Numeri: i giovani sì, ma con moderazione. Osaka invece si consacra

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Numeri: i giovani sì, ma con moderazione. Osaka invece si consacra

Raccolta di statistiche dopo il primo mese di questo 2019. Zverev balbetta ancora negli Slam, Djokovic vince il suo Slam più facile, Nadal comunque da applausi

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3 le top ten sconfitte a Melbourne da Naomi Osaka nella sua marcia per la conquista del secondo Slam consecutivo e della prima posizione del ranking WTA. La 21enne giapponese, esplosa durante lo scorso torneo di Indian Wells, vinto da numero 44 del mondo, solo nel torneo californiano era riuscita a vincere contro una delle prime dieci del mondo (Pliskova nei quarti e Halep in semi). Sebbene ormai esplosa come futura campionessa, da lì in poi, contro giocatrici top 10, aveva totalizzato sei sconfitte e una sola vittoria. Uno score che rappresentava un piccolo cono d’ombra sul suo già brillante 2018, chiuso da 4 WTA, anche grazie al primo Major portato a casa agli US Open, dove l’unica giocatrice di primissimo livello incontrata era stata Serena in finale. Lo scorso settembre a New York per vincere il titolo perse un solo set (con Sabalenka agli ottavi, seconda e ultima top 20 affrontata a Flushing Meadows). Nei quattro tornei successivi a quel trionfo era arrivata solo a una finale (a Tokyo) e a due semi (nel Premier 5 di Pechino e in quello “semplice” di Brisbane). A Melbourne, se possibile, il successo valso il primato nel ranking conta maggiormente di quello ottenuto a New York: è sempre più difficile ripetersi e riuscirci è testimonianza di maturità e solidità mentale da grandissima giocatrice. Naomi ha vinto lo Slam Down Under avendo questa volta il favore dei pronostici e la conseguente relativa pressione, portando a casa anche ben quattro partite al set decisivo. Prima della finale con Kvitova (7-6 5-7 6-4) e della semi contro Pliskova (6-2 4-6 6-4), ha rimontato anche un parziale di svantaggio contro Hsieh (al terzo turno col punteggio di 5-7 6-4 6-1) e Sevastova (agli ottavi con lo score di 4-6 6-3 6-4). Merita pienamente quanto di straordinario ha conquistato.

5 i tennisti non ancora ventitreenni (Coric, Medvedev, Tiafoe, Tsitsipas, Zverev) giunti agli ottavi del singolare maschile. Oltre a loro, tra i migliori sedici dello Slam australiano, il solo Pouille era nato dopo il 1991. È partita ormai da più di due anni la campagna dei tennisti della “Next Gen”, i giovani teoricamente già pronti a prendere il posto dei Fab Four. A Melbourne, però, solo Tiafoe e Tsitsipas sono arrivati ai quarti e hanno sconfitto un top ten (rispettivamente Anderson e Federer, quest’ultimo dopo un ottavo visto forse prematuramente come il simbolo della fine di un’epoca). In realtà, continuano in gran parte a deludere. Una delle poche eccezioni è rappresentata da Shapovalov: seppur eliminato già al terzo turno, è stato molto bravo ad elevare il livello del suo tennis per strappare un set a Djokovic. Il più atteso di tutti però, Sascha Zverev, ha giocato ormai l’ottavo Major da top ten e il quarto di finale all’ultimo Roland Garros resta il miglior piazzamento sin qui ottenuto in uno Slam: a Melbourne è stato sconfitto in tre set da Raonic, non giocandone in pratica due e facendosi notare più che altro per una performance poco edificante con la sua racchetta. Non è l’unico giovane ad aver perso contro classifica: Khachanov si è smarrito al terzo turno contro il super Bautista di inizio 2019 (già nove vittorie per lui quest’anno), mentre Coric si è fatto sorprendere in ottavi da Pouille.

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Se Medvedev perdendo al quarto turno a testa alta contro Djokovic non ha nulla da rimproverarsi, anzi (tra l’altro, bella la vittoria in tre set su Goffin), possono però sorridere davvero solo Tiafoe e Tsitsipas. A 21 anni appena compiuti, lo statunitense ha vinto due partite contro avversari prestigiosi e forti come Dimitrov e Anderson e una terza contro uno insidioso come il Seppi versione australiana, prima di arrendersi allo splendido Nadal visto prima della finale. Il migliore è stato il vincitore delle ultime ATP Next Gen Finals di Milano, Tsitsipas, arrivato in semifinale a Melbourne, come accaduto a Chung l’anno scorso, dopo aver vinto lo stesso trofeo qualche mese prima. Il greco, bravissimo ad approfittare in ottavi di un Federer sprecone, ha anche superato la difficile prova del nove rappresentata in quarti di finale da Bautista Agut. Nadal in semifinale gli ha però ricordato che la nuova ottima classifica (12 ATP) è meritatissima, ma che ancora c’è da lavorare per compiere lo step finale e diventare un campione assoluto. A Melbourne, insomma, tra i giovani pochi promossi e tanti rimandati.

7 i tornei giocati da Serena Williams da quando, a distanza di 14 mesi dalla sua ultima apparizione (gli Australian Open 2017 vinti in finale sulla sorella Venus), lo scorso marzo a Indian Wells è rientrata in campo nelle competizioni ufficiali dopo essere diventata mamma. La campionessa di 23 Slam in questo suo ritorno all’attivita professionistica deve ancora aggiungere un titolo ai 72 complessivi già conquistati in singolare: è arrivata in finale a Wimbledon e US Open e ha raggiunto i quarti agli ultimi Australian Open, dove ha sprecato un grosso vantaggio (e non convertito quattro match point) contro Karolina Pliskova. Curioso notare come le sue sette sconfitte siano giunte o contro top ten (Kerber a Wimbledon, Kvitova a Cincinnati, Pliskova a Melbourne, Venus a Indian Wells) o, per ben due volte, contro la nuova numero 1 Osaka (a Miami e a New York). Solo una – dopo Wimbledon, a San Josè, dove arrivò non al meglio e perse contro Konta, comunque 4 WTA nel 2017 – è venuta contro una tennista non classificata al vertice. Dati che, assieme alla nuova classifica (11 WTA con appena sette tornei da contabilizzare), alle sette vittorie contro top 20 (di cui due, Halep e ancora Karolina Pliskova tra le prime 10) testimoniano che la coetanea di Federer (Serena ha cinquanta giorni in meno dello svizzero) possa ancora puntare in alto, nonostante i 37 anni e mezzo certificati dalla carta d’identità. Magari anche tramite un incremento dell’attività agonistica, così come lei stessa ha ipotizzato dopo la sua sconfitta a Melbourne.

8 gli italiani nel main draw degli Australian Open: tra gli uomini Fognini, Cecchinato, Seppi, Berrettini, Fabbiano e i qualificati Travaglia e Vanni (unici della pattuglia di tredici azzurri che si era iscritta al tabellone cadetto), tra le donne Giorgi. La loro partecipazione ai tabelloni di singolare ha portato un bilancio complessivo di nove vittorie e otto sconfitte. Numeri in chiaroscuro, come testimoniato dall’ennesimo anno senza azzurri nella seconda settimana, un’assenza parzialmente lenita dal raggiungimento, da parte di quattro di loro, del terzo turno. Delude soprattutto il numero uno azzurro, che perde per la sesta volta su sei contro Carreno e continua a non sbloccarsi nei Major (in 43 partecipazioni, un solo quarto e quattro ottavi). Non fa meglio di lui, anzi, Marco Cecchinato, che Roland Garros a parte ha sempre perso al primo turno negli altri sette Slam a cui ha partecipato (e a Melbourne rimpiange il match point mancato contro Krajinovic). Bravi invece a fare il loro dovere Vanni (porta al quinto Carreno Busta), Travaglia (sconfigge in quattro Andreozzi prima di arrendersi in cinque al top 20 Basilashvili), così come lo è stato Fabbiano nel raggiungere per la terza volta – dopo US Open 2017 e Wimbledon 2018 – i trentaduesimi in un Major. Il pugliese c’è riuscito grazie alle vittorie su Kubler e Opelka (al super tie-break del quinto), con la ciliegina sulla torta della bella partita giocata contro Dimitrov.

Bene anche l’unica donna (delle cinque che hanno partecipato alle qualificazioni, solo Trevisan è arrivata almeno al turno decisivo). Camila Giorgi, dopo aver lasciato pochissimi game a Jakupovic e Swiatek, ha portato al terzo set Karolina Pliskova, poi semifinalista dopo aver eliminato Serena. Capitolo a parte merita Seppi, come al solito protagonista in Australia con ottime prestazioni (la settimana precedente era arrivato in finale a Sydney e, soprattutto, a Melbourne è stato capace di raggiungere il quarto dei sei ottavi che rappresentano il miglior piazzamento ottenuto nei suoi 56 Slam giocati). Il quasi 35enne bolzanino ha prima eliminato una testa di serie, Johnson, poi ha estromesso il tennista locale Thompson, 72 ATP, infine si è arreso in cinque set a Tiafoe, che poi sarebbe giunto sino ai quarti. L’unica vera bella notizia è stata rappresentata dalla bellissima vittoria del titolo junior da parte di Lorenzo Musetti: un titolo che statisticamente dice poco sulle sue possibilità ad alto livello nel mondo ‘pro’, ma è altresì vero che, da sempre, vincere aiuta a vincere.

9 le sconfitte rimediate da Lucas Pouille nel suo disgraziato 2018 contro tennisti non compresi nella top 50 (e quattro di loro, Bemelmans a Melbourne, Bambri a Indian Wells, Novak a Wimbledon e Auger-Aliassime a Toronto, non erano nemmeno tra i primi 100 al mondo). Una stagione negativa, culminata lo scorso ottobre con l’uscita dai primi 30 e con la coraggiosa decisione di interrompere dopo sei anni il sodalizio con il coach che lo aveva accompagnato nella sua ascesa nel mondo ‘pro’, Emmanuel Planque. L’ex numero 10 ATP (a marzo 2018) lo scorso dicembre annunciava anche l’inizio del sodalizio con Amelie Mauresmo, ex campionessa e capitano di Fed Cup, nonché ex allenatrice di Andy Murray tra il 2014 e il 2016, quando divenne la prima allenatrice donna di un top ten. Un sodalizio iniziato con la prima semifinale Slam della sua carriera: Lucas negli Slam aveva al massimo raggiunto due volte i quarti di finale (nel 2016, a Wimbledon e agli US Open) e agli Australian Open era stato eliminato in tutte e cinque le sue partecipazioni nel main draw al primo turno. Prima di Melbourne, solo altre due volte aveva sconfitto due top 20 nello stesso torneo (nel 2016 Bautista e Nadal a New York, Goffin e Thiem a Metz). Nel primo Major dell’anno ha invece eliminato dopo battaglie di più di tre ore di durata, Coric (6-7 6-4 7-5 7-6) e Raonic (7-6 6-3 6-7 6-4) prima di arrendersi a Djokovic (6-0 6-2 6-2). Agli Australian Open nei primi tre turni ha avuto la meglio su due top 100 come Kukushkin (6-1 7-5 6-4) e Marterer 7-6 7-6 5-7 6-4), per poi soffrire al terzo contro la wild card australian Popyrin (7-6 6-3 6-7 4-6 6-3).

14 ore e 3 minuti il tempo trascorso in campo da Nole Djokovic per vincere il suo settimo Australian Open. Sia per conquistare i precedenti sei titoli a Melbourne (ma nel 2008 e nel 2011 perse un solo set, a differenza dei due ceduti quest’anno contro Shapovalov e Medvedev) che per vincere gli altri otto Major (1 Roland Garros, 4 Wimbledon e 3 US Open), il serbo non era mai stato in campo meno di 15 ore abbondanti. Va ricordato che nei quarti in questa edizione Nole ha usufruito del ritiro di Nishikori, quando però era già avanti nel punteggio 6-1 4-1. A riguardo però il serbo non ha “colpe”, ma al massimo meriti (ha finito di sfiancare il nipponico) ed è in ogni caso molto difficile pensare che per concludere la partita – con quella situazione di punteggio e con quella inerzia – avrebbe impiegato un’ora. In ogni caso, la vittoria nei giorni scorsi del 15° Slam risulta essere da tanti punti di vista la più facile mai ottenuta da Nole per portare a casa un titolo di questa importanza. Un dato impressionante per un tennista che a inizio luglio, a 31 anni compiuti, era ancora fuori dalla top 20 e veniva dato da tanti come per finito ad altissimi livelli. Nella prima metà del 2018, molto probabilmente nessuno avrebbe ipotizzato che Nole avrebbe poi vinto i successivi tre Slam giocati, 2 Masters 1000 (Cincinnati e Shanghai) e, più in generale, 45 delle 49 partite (92% di successi) giocate da Wimbledon in poi (e, probabilmente, l’unica delle quattro sconfitte dove veramente era concentrato al 101% è stata la finale delle ATP Finals contro Zverev).

Intanto, il numero 1 al mondo si gode il suo magico rapporto con gli Australian Open: ha vinto 68 dei 76 incontri giocati a Melbourne, una percentuale (89, 4%) anche migliore di quella di Federer sui prati di Wimbledon, ma ovviamente seconda all’incredibile 97,7% di vittorie che Nadal ha al Roland Garros. Nole allunga il suo vantaggio in classifica sui diretti inseguitori, che potrebbe incrementare ancora, visto che non ha grosse cambiali nei primi sei mesi dell’anno. Punta ora al Roland Garros, la cui vittoria significherebbe tanto. Djokovic diverrebbe infatti il primo nell’Era Open a vincere almeno due volte tutti i Major e per la seconda volta sarebbe l’unico, dal 1968 in poi, a detenere contemporaneamente tutti e quattro i tornei dello Slam. Se vi riuscisse, una volta superato l’ostacolo per lui più duro (Parigi da più di un decennio è dominata da Nadal), potrebbe davvero pensare di poter essere il primo, dopo Laver, a vincere tutti e quattro i Major nello stesso anno. Vedremo, intanto è ufficiale che da sette mesi (e per almeno qualcun altro) si è tornati al dominio del circuito da parte del serbo.

Novak Djokovic – Australian Open 2019 (foto @Sport Vision, Chryslène Caillaud)

56  le partite vinte sul cemento all’aperto da Rafael Nadal nell’arco degli ultimi due anni solari. Un ottimo bilancio per il campione maiorchino, che, da quando agli Australian Open 2017 si ritrovò un break avanti nel corso del quinto set della finale poi vinta da Federer, dopo aver sconfitto tra gli altri Zverev, Dimitrov e Raonic allora 3 del mondo, ha rimediato solo altre nove sconfitte su questa superficie. Per la precisione altre tre sono arrivate contro il campione svizzero, due a seguito di ritiri a partita piuttosto compromessa (contro Cilic e Del Potro l’anno scorso), mentre le restanti portano la firma di Querrey (finale Acapulco 2017), Shapovalov (Canadian Open 2017), Kyrgios (due anni fa a Cincinnati) e Djokovic, nella finale di qualche giorno fa a Melbourne, prima a livello Slam persa senza vincere nemmeno un set. Una percentuale di partite vinte sul cemento all’aperto dell’85%, che gli ha consentito di vincere US Open e ATP 500 di Pechino nel 2017, il Canadian Open l’anno scorso e di raggiungere quattro finali (di cui due agli Australian Open). Percentuali di vittorie in carriera su questa superficie ben migliori del 79% (308 vittorie e e 83 sconfitte sino a quel torneo) col quale si è iscritto a Melbourne nel 2017.

Non ne raggiungeva di analoghe dal 2013, anno in cui sul cemento vinse US Open e ben tre Masters 1000 (Indian Wells, Montreal e Cincinnati). Guarda caso, quella fu l’ultima stagione chiusa da Rafa al numero 1 del mondo, prima della sua resurrezione sul cemento, datata appunto 2017, ultimo sinora dei quattro anni chiusi al vertice della classifica. E dire che il campione spagnolo è arrivato due settimane fa al primo Slam della stagione avendo completato (e vinto a Toronto l’anno scorso) soltanto uno dei 18 tornei sul cemento ai quali aveva partecipato da fine 2017. Dati che facevano venire più di un dubbio sulla sua possibilità di competere ancora ad alto livello su questa superficie. Invece, agli Australian Open appena conclusi ha mostrato, eccezion fatta per la brutta prova offerta in finale, un tennis di primissimo livello, non lasciando agli avversari dei primi sei incontri (nell’ordine Duckworth, Ebden, De Minaur, Berdych, Tiafoe e Tsitsipas) nemmeno un set e concedendo appena 52 game complessivi. A 32 anni e mezzo e dopo un incredibile numero di successi, incredibilmente non si smette mai di conoscerlo e di sorprendersi davanti alle sue grandi imprese tennistiche.

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