Laver Cup: sbaglia chi crede che i campioni siano grandi attori

Editoriali del Direttore

Laver Cup: sbaglia chi crede che i campioni siano grandi attori

GINEVRA – Federer, Nadal, tutti, sono ragazzi nati per vincere e competere. Più di Kyrgios che ha bisogno di non sentirsi solo. La classifica ATP? “Fuor dalla finestra!”. McEnroe e Borg, quanto sono diversi

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da Ginevra, il direttore

Secondo me John Isner ha ragione. In questo genere di sfide, la classifica conta poco. “La puoi gettare dalla finestra”. Come, a dir il vero, non è mai contata troppo neppure in Coppa Davis. A quante sorprese abbiamo assistito in Davis? Non si contano. Sono le motivazioni, l’ambiente, il clima di squadra, che uno sente di più e l’altro meno, che trasformano un giocatore in guerriero e un altro in un pavido interprete, che possono trasformare tennisti più ‘scarsi’ per il computer in agonisti ricchi di garra e capaci di far tremare coloro che stanno avanti nel ranking e più sulla carta che sul campo.

Cinque top 10 contro un solo top 20 ma per poco, un tie-break vinto da Zverev anziché da Raonic (in un duello che nei precedenti vedeva il canadese avanti 2-1), per un soffio

a trionfare per la prima volta in tre edizioni di Laver Cup, non è stata Team World.

Ha ragione anche l’organizzatore ombra Roger Federer – dall’alto dei suoi sei singolari tutti vinti in tre edizioni (“Not too bad!”)- a dire che sotto il profilo tecnico il livello di questa edizione svizzera è stato superiore alle precedenti due edizioni. Hanno torto coloro che, pur legittimati ad esprimere opinioni negative su questa manifestazione, si lasciano troppo influenzare dagli sguaiati eccessi di chi siede in panchina, con le magliette rosse come con le magliette blù.

Chi ha avuto la pazienza di leggere i miei editoriali nei giorni scorsi sa che anch’io sono assai perplesso riguardo a diversi aspetti di questa Laver Cup – non li ripeto per non eccedere in prolissità, ma potete leggere qui il primo e qui il secondo – però credo di conoscere (più di molti lettori), quasi tutti questi ragazzi diventati campioni. E sostengo: non sarebbero mai diventati campioni se non fossero stati tutti, fin da bambini, incredibilmente competitivi. Quasi ossessionati dall’idea di dover prevalere in qualunque campo si trovino a dover sfidare un avversario. Riflettete sull’etimologia del sostantivo avversario: lui ti avversa, tu devi prevalere, e se puoi devi annientarlo. A tennis, a ping-pong, a carte, alla Play Station. Guai a perdere. Lo smisurato ego e l’orgoglio di chiunque sia campione non può consentirlo.

Anzi, lo spirito di questi campioni quasi mai matura, e proprio nel momento in cui matura il campione è paradossalmente pronto per la pensione. Non è (ancora) il caso di Federer, che a 38 anni ha ancora l’entusiasmo del ragazzino. Gioca perché gli piace da morire, l’ha detto mille volte. Nadal a 33 anni idem. Giocheranno fino a che si sentiranno competitivi, in grado di vincere. Roger è stato a un punto dal vincere l’ultimo Wimbledon, Rafa ha vinto l’ultimo US Open. C’è qualcuno che può lontanamente mettere in discussione il loro diritto a sentirsi competitivi? Gli altri che erano a Ginevra, ben più giovani, vedono che i campioni che sono stati i loro idoli giovanili non mollano neppure se giocano a freccette, figurarsi se mollano loro.

Nati e cresciuti come agonisti di uno sport individuale, nel quale gioie e dolori sono pressoché quotidiani – perfino i campionissimi hanno perso più partite di quante ne hanno vinte, dai primi vagiti con racchetta in poi – ecco che il clima di squadra mai vissuto prima al di fuori delle primissime esperienze di club (in cui però sono quasi sempre stati prime donne, “prospetti”  fin dall’embrione) li coglie di sorpresa, decisamente li turba, un po’ li sconvolge, molto li affascina. Si accorgono improvvisamente che il mondo del tennis non è quello che conoscevano e che magari temevano, di certo diffidavano. E, come in tutti i gruppi di qualunque tipologia, c’è sempre qualcuno che è più estroverso ed entusiasta, che ha più personalità e capacità di trascinare gli altri, che è più leader nell’anima. Gli altri ne avvertono il carisma e lo subiscono.

Pensate a un Federer, a un Nadal e a quali sensazioni possano ispirare nei Next-Gen, campioni in formazione. Ammirazione sconfinata. Spirito di emulazione. Illimitata fiducia. E nei gruppi, anche quelli più sani – cioè diversi dagli ultras di certe curve calcistiche – si finisce per caricarsi gli uni con gli altri, per comportarsi come non ci si sarebbe mai comportati se ci si fosse trovati a dover agire da soli. Non c’è niente di male, in fondo, e tutti finiscono per dire: ma perché no?

Davvero vi sorprende che uno con la testa di un Kyrgios, ragazzo istintivo e incontrollabile com’è, possa perdere la testa nel vivere atmosfere del genere? Anzi, è un piacere sguazzarci, bando alle barbose tradizioni che ti vorrebbero appiccicare addosso anche se tu, per un’educazione assolutamente diversa da quella che ha ispirato i progenitori del tennis, non le senti tue. Ti diverti, non senti la pressione di chi è solo e non ha nessuno che ti parla, ma c’è chi ti dà una pacca sulle spalle ad ogni cambio di campo, chi ti consiglia e tu sai che quello è stato più campione di te, ne sa più di te, ti ha convocato, ti capisce, ha fiducia in te. Che può desiderare di più un tipo come Kyrgios che fa una fatica boia a disciplinarsi, a concentrarsi set dopo set, partita dopo partita e magari si trova pure una folla ostile che gli fa buuuh ogni volta che lui scaglia una racchetta (o un paio di sedie) per terra?

Kyrgios e Sock – Laver Cup 2019 (via Twitter, @LaverCup)

Kyrgios non è il solo ad esaltarsi in un clima del genere. Anche Sock alla Laver Cup si trasforma. Perfino in singolare, lui che è formidabile in doppio, anche perché è più grosso di Wawrinka e… semovente, non ha il suo rovescio anche se con il dritto ti fa cadere la racchetta di mano. Avete mai parlato con i due fratelli Sock che sono spuntati fuori dal Nebraska e sono l’incarnazione più genuina dello stereotipo dell’americano bambinone che tanti scrittori hanno dipinto in modo inconfondibile? Eric, peraltro ex tennista di college, ha alle spalle un episodio medico che per poco non si è trasformato in una tragedia a causa di una grave infezione polmonare nel 2015.

Forse è ingeneroso che io abbia preso loro due come esempio di ragazzi che non hanno nulla a che spartire con il tennis dei gesti bianchi, con le tradizioni dell’All England Club e dei mousquetaires francesi degli anni Venti, ma per favore non commettete l’errore di  credere che bravissimi giovanotti presenti a Ginevra, sia del team Europa sia del Team World, siano troppo diversi come background educativo, culturale, spirituale, intellettuale. Viviamo in piena epoca-social dove trionfano la Ferragni e Fedez. Si salta in discoteca, ci si abbraccia e si salta anche sui campi da tennis, con la musica che ti assorda ai cambi di campo, con le TV Grande Fratello che ti inquadrano in tutte le tue reazioni e, se non sei Borg, più fai… casino e più coinvolgi gli altri, più ti diverti. E se ti accorgi – e te ne accorgi – che anche la gente sugli spalti si diverte, si eccita, partecipa, grida a più non posso, fa le ola o lascia esplodere i “po-po-po-po” di Seven Nation Army – incoraggiati dagli speaker e dagli stessi giocatori “Loud, loud, more loud!” – beh scandalizzarsi oggi vuol dire pretendere di vivere fuori dai tempi in cui invece viviamo. O comunque nei quali vivono i nostri campioni di oggi. E non solo i ventenni, ma anche gli ultra-trentenni.

Pensate davvero che tutto il team Europa fosse impersonato da campioni attori (maestri di recitazione) che bluffavano nel buttarsi addosso a Zverev, sdraiato per terra, dopo il passante di dritto incrociato che gli ha dato la vittoria su Raonic e il World Team? No, erano felici davvero. Avevano vinto! Erano ebbri di gioia. Vera gioia. Magari costruita un tantino all’inizio, ma poi genuina, condivisa. Così come agli sconfitti, giocatori come capitani, bruciava da morire. Erano abbattutissimi. Ancora ascoltate le parole di Isner: “L’eccitazione per la vittoria è stupefacente per loro, e l’agonia della sconfitta è dolorosa per noi. È la terza volta per me, per Nick, per Jack, per i capitani. Ti brucia. Non è facile accettare l’agonia di una sconfitta che arriva in questo modo”.

La Laver Cup è tutt’altro che un evento perfetto, ma raggiunge il suo scopo. Diverte chi lo gioca assai di più che un torneo individuale, diverte chi vi assiste senza pregiudizi, promuove il tennis in modo straordinario – sia pure un tennis diverso da quello tradizionale per format, modalità di partecipazione, punti attribuiti, tie-break e chi più ne ha più ne metta – registra il tutto esaurito fin dall’annuncio della prima vendita dei biglietti, a Praga, a Chicago, a Ginevra (la prossima edizione si terrà a Boston), pur essendo un evento di nessuna tradizione, piace alle audience televisive per la varietà delle situazioni che propone, senza che quasi nessun match travalichi l’ora e mezza.

L’idea, criticata, criticabile, ha avuto grande successo. È indubbio. Il successo che viene attribuito anche a manifestazioni “internazional-popolari”? Forse sì, ma contestare la Laver Cup, evento nuovo certo pensato anche per la TV, non serve a nulla. Semmai ci si possono porre altri interrogativi. Che sarà di essa il giorno in Federer e Nadal non la giocheranno più? Che farà Federer? Forse il capitano di Team Europa al posto di un Borg sempre più …Borg? Cioè l’esatto opposto di quel che è l’effervescente John McEnroe, mai soporifero e sempre capace di rompere tutti gli schemi ogni volta che apre bocca. E non solo quando mi ha detto questo – ridendo e facendo ridere tutti (e Kyrgios, Sock più di tutti) – nella conferenza stampa finale di Team World :

Don’t ask me any more f***ing questions if you don’t mind! You first asked me a question in 1978, I think, in Bologna. Ask somebody else a question, Ubaldo, and then I will take one more motorcycle ride with you, okay? Go ask somebody else something!
(Traduzione forse non necessaria: Non mi fare più f****te domande se non ti dispiace…mi hai fatto la prima domanda nel 1978 a Bologna, credo, fai la tua domanda a qualcuno altro, ok, e allora farò un altro giro in motocicletta con te , okay? Vai, fai la tua domanda a qualcun altro!).

Giusto per la statistica: la prima domanda gliela feci, in presenza di suo padre – e forse più che a lui a suo padre, l’avvocato John McEnroe senior – insieme a Rino Tommasi e Gianni Clerici, a Dallas 1973, quando John aveva appena compiuto 14 anni e giocava la finale di un torneino a 4 al Moody Coliseum, mentre si giocavano le finali dei Magnifici 8 del circuito WCT.

Mi sono dilungato, more solito, a sviscerare questo aspetto del coinvolgimento dei giocatori, perché dai vostri commenti mi pare che sia emersa soprattutto questa diffidenza nei confronti della sincerità degli atteggiamenti – così particolari, così diversi – dei tennisti che partecipano alla Laver Cup. Molti li accusano di recitare per il vil denaro. Io non la penso così e spero di essermi riuscito a spiegare.

Non E sono contento anche che mi sono rimasti altri aspetti da sviscerare nei prossimi giorni. Il regolamento che non piace a McEnroe, furibondo dopo che a seguito dei forfait di Nadal e di Kyrgios, quelle regole gli avevano impedito di modificare l’originale schema di formazione, i ritiri abbastanza strani nelle tempistiche di Rafa e Nick che avevano giocato due partite sabato e… se non erano nelle migliori condizioni perché? Il Bautista Agut, riserva misteriosamente scomparsa nel giorno del trionfo forse per senso di colpa per aver saltato San Pietroburgo e l’occasione di conquistare punti preziosi per sedersi in panchina (Berrettini ringrazia lui…e anche Fognini), pecunia non olet, soprattutto quando non devi far nulla che star seduto.

Thiem che si allena come una furia (inutilmente…) all’alba e prima che Team World venga informato del ritiro di Nadal. Tsitsipas che riesce nell’exploit di far perdere con due sciagurati tie-break Federer e Nadal nell’arco di 16 ore! Non so quante altre volte vedremo Rod Laver presenziare la Laver Cup. Mi sembra, purtroppo, sempre più imbalsamato. Ken Rosewall è molto più presente, ma non ha fatto due Grandi Slam e non ha un cognome che assomiglia alla Ryder Cup. È vero che Kyrgios non vorrebbe più giocare nel 2019? E a Tony Godsick, marito di Joe Fernandez, piacerebbe organizzare la Graf Cup (costringendo magari Maria Sharapova ad abbracciare tutte le sue compagne di squadra?)?  

Conto di farlo in un prossimo editoriale. Ma intanto voglio ringraziare sentitamente Laura Guidobaldi e John Horn che mi hanno dato gran mano a Ginevra e poi tutti i ragazzi che dall’Italia si sono fatti in otto (il doppio di 4…) per assicurarvi il miglior servizio possibile dovendo fronteggiare anche orari improbi. 

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