Quell'unico anno in cui gli Internazionali d'Italia Indoor sbarcarono a Ferrara

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Quell’unico anno in cui gli Internazionali d’Italia Indoor sbarcarono a Ferrara

La storia di uno dei troppi tornei perduti nei ricordi di chi c’era nel 1983, per la sua unica edizione. Chi si aspettava McEnroe e Borg si ritrovò a tifare… Högstedt

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Ferrara Open 1983 (foto Fabio Zecchi)
 

C’era una volta… no. C’è stato una volta il Ferrara Open, torneo internazionale di tennis del circuito Volvo Grand Prix. Il livello corrispondeva a un attuale ATP 250, ma l’Associazione dei Pro non avrebbe preso le redini del tour fino al 1990. Erano tempi in cui qualcuno ancora si chiedeva perché chiamarlo ‘open’ se si giocava al chiuso: certe definizioni non erano per tutti. Ma era anche un periodo in cui la Rai trasmetteva il tennis e – sembra difficile da credere adesso – in Italia non esistevano solo gli Internazionali di Roma. L’elenco dei tornei perduti nel corso degli anni è così tristemente lungo che diventa pressoché impossibile ricordarseli tutti anche limitandosi a quelli maschili, ma di sicuro i tennisti che hanno poi raggiunto la top ten non si sono dimenticati del torneo italiano che ha inaugurato il loro palmares: José-Luis Clerc, Andrei Chesnokov e Magnus Larsson a Firenze, Stefan Edberg e Roger Federer a Milano, Kent Carlsson a Bari, Alberto Mancini e Marcelo Rios a Bologna, Thomas Enqvist a Bolzano, Mariano Puerta e Tomas Berdych a Palermo.

Non è stato così per il torneo di Ferrara, ma il tappeto azzurro fu comunque calpestato da alcuni saranno famosi: Jakob Hlasek, futuro numero 7 del mondo, aveva appena festeggiato il diciannovesimo compleanno; Guy Forget, di un paio di mesi più giovane, sarebbe arrivato al quarto posto del ranking; tra gli italiani, c’erano Paolo Canè, che batté proprio Forget, e Francesco Cancellotti. Vinse lo svedese Thomas Högstedt, oggi affermato coach (Li Na, Caroline Wozniacki, Eugenie Bouchard, Maria Sharapova…), in finale contro il californiano Butch Walts – un nome da personaggio di film western e capace di estrarre servizi a velocità tutt’altro che modeste. Quella domenica pomeriggio, in coppia con il sudafricano Bernard Mitton, Walts alzò il trofeo del doppio, coronando quella che era la stagione del suo pieno rientro dopo malattia, due interventi chirurgici, chemioterapia e quindici chili persi.

Oggi, scoprire che in quella provincia emiliana snobbata dalla Via Emilia ha fatto tappa il circuito maggiore lascia stupiti anche diversi appassionati della stessa città – e non solo quelli meno attempati. Era il 1983 e, l’anno prima, la locale squadra di basket dal nome poco fantasioso (Pallacanestro Ferrara) si era guadagnata la promozione in serie A2 e con essa il nuovissimo palasport. Con la passione di un manipolo di ardimentosi sognatori, la possibilità di accaparrarsi un evento del circuito professionistico divenne realtà, dodici mesi dopo che quello stesso palazzetto che ancora odorava di vernice fresca vide esibirsi quattro personaggi non proprio nel fiore degli anni, ma ancora in grado di esprimere un grande tennis: Rod Laver, Ken Rosewall, Roy Emerson e Cliff Drysdale. “Trovarsi a cenare con quei quattro grandissimi del tennis è stata un’esperienza indimenticabile” racconta il professor Pierangelo Turatti, coinvolto nell’organizzazione di entrambe le manifestazioni. “Nonostante l’affluenza di pubblico per quella esibizione sia stata sotto le aspettative, l’anno successivo abbiamo colto l’opportunità di organizzare un evento del Grand Prix”.

A onor del vero, l’idea originale di Massimo Annesi, allora presidente del comitato provinciale FIT, era di portare in città un torneo di rilevanza nazionale. Lo spunto piacque a Paolo Francia, vice presidente federale oltre che giornalista per il Resto del Carlino e La Nazione, che suggerì un evento ben più importante: gli Internazionali d’Italia Indoor, torneo che si era disputato nella sua Bologna per quattro anni prima dell’edizione dell’anno precedente ad Ancona. “L’intervento di Paolo fu determinante per avere il torneo” ci spiega l’avvocato Annesi. “Io ero il responsabile del comitato organizzativo e lo sforzo necessario per quel tipo di manifestazione era notevole, ma riuscimmo a gestirlo nel migliore dei modi, anche con il supporto dell’amministrazione locale che si adoperò per farci avere il Palasport per la settimana del torneo. Una struttura che abbiamo adattato in tempi rapidissimi alle diverse esigenze del tennis rispetto alla pallacanestro”. Un ricordo che è rimasto a 36 anni di distanza? La soddisfazione del palazzetto pieno in occasione della finale come premio per l’ottimo lavoro svolto. A causa dell’impegno richiesto, anche e soprattutto economico, l’anno successivo il torneo migrò a Treviso per poi scomparire.

Un giorno c’era lo sciopero dei cameraman della Rai o qualcosa del genere, non ho una gran memoria per i dettagli” ci racconta Enrico, adolescente degli anni ’80 e oggi assiduo frequentatore dei tornei di quarta categoria. “In ogni caso, io me ne stavo defilato in un angolo di quella gradinata, che poi era la curva dei tifosi del basket, con il mio gilet rosa appena comprato e un paio di decine di persone”. Non cogliamo l’importanza del particolare relativo al gilet ma, nella speranza che sotto indossasse la camicia o almeno una maglietta, continuiamo ad ascoltare la sua storia. “Durante un cambio campo, arrivò uno dell’organizzazione invitando tutti a prendere posto nella parte centrale della tribuna in modo che le telecamere fisse non mostrassero il pubblico inevitabilmente sparuto del primo pomeriggio di lunedì o quello che era. Mentre gli altri ne approfittarono all’istante, questo tipo continuava a sperticarsi in inutili lodi sul posto offerto, incredulo davanti al mio rifiuto. Nulla di sorprendente: alla posizione laterale, in molti preferiscono la visione dall’angolo oppure quella da dietro, per abitudine ‘televisiva’. “Abitudine poca” chiarisce Enrico, “perché prima di quel torneo evitavo il tennis come la peste. Se proprio devo essere sincero sulle mie motivazioni, a parte che non volevo rischiare essere inquadrato mentre giravo la testa a destra e sinistra come uno scemo, da lì avevo una vista privilegiata su una raccattapalle. Una che frequentava la mia stessa scuola e mi piaceva.

Torniamo velocemente a rifugiarci nei ricordi di ben altro genere del professor Turatti, all’epoca dei fatti maestro di tennis e insegnante di educazione fisica che, per adempiere i propri compiti, dovette attendere l’autorizzazione del provveditorato che ne decretava il ‘distacco’. “Mi occupavo di tutto il necessario in campo, dai giudici di linea ai raccattapalle, dall’acqua agli asciugamani. E del campo stesso, nel senso che ho dato il mio contributo quando si è trattato di stendere il tappeto sul parquet” dice mentre estrae da una cartellina tutta la documentazione: il libriccino della manifestazione dal quale apprendiamo l’ammontare del prize money (75.000 dollari), lo schema disegnato a mano con la posizione dei giudici di linea, le ‘important instructions for all ball persons‘ (una copia anche in italiano), l’elenco dei raccattapalle con i loro numeri di telefono a cinque cifre e senza prefisso (sì, anche quello della compagna di scuola di Enrico).

Grazie a uno sforzo investigativo in verità piuttosto contenuto, abbiamo scovato un ex ball boy, Marco. Lo raggiungiamo sul telefono di casa: incredibile, ha lo stesso numero di un secolo fa. È la sera della vigilia di Natale e, dal tono, ci sembra incomprensibilmente perplesso – forse per l’argomento dell’intervista. Ci svela subito che allora era un agonista quindicenne allenato dal maestro Turatti. Un raccomandato? “Venivamo tutti da una scuola di tennis o da un’altra, ma ero molto contento di esserci perché il torneo sostituiva quello di Bologna in cui avevano giocato John McEnroe, Bjorn Borg e Yannick Noah, quindi mi aspettavo di trovarmi in campo con loro e altri di quel livello. Invece, mi è rimasto l’autografo di Högstedt….

Thomas Högstedt con Maria Sharapova, molti e molti anni dopo

Però, è stata una buona scusa per saltare un po’ di scuola. “Si cominciava alle dieci del mattino e l’impegno era per l’intera giornata, quindi ci dividevamo i giorni. Mi è toccato anche quello con i sette chilometri del ritorno in bicicletta sotto la neve e l’inevitabile sgridata dei miei”. Con il senno di poi, si può scorgere almeno un aspetto positivo: “Non c’era ancora la moda di chiedere l’asciugamano per poi rilanciarlo sudato al povero ragazzino. E quello che batteva non pretendeva tre o quattro palline in più per scegliere la coppia perfetta”. Infine, il peso della celebrità: “Tutti quelli che conoscevo sempre a dirmi di avermi visto in TV. Dopo un mese, ne hai abbastanza”. Vent’anni prima degli albori di YouTube – per tacere dei social media –, vedere qualcuno che incontri tutti i giorni comparire dal tubo catodico faceva ancora un certo effetto.

Carlo, ormai decisamente oltre la cinquantina, ha comprato la sua prima racchetta dopo essere andato ad assistere al torneo e propone una versione improbabile di quell’evento. “Capita qualche volta di parlarne negli spogliatoi del circolo. C’è chi si vanta di aver scoperto Guy Forget, subito seguito da quello che tira fuori la solita battuta «don’t forget Forget». Chi ne approfitta per ricordarmi che Hlasek ha iniziato a giocare tardi, a 15 anni, quindi non posso accampare scuse, e chi riporta, a suo dire, le prime coloritissime imprecazioni di Paolo Canè nel Tour. Tuttavia, la verità è che ha brillato una grandiosa attrazione, una star che, a conti fatti, è stata alla base della stessa esistenza del torneo: Vincent van Patten.” Storditi dall’iperbole, non colleghiamo immediatamente quel cognome al tennis anche se riattiva un ricordo sepolto: Dick van Patten. Già, l’attore che interpretava il ruolo di Tom, genitore di otto figli, nell’allora popolarissima serie La Famiglia Bradford era nella vita reale il padre di Vincent, ex n. 26 del mondo. “Poter dire di aver visto giocare Vince, il figlio di Tom Bradford, non ha prezzo” sospira Carlo. “È stato così che da vago curioso del tennis sono diventato un fanatico”.

Queste sono solo alcune delle tante piccole storie nate grazie a quell’evento la cui fugacità non gli ha però impedito di lasciare un segno ancora vivido nella memoria di chi c’era, di rinsaldare e amplificare vecchi entusiasmi e, in qualche caso, di accenderne di nuovi. Perché il vantaggio – per ora perduto – di avere dei tornei magari non prestigiosi ma a portata di mano, oltre all’occasione per gli appassionati di gustarsi dal vivo degli incontri di alto livello e di scoprire futuri campioni, è che ci puoi anche capitare per caso, per incontrare una ragazza o per vedere il figlio di un attore. A quel punto, però, è molto probabile che il tennis ti resti addosso.

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