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Al femminile

Halep serena, Serena no

A Wimbledon Simona Halep e Serena Williams hanno affrontato il torneo con motivazioni e stati d’animo differenti, che hanno inciso profondamente sul risultato finale

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Serena Williams e Simona Halep - Wimbledon 2019
 

All’opposto la situazione di Serena Williams, che da quando è tornata dopo la maternità ha raggiunto tre finali Slam perdendole tutte. Anzi: perdendole tutte senza vincere un set. 6-3, 6-3, da Kerber a Wimbledon 2018, 6-2, 6-4 da Osaka agli US Open 2018, 6-2, 6-2 da Halep a Wimbledon 2019.

A me pare che tre partite del genere comincino ad assomigliare ai famosi tre indizi che fanno la prova. In sostanza in finale non si vede mai la migliore Williams. Sia chiaro: non la migliore Williams in assoluto, che ormai per ragioni fisiche e di età non potremo più ritrovare; ma quanto meno la migliore Serena possibile in questa fase di carriera e che in alcuni match sa ancora offrire tennis importante. La giocatrice capace di sconfiggere Goerges a Wimbledon nel 2018 e 2019, la stessa Halep in Australia o Pliskova a New York.

Per quanto possa essere stata efficace Halep nell’ultima finale, alcuni numeri si commentano da soli: su otto game di servizio giocati Williams è riuscita a racimolare la miseria di 2 ace, e ha commesso 26 errori non forzati su 16 game. E Wimbledon ha criteri generosi nel classificare i colpi; probabilmente se fossimo stati agli US Open la stessa prestazione sarebbe stata valutata con una decina di “unforced error” in più.

Fino a 35 anni Serena aveva una altissima percentuale di successi nelle finali Slam. Ne aveva vinte 21 su 25. Tra le fuoriclasse nessuna vantava una media del genere. Negli ultimi anni però ne ha vinte 2 su 7, e dopo la pausa per maternità ha perso le ultime tre (su tre) nel modo in cui si è detto.
È una situazione che si ripete: raggiunge la finale, per il suo status è considerata favorita, ma al momento di compiere l’ultimo passo, quello che le permetterebbe di eguagliare i 24 Slam di Margaret Smith Court, si presenta in campo una versione di Williams impacciata, insicura, sovrastata dalla pressione. Ripeto quanto ho scritto nell’articolo di presentazione della finale: “Il 24: questo numero potrebbe rivelarsi per Serena un’arma a doppio taglio. Da una parte è lo stimolo migliore per affrontare i sacrifici necessari per essere ancora competitiva, a quasi 38 anni. Dall’altra potrebbe trasformarsi in una specie di ossessione, con il rischio di gravare come un fardello insopportabile al momento di raccogliere definitivamente il frutto di quei sacrifici.”

Ed effettivamente sembra che stia accadendo proprio questo: il record di Court spinge Serena a continuare, ma poi quello stesso obiettivo la paralizza al momento di vincere l’ultimo match. Dopo il ritorno al tennis post-maternità, Serena ha perso il vantaggio fisico-tecnico che aveva sulla concorrenza, però la sua storia di successi è tale da farla ritenere sempre la tennista da battere. Ma questo finisce per aiutare le avversarie, che scendono in campo più leggere perché non si sentono obbligate e vincere.

Il tennis è uno sport in cui la componente mentale può incidere in tanti modi differenti; e durante un match può produrre dinamiche favorevoli o sfavorevoli. La Halep di sabato scorso non sentiva la pressione che ha vissuto, per esempio, due anni fa nella finale del Roland Garros contro Ostapenko. Questo le ha permesso di condurre il match con relativa tranquillità, cosa che si era rivelata impossibile di fronte a Ostapenko, ventenne numero 47 del ranking senza nemmeno un torneo WTA vinto in carriera. A Parigi Simona aveva tutto da perdere; sabato scorso in quella posizione c’era Serena.

Chissà se Williams avrà altre opportunità di raggiungere una finale, e chissà se prima o poi si rovescerà la dinamica psicologica che la “obbliga” a essere largamente favorita senza che però abbia più il largo vantaggio tecnico del passato. Di sicuro, fino a che staranno così le cose, si troverà ad affrontare la partita più importante nella peggior condizione possibile.

E tutto questo per un numero che da qualche tempo a questa parte è diventato la pietra di paragone per stabilire le gerarchie fra le migliori campionesse di ogni epoca. Eppure non occorre essere eruditi di storia del tennis per sapere che quella doppia dozzina andrebbe valutata con più attenzione.

Sia chiaro, Margaret Smith Court è stata una delle più grandi giocatrici della storia per tanti motivi: per come ha coniugato tecnica e atletismo, per il Grande Slam conquistato nel 1970, per la superiore qualità di doppista, per come ha saputo tornare a vincere dopo la maternità… e si potrebbe andare avanti a lungo.

Ma rimane il fatto che il record di 24 Slam in singolare è stato ottenuto a cavallo fra due ere tennistiche diverse (amatoriale e Open), e che comprende 11 titoli australiani di cui alcuni di valore tecnico opinabile, visto che si trattava di tornei che non avevano al via tutta le avversarie più forti, scoraggiate dalla distanza e dalle difficoltà di spostamento che ancora esistevano negli anni ’60.

Guardate per esempio il tabellone degli Australian Championships 1961 (vedi QUI) con meno di 50 tenniste al via, e tutte australiane a parte la britannica Cox. O quello del 1964, che per essere vinto richiese a Court appena quattro match. Come possono valere quanto uno Slam di oggi?

Ma nel mondo dei media attuali la semplificazione comanda, e quel ventiquattro è diventato un feticcio di importanza non proporzionata alla sua reale consistenza. E forse la cosa più paradossale è che lo sa perfettamente anche Serena stessa, che si trova ugualmente “prigioniera” di questo record tecnicamente opinabile ma trasformato ormai in un valore assoluto.

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