E siamo a diciotto: breve retrospettiva sull'anarchico 2019 WTA

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E siamo a diciotto: breve retrospettiva sull’anarchico 2019 WTA

Con la caduta di Alison Van Uytvanck a Lugano si allungherà a diciotto la striscia stagionale di campionesse differenti in altrettanti tornei. In attesa della restaurazione sulla terra europea

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Bianca Andreescu - Indian Wells 2019
 

Non impossibile da prevedere: del resto, da quando Serena ha inteso introdurre il part-time nella propria carriera, l’azienda del tennis femminile è priva di capi riconosciuti. Di retorica in retorica, prelibata oasi da cui innumerevoli commentatori e addetti ai lavori traggono linfa scrittoria da altrettanto innumerevoli anni, si è giunti al parossismo più selvaggio: altro che senza padrone, dal meraviglioso giardino del tennis WTA è scappato persino il custode. Il risultato di tale anarchia è già storia dalla scorsa settimana, giacché mai e poi mai i primi sedici tornei stagionali avevano avuto sedici vincitrici diverse, e figuriamoci alla fine della prossima, quando la striscia si allungherà a diciotto per via del rovescio patito da Alison Van Uytvanck.

Unica detentrice di titolo del 2019 ancora in gara nella settimana numero quindici del calendario, la bicampionessa del torneo di Budapest è inopinatamente saltata nel secondo turno a Lugano, dove era insignita della quarta testa di serie, per mano della biondina francese Fiona Ferro, quest’ultima in lenta ma costante ascesa. Contrita, Alison ha perso presto la possibilità di concedere il bis, contribuendo peraltro a rendere più solido un record che sarà difficile battere. Calcolando che la settimana prossima il tour lascerà spazio alla Fed Cup non resta che attendere Stoccarda, ultimo torneo di un quadrimestre perlomeno anomalo.

Dall’estate australe è capitato di tutto: dominanti, i primi botti della stagione sono arrivati da Petra Kvitova (Sydney) e Karolina Pliskova (Brisbane), accompagnati dall’ultimo cenno di presenza lasciato da Julia Goerges, campionessa ad Auckland prima di eclissarsi. Notevoli anche l’inaugurale botto della stellina USA Sofia Kenin, vincente a Hobart, e la conferma di Aryna Sabalenka, poi scopertasi insigne doppista, dominante a Shenzen. All’Open d’Australia, scorbutico banco contro cui è proverbialmente difficile bluffare, le conferme delle ceche, con Karolina capace di una rimonta leggendaria su Serena Williams e Petra in finale in carrozza, non sono state sufficienti a impedire a Naomi Osaka di sistemare in bacheca il secondo Major consecutivo dopo l’impresona di New York. La giapponese, in verità non si sa ancora per quanto, vanta occhio clinico e un cinismo pragmatico mica da ridere: titoli in bacheca, tre (Indian Wells e US Open 2018, Australian Open 2019). Se ci si deve sporcare le mani, tanto vale farlo per qualcosa di grosso.

Attesa a nuove e più grandi, anche se forse sarebbe opportuno dire più continue, conquiste, Naomi si è invece spenta, complice l’enigmatica separazione dall’amato Sascha Bajin, sedotto e abbandonato, o magari seducente e abbandonante, approcciatosi poi alla corte di Kiki Mladenovic: se l’ex sparring di Serena e Azarenka riesce a resuscitare lady Thiem una candidatura alla Hall of Fame non gliela nega nessuno. In ogni caso, rientrata da Melbourne, Osaka ha vinto la bellezza di tre partite in tre tornei, senza mai andare oltre il terzo turno. Crisi reversibile, e occhio al Roland Garros, prossimo gioiello brillante, nonostante la terra battuta.

Il viaggio in Medio Oriente ha lasciato in primis il ricordo di Belinda Bencic, tornata alla vittoria a Dubai dopo anni disgraziati, peraltro sopravvivendo a sei match point avversi contro Sabalenka nel terzo turno, ma il Sunshine Double era da molti atteso per sedare la ribellione generale. Nient’affatto, il circuito è in fase di transizione e il destino ha rilanciato: a Indian Wells la copertina se l’è presa di forza Bianca Andreescu con una decina di giorni da Monica Seles. La teenager canadese, funestata alquanto dagli infortuni nei mesi passati, ha ricordato a tutti, perché in molti se l’erano dimenticato, che tra Yastremska (una delle vincitrici di quest’anno, a Hua Hin), Potapova, Danilovic, Anisimova, Swiatek, insomma, tra le tante nuove leonesse in attesa di invadere la top 10, la più forte, o quantomeno la più pronta, forse è proprio lei. A Miami invece è stata la volta di Ashleigh Barty e del suo tennis inusuale e difficilino, divertente e ricco di variazioni con cui ha mandato ai matti, in sequenza, Kvitova, Kontaveit e Pliskova, ragazze che avranno mille difetti tra i quali non figura quello di tirare piano.

Il primo assaggio di terra, ancorché verde, a Charleston, ha messo in mostra la ritrovata verve di Madison Keys, sedicente novella specialista, mentre a Monterrey, nell’ultima propaggine di cemento primaverile americano, il timbro l’ha messo Muguruza, proveniente da un 2018 horror medicato da un solo acuto, sempre alle pendici della Sierra Madre. Questa settimana il destino offrirà un’altra novità e poi una pausa, in attesa che il rosso europeo ripristini un mazzo di carte sinora mischiato a più non posso. Diciotto in diciotto, davvero non male: aggiungeremmo i molti volti nuovi e una classifica che vede le prime sei, da Osaka a Svitolina, racchiuse in novecentoquarantasette punti. C’è ancora qualcuno che si sta annoiando, nonostante tutto, ma prima della fine della stagione c’è tempo.

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