozze. Infatti, diventato poi redattore professionista del quotidiano bolognese, dividendosi fra le pagine della cronaca cittadina come dello sport – come sarebbe successo anche a chi scrive – non avrebbe mai sopportato i refusi.
Non l’ho mai visto arrabbiato, mai perdere il controllo, mai alzare la voce. Un gentiluomo con aplomb british, mascherato da un moderato accento emiliano. Adorava guardare il tennis, non solo quello dei grandi – venne anche a vedermi giocare la finale di doppio dei campionati italiani di Seconda Categoria al Circolo Tennis Giardini Margherita, lui che frequentava la Virtus del presidente (anche FIT) Giorgio Neri – ma gli piaceva anche giocarlo. E lo ha fatto da dilettante fino a tempi anche recenti, sebbene avesse scoperto anche il golf e, negli anni, gli fosse venuta anche la passione per le automobili, la tecnologia, il loro evolversi.
Lavoravamo per lo stesso gruppo editoriale, la Poligrafici, ma io – più giovane e scapolo mentre lui era sposato – ero più disponibile a sacrificare ferie e vacanze (a caccia di ospitalità o alberghi a due stelle) per andare a seguire il tennis nel maggior numero possibile di tornei.
Quindi per Nazione e “Carlino” accadeva che lui mi lasciasse il passo per gli Slam e che io lo lasciassi a lui per la Coppa Davis …che allora era una cosa seria, ma si esauriva in alcuni long-weekend e che potevano essere anche 5, 6 o 7 in un anno se l’Italia andava in finale come accadde per quattro anni su cinque fra il ’76 e l’80. Accadde anche che con quei ripetuti exploit dei nostri 4 moschettieri azzurri io mi ritrovassi a seguire insieme a Roberto anche quegli eventi a squadre.
Non esisteva Internet, né la composizione digital-elettronica e Matchball optò, anche per contrapporsi a “Il Tennis Italiano” che era un mensile, una cadenza quattordicinale. Usciva in edicole (sì, esistevano ancora…) ogni due martedì e sotto la guida di Roberto scrivevamo i nostri articoli Roberto, Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, il sottoscritto, Paolo Francia, Viviano Vespignani e (diversi anni dopo) si sarebbe aggiunto, fra i tanti, anche Luca Marianantoni con tutti i numeri che si portava appresso. In redazione due giovani di belle speranze, Stefano Semeraro e Enrico Schiavina., Al lunedì mattina Matchball doveva essere “chiuso” in tipografia. La domenica sera…si finiva per scrivere editoriali, pagelle, statistiche, a notte inoltrata. Sempre facendo le corse, perché magari le partite, ai più diversi fusi orari, finivano tardissimo e la copertura era massiccia. Per merito di tutto il team Matchball diventò ben presto la rivista leader e tale restò fino a che l’avvento di Internet, delle notizie on line, delle coperture televisive di più network, fece strage di gran parte delle riviste cartacee, impossibilitate a reggere la concorrenza sul piano della tempestività dell’informazione.
Roberto, giornalista elegante ed equilibrato, prediligeva i tennisti dal bel braccio, McEnroe, Panatta, Bertolucci (e più recentemente inevitabilmente Federer), Rino era prima innamorato di Rosewall e poi di Edberg, io stravedevo per l’arte e l’imprevedibilità di Nastase, per la grinta e i limiti tecnici di Connors oltre che per Boris Becker (per far da contraltare a Rino), quando sarebbe arrivato Luca avremmo annoverato nel team di Matchball anche un grande fan di Lendl.
Vabbè, vedete, anche adesso che Roberto ci ha improvvisamente lasciato affiorano nella mia mente tanti ricordi, tanti amichevoli dibattiti e lui che, con fare quasi ecumenico, mi diceva: “Dai Ubaldo scrivi le tue pagelle, falle un po’ tecniche, un po’ironiche, senza infierire mai troppo…anche se lo sappiamo tutti che se devi scrivere di promossi e bocciati, ai lettori piaceranno sempre più i voti bassi che quelli alti, quelli più critici che quelli pieni di elogi. Il mondo va così” diceva chiaramente dispiacendosene. E a quei tempi non esistevano ancora i leoni da tastiera, gli “webeti”. Che la terra ti sia lieve caro amico. E che tua moglie Anna, tuo figlio Luca, la tua nipotina adorata, sopportino con forza e coraggio il vuoto che lasci a loro e a tutti quelli che ti hanno stimato e voluto bene.
Australian Open
Australian Open: Il fenomeno Djokovic è di un altro pianeta. Tsitsipas non poteva fare di più. Non è la parola fine sul GOAT
I fenomeni non sono stati solo tre, Djokovic, Federer e Nadal. Perché se si dà peso primario ai titoli Slam, Rosewall e Laver non possono essere ignorati. E perchè un solo anno, e non sempre, laurea il vero n.1

Il resto del video, che qui potete vedere in anteprima, è disponibile sul sito di Intesa Sanpaolo, partner di Ubitennis.
Clicca QUI per vedere il video completo!
Non ho mai pensato che potesse finire diversamente. L’unico momento di dubbio l’ho avuto – insieme a Djokovic – quando entrambi abbiamo temuto che il suo problema alla coscia fosse un problema serio.
Così come gli altri due fenomeni, Federer e Nadal (elencati, a scanso equivoci, in ordine alfabetico), Novak Djokovic è di un altro pianeta rispetto a tutti gli altri contendenti. Come fenomeni sono stati nello sport più popolare – se cito soltanto i fenomeni del calcio, anziché altre discipline sportive, è perché è più facile che quasi tutti capiscano di che cosa parlo – Pelè a cavallo degli anni 60/70, Maradona un ventennio dopo, Messi e Cristiano Ronaldo nel terzo millennio.
Djokovic, Federer e Nadal (ancora in ordine alfabetico) hanno lasciato le briciole a tutti gli altri tennisti loro contemporanei. E l’hanno fatto con una continuità spaventosa, in un arco temporale inimmaginabile che ha spaziato fra i 15 e i 20 anni. Davvero incredibile.
Mentre i campioni Slam del passato una volta superati i 30 anni difficilmente riuscivano a restare competitivi per più anni,– salvo rarissime eccezioni: Rosewall, Connors, Agassi su tutti – mentre qualche straordinario campione come Borg o McEnroe ha smesso di giocare o di vincere già a 26 anni – questi tre hanno continuato a dominare il resto della concorrenza come se fosse la cosa più normale del mondo. E tutti a sorprendersi, a meravigliarsi con infinito stupore quando ciò, a uno dei tre, ma mai a tutti e tre insieme, non succedeva.
Nel conquistare il meritato appellativo di “fenomeni” i tre supercampioni non si sono limitati a registrare un record dopo l’altro pur dovendosi affrontare fra le 50 e le 60 volte in pazzeschi testa a testa, dopo essersi inseguiti come i celebri duellanti di Conrad ai tempi di Napoleone ai 5 angoli/continenti del mondo sulle più varie superfici. Ma tutti e tre hanno dato dimostrazione di formidabili e superiori doti tecniche, atletiche, caratteriali, intellettuali, morali, umane. Ho forse dimenticato un qualche aspetto?
A trovar loro un vero difetto, come campioni e come uomini, personalmente ho sempre fatto fatica. Anche perché li ho conosciuti tutti da vicino e fin da quando hanno cominciato a cogliere i loro primi stupefacenti successi, quasi imberbi, a 16 e 17 anni. Quando anche un “parvenu” del tennis avrebbe intravisto le loro eccezionali qualità. Personalità intelligenza, simpatia, resilienza, determinazione, avevano tutto fin da subito. Le si potevano scorgere a occhio nudo, senza farsi condizionare dalla semplice precocità.
Forse proprio Djokovic, il più giovane dei tre e colui che sembra destinato a restare sulla breccia più a lungo degli altri, è quello – anche per le sue posizioni NOVAX (peraltro coerenti al massimo, diversamente da chi ha presentato certificati falsi assolutamente imperdonabili) – che ha sollevato più casi controversi. Talvolta nemmeno interamente per sue responsabilità. Il background della sua famiglia, l’educazione, lo stile di vita, sono stati diversi da quelli di Federer e Nadal.
Eppoi lui è arrivato dopo di loro, quasi un intruso, in un mondo che tennisticamente si era diviso all’80% fra federeriani e nadaliani. Per conquistarsi un posto, ha dovuto farsi spazio fra loro, impossessandosi di quel 20% che era rimasto ai neutrali. E dovendo giocare dappertutto con folle di tifosi più ostili che amiche. In patria è diventato un simbolo, un eroe, un semiDio. Fuori no. E’ stata dura, molto più dura che per gli altri due fenomeni conquistarsi un suo pubblico, un suo status internazionale. Lo ha potuto fare nel solo modo che lo sport consente: i risultati. Risultati assolutamente straordinari. Pian piano ha battuto i suoi leggendari rivali più volte di quanto di avesse perso. Pian piano ha autorizzato i suoi estimatori a inserirlo nell’eterno dibattito sul GOAT, sul più forte giocatore di tutti i tempi.
Non si metteranno mai d’accordo i tifosi dei tre fenomeni. Tutti avranno buoni motivi per sponsorizzare il loro fenomeno d’elezione. Chi privilegerà un’epoca ad un’altra, una strong era a una weak era (e qualche vuoto pneumatico al top dei competitor c’è stato per tutti e tre), chi lo stile e l’eleganza, chi la forza e la garra, chi la completezza, chi una superficie o un’altra. E qualunque conclusione verrà raggiunta sarà sempre ingiusta. Anche perché se in uno stesso anno possono cambiare in maniera pazzesca le cose – pensate solo al 2016 con i primi 6 mesi di Djokovic e i secondi 6 mesi di Murray – e figurarsi da un anno all’altro – pensate al 2017 e ai 4 Slam divisi fra i “risorti” Federer e Nadal che molti avevano già dati per finiti – se si dovessero confrontare pacchetti di più anni, in cui sono magari cambiate le attrezzature, le superfici, ogni paragone fra epoche diverse condurrebbe a emettere verdetti assolutamente discutibili, comunque superficiali.
Oggi, e chiudo questo lunga premessa, i fan di Djokovic ebbri di gioia per i 22 Slam che hanno consentito a Nole di eguagliare i 22 di Rafa Nadal e di “staccare” definitivamente i 20 di Federer sembrano aver buon gioco a sostenere che chi vincerà più Slam a fine carriera potrà tappare la bocca a tutti gi altri pretendenti al GOAT.
Ma non è così. Ken Rosewall, cui abbiamo dedicato un bell’articolo in questi giorni, ha vinto 8 Slam ma ne ha dovuti saltare – perché professionista per 11 anni – ben 44. E Rod Laver, unico campione ad aver realizzato due volte il Grande Slam (1962 e 1969, a sette anni di distanza, i suoi migliori 7 anni…), ha vinto 11 Slam dovendo saltare 20 Slam fra il 1963 e il 1967. Non potevano essere loro i GOAT? I fenomeni del tennis non sono stati solo tre.
Quelle ultime due lettere, A e T, stanno per ALL TIME. Se allora ALL TIME, per i motivi su esposti, non si può dire, limitiamoci allora a dire chi sia stato il miglior tennista del mondo anno per anno. E solo in quel caso è più probabile che non ci si sbagli, anche se – ripetendo l’esempio fatto poc’anzi – se si prende in esame un anno come il 2016 nel quale Novak domina i rimi sei mesi, Andy Murray i secondi sei, e il computer ATP assegna il numero uno year-ending a Murray perché vince la finale del Masters…beh anche in quel caso siamo così sicuri che il verdetto fosse così inequivocabile, inappellabile? Una sola partita può decidere chi sia il miglior tennista di tutto l’anno, solo perché lo dice un computer che – cito per l’ennesima volta Rino Tommasi – “sa far di conto, ma il tennis non lo capisce?”.
Vabbè, torno sulla finale e sulla superiorità disarmante di Djokovic perfino al termine di un match non immune da pecche, da errori evitabili, da nervosismi quasi inesplicabili come quello che lo ha colto a metà del secondo set quando avrebbe potuto continuare a gestire tranquillamente il match come aveva fatto fino ad allora.
Tsitsipas non poteva far molto di più, salvo che – nel tiebreak del secondo set – evitare quei quattro errori di dritto, il suo colpo migliore andato improvvisamente…in barca.
Ma Djokovic, che è indiscutibilmente da anni il miglior ribattitore del mondo – e qui, su questo giudizio, credo possano essere d’accordo perfino i tifosi di Federer e Nadal – era stato ingiocabile sui propri servizi. Fino a quel game in cui Tsitsipas è riuscito – sul 4-5 del secondo set- a conquistarsi contemporaneamente sia la prima palla break che l’unico setpoint Djokovic, aveva lasciato al più temibile dei suoi avversari la miseria di sei punti nel primo set in cinque turni di battuta (la sola volta che Stefanos era arrivato a 30 però Novak era avanti già 3-1 e 40-0) e nel secondo set 5 punti nei quattro turni di servizio. Mai Tsitsipas era ancora arrivato a 40.
Ok? Bene: c’è arrivato in quel frangente e sulla pallabreak-setpoint che fa Djokovic? Prima di servizio e dritto vincente.
Poi un tiebreak giocato maluccio da entrambi, perché sul 4-1 per Nole frutto di tre minibreak seguiti a 3 inattesi errori di dritto di Tsitsipas Nole ha prima regalato un insolito rovescio per lui banalissimo e poi ha fatto anche il secondo doppio fallo del suo match. Ma sul 4 pari ecco di nuovo Tsitsipas, evidentemente teso come una corda di violino, sbagliare un quarto dritto! Djokovic non se l’è fatto dire due volte e dal 4 pari al 7-4 è stato un gioco da ragazzi.
Qualcuno poteva illudersi che dopo il toilette break e l’unico servizio perso da Nole all’inizio del terzo set le cose potessero cambiare? Forse neppure l’irriducibile Tsitsipas.
Dal 2 a 2 in poi Djokovic – che ribadisco essere il miglior ribattitore del mondo – tiene per 4 volte consecutive il servizio a zero: 17 punti di fila (contando l’ultimo che gli aveva dato il 2-1 in un game vinto a 15). Cui seguiranno gli altri primi tre del tiebreak che decide l’ultimo tiebreak in cui, giusto per non illudere Tsitsi e le migliaia di fan greci che non smettevano di gridare “Tsitsipas, Tsitsipas” – mentre fuori dal centrale la stragrande maggioranza nel garden davanti al mega schermo era invece serba (mica facile procurarsi i biglietti…) – Djokovic sale sul 5-0, subisce dopo 20 punti conquistati con il servizio un mini-break, ma poco dopo chiude con un dritto vincente sul terzo matchpoint.
Sì, mi scuso, ho riscritto una cronaca che Cipriano Colonna aveva già scritto brillantemente chiudendola su Ubitennis nei 5 minuti successivi alla conclusione, ma solo per sottolineare come oggi perfino un Djokovic che ha giocato senza fare troppe cose straordinarie, è stato assolutamente ingiocabile in 12 turni di servizio su 14 (salvo che sul 4-5 e sul primo gae del terzo set) ed è sempre stato fortissimo – sì, proprio come sempre – quando doveva rispondere.
I suoi record li abbiamo già ricordati dappertutto. Non credo serva scriverli ancora, prima di cominciare a pensare a che cosa potrà accadere nel regno di Nadal al Roland Garros. Novak ha perso un solo set nel torneo, ma perché con Couacaud al secondo turno gli faceva male la coscia sinistra. Però se fossi stato a Melbourne tutti i suoi dieci trionfi, i 22, i 93, le 374 settimane da n.1 (verso le 377 di Steffi Graf) magari avrei trovato un modo per ricordarglieli in conferenza stampa.
Qua dico soltanto….davvero not too bad! carissimo fenomeno Djokodiecivic.