US Open 2020, scontro generazionale - Pagina 5 di 5

Al femminile

US Open 2020, scontro generazionale

Naomi Osaka e Jennifer Brady da una parte, Victoria Azarenka e Serena Williams dall’altra. A New York la gioventù ha prevalso sull’esperienza

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Naomi Osaka - Finale US Open 2020 (via Twitter, @usopen)
 

Naomi Osaka
Cosa dire di Naomi Osaka e del suo terzo slam in carriera prima dei 23 anni? Intanto comincerei con due notazioni generali, una negativa e una positiva. Quello negativa, inevitabile: rimane l’ombra di uno Slam vinto di fronte a una concorrenza incompleta, a causa dei forfait già citati più volte. Nota positiva: Osaka ha vinto dando la sensazione di non dovere nemmeno esprimersi al 100% delle proprie potenzialità. Insomma, con un certo margine.

Ricordo che Naomi aveva preferito rinunciare alla finale del Premier di Cincinnati/New york a causa di un problema alla coscia sinistra emerso durante il tiebreak della semifinale contro Elise Mertens (6-2, 7-6). Al via dello Slam è apparso chiaro che l’infortunio non era del tutto superato. Nei match dei primi turni metteva una certa circospezione nei recuperi laterali, preferendo soluzioni di contenimento ad allunghi più estremi, che le avrebbero consentito di spingere sulla palla con più potenza, ma sollecitando il muscolo. Eppure, anche con questo piccolo deficit, è riuscita a superare gli ostacoli della settimana di apertura senza mai rischiare davvero. Contro Doi e Kostyuk ha perso il secondo set in volata, ma poi ha chiuso in entrambe le occasioni con un inequivocabile 6-2.

Contro Giorgi e contro Kontaveit ha invece vinto per distacco, probabilmente aiutata dal fatto che aveva di fronte giocatrici che amano mettere in campo un tennis affine al suo, ma meno preciso ed efficace. Semplificando all’estremo: Naomi faceva le stesse cose di Camila e Anett, però meglio. Nel frattempo era passata una decina di giorni dalla semifinale del Premier contro Mertens, e il muscolo della gamba è sembrato darle sempre meno problemi. Nel match contro Shelby Rogers, si è capito che era ormai pronta per ostacoli più impegnativi.

Rogers era chiaramente in grande forma e fiducia: era reduce dal successo contro Serena Williams a Lexington e dalla vittoria contro Petra Kvitova nel turno precedente, ottenuta dopo aver salvato quattro match point. In più Shelby aveva tutti i precedenti a proprio favore: tre vittorie su tre, e molto nette. Sei set a zero. Anche se non recentissime (2013, 2015, 2017) costituivano comunque un elemento da non trascurare. Osaka ha fatto leva sulla forza del proprio servizio per condurre turni di battuta piuttosto tranquilli, mettendo pressione all’avversaria nei turni di risposta. E alla fine ha gestito senza troppi problemi un match che aveva le premesse per diventare insidioso (6-3, 6-4).

Ho già parlato sopra della semifinale contro Brady, decisa a mio avviso dalla maggiore abitudine ai grandi eventi da parte di Naomi, che pur avendo due anni meno di Brady è chiaramente più esperta ad alti livelli. Questo non significava però avere la vittoria in tasca, perché per far pesare la propria maggiore esperienza occorre comunque una notevole tenuta mentale.

Ma allora perché ho sostenuto che Osaka non si sia espressa al 100%? Perché secondo me nei turni decisivi avrebbe potuto giocare anche meglio. Nei match contro Rogers e Brady a mio avviso avrebbe potuto essere più accorta sul piano tattico: si misurava contro giocatrici che basano la costruzione dello scambio sul dritto, mentre aveva una netta prevalenza sulla diagonale dei rovesci. Ebbene, in questi match Osaka molto raramente è stata in grado di evidenziare questi limiti delle avversarie, che sono riuscite a colpire da fondo con una grande prevalenza del dritto.

La mia sensazione è che in questi due match Naomi abbia preferito concentrarsi sul proprio gioco senza curarsi troppo delle caratteristiche delle avversarie. In un certo senso come faceva Serena Williams prima di iniziare a collaborare con Mouratoglou (2012), che l’ha spinta a tenere conto maggiormente dei punti deboli di chi aveva di fronte, evitando in questo modo certe sconfitte inopinate (come quella contro Stosur nello US Open 2011).

Malgrado tutto, Naomi è approdata in finale. Alla partita decisiva sono arrivate due giocatrici autentiche specialiste del cemento, vincitrici e finaliste dei due Slam sul duro, sia in Australia che negli Stati Uniti. Non essendo testa di serie, Azarenka aveva dovuto affrontare avversarie di ranking più nobile sin dai primi match. Queste le teste di serie incontrate: la numero 5 Sabalenka, la 20 Muchova, la 16 Mertens, la 3 Williams.

Sulla carta più semplice il percorso di Osaka: soltanto la 14 Kontaveit e la 28 Brady. Ma sul campo abbiamo visto che i valori non corrispondevano alle classificazioni numeriche, visto che di fatto Rogers e Brady erano due delle giocatrici più in forma espresse dagli impegni sul cemento americano.

Come hanno notato in tanti, la finale tra Osaka e Azarenka si è conclusa con lo stesso punteggio della semifinale tra Azarenka e Williams (1-6, 6-3, 6-3). A mio avviso è stata una partita molto buona, ma avrebbe potuto essere ancora migliore se avesse offerto più fasi di equilibrio. Invece si sono sviluppati due parziali opposti, quasi a senso unico. Prima un parziale di 8 game a 1 per Azarenka (6-1, 2-0 per Vika), poi uno di 9 game a 2 per Osaka (dallo 0-2 secondo set al 6-3, 4-1 per Naomi nel terzo). Per fortuna la reazione di Azarenka nel finale (con il controbreak che l’ha riportata sotto nel punteggio) ha aggiunto pathos agli ultimi game, rendendo il match ancora più avvincente.

Penso che la prevalenza iniziale di Vika sia stata causata da diversi elementi. Da una parte la partenza sotto tono di Naomi, apparsa tesa e lenta negli spostamenti. Dall’altra la capacità di Azarenka di portare il match più vicino ai propri desideri grazie a diversi fattori tecnici. Penso alla altissima percentuale di prime di Azarenka (addirittura il 94%), all‘ottima prestazione in risposta e all’incapacità di Naomi di sviluppare lo scambio in modo incisivo. Il dato degli errori non forzati testimonia lo squilibrio (13 nel solo primo set per Osaka contro gli appena 3 di una Azarenka quasi perfetta).

Dopo avere perso la battuta anche in apertura di secondo set e avere salvato una palla per il 6-1, 3-0, Osaka ha reagito. Ha alzato il livello della propria risposta, ha limitato gli errori non forzati ma ha anche iniziato a giocare più profondo. Unendo pesantezza di palla a profondità, Naomi è riuscita finalmente a far arretrare la sua avversaria, allontanandola da quella linea di fondo da cui dominava ritmo e geometrie di gioco.

Probabilmente questo arretramento di Vika è stato causato anche da un piccolo calo fisico, unito alla pressione della possibile vittoria che si avvicinava. Fatto sta che colpendo da un paio di passi più indietro, per Azarenka tutto è cambiato. Cambiato in peggio. La partita ha assunto l’impronta di Naomi, che ha rischiato addirittura di chiuderla con un mezzo cappotto, quando ha avuto diverse occasioni per salire nel terzo set sul 5-1 e servizio.

Allungando le traiettorie, la palla non tornava più indietro con la velocità di un flipper. Con più tempo a disposizione per preparare lo swing, Osaka riusciva a caricare meglio i colpi, oltre che a cambiare da incrociato a lungolinea con più facilità. Il contrario per Azarenka: colpendo da più lontano è emerso il deficit di potenza che Vika concedeva alla avversaria. Se aggiungiamo anche il calo nella percentuale della prima di servizio (da 94% a 78% a 62%), ritroviamo molti degli elementi che hanno provocato il rovesciamento del match. Osaka in fiducia ha sbagliato meno, mentre sono cresciuti i gratuiti di Azarenka. (Errori non forzati per set: Osaka 13, 5, 8. Azarenka 3, 10, 9). Saldo totale Vincenti/ Errori non forzati: Osaka +8 (34/26) Azarenka +8 (30/22).

Nel finale di match sul piano tecnico-tattico direi che non è cambiato molto: le due giocatrici si sono riavvicinate perché il grande orgoglio di Vika le ha permesso di sfoderare alcuni colpi difficilissimi. Per esempio per conquistare il game del 2-4 nel terzo set ha dovuto compiere due autentiche prodezze: un recupero di rovescio in controbalzo e poi un ace addirittura sulla seconda palla.

Ma era chiaro che non era possibile fare miracoli in continuità, e quindi Osaka ha finito per prevalere, confermando di possedere un killer instinct da campionessa: tre finali Slam e tre vittorie e tutte contro avversarie plurititolate come Williams, Kvitova e Azarenka.

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