Pochi giorni fa, Edoardo Salvati ha iniziato a raccontarci lo stato dell’arte per quanto riguarda le statistiche nel tennis, spiegando le mancanze e i paradossi di un campo ancora da unificare. In questa seconda parte dell’intervista, il traduttore ufficiale di Tennis Abstract spiega l’impatto dei numeri sul gioco (anche in aspetti a prima vista non quantificabili perché ancora meno soggetti all’eye test) e fa le sue previsioni sul futuro del gioco ad altissimi livelli. Di seguito l’intervista.
Ubi: Si parla spesso dell’enfasi sugli scambi sotto i quattro colpi e della necessità di colpire un’alta percentuale di dritti, ma ci sono anche altre stelle polari per un gioco efficiente?
Edoardo Salvati (ES): Individuare dei marcatori assoluti di efficienza del gioco è complicato, perché il potenziale analitico da questo punto di vista è davvero esteso. E, come già detto, va sempre richiamato il contesto. Cercare di vincere il punto con uno scambio entro i quattro colpi è una valida strategia di fronte a un tennis logorante e con un’età media allungata come quello moderno, ma lo si darebbe a Nadal come suggerimento? Il dritto è il colpo più naturale, ma è sempre quello più efficace da qualsiasi posizione in campo? Sackmann ha mostrato che colpire di rovescio dall’angolo del rovescio è altrettanto, se non più efficace, che girare intorno alla pallina, anche per chi ha un dritto potente come ad esempio Serena.
Se per efficienza s’intende mettersi nella posizione di avere maggiori probabilità di vittoria, allora si possono considerare stelle polari la percentuale di punti vinti al servizio e la percentuale di punti vinti alla risposta, indicatori della bravura complessiva nei due fondamentali dello sport. Una maggiore percentuale di punti vinti al servizio, infatti, ha un effetto moltiplicatore sulla percentuale attesa di vittoria. Nell’ultimo articolo che ho tradotto, l’autore mostrava come una variazione anche di solo 0.3% nei punti vinti al servizio per Wawrinka significava una vittoria in più ogni cento partite, che, fino a quel momento del 2020, gli sarebbe valsa 72 mila dollari, una cifra per lui irrisoria ma di certo non marginale per giocatori lontani da guadagni a sei zeri.
Per vincere le partite, serve fare break o prevalere nei tie-break. I break contano perché la maggior parte dei giocatori non sembra avere particolare talento per i tie-break. Per fare il break si devono vincere punti alla risposta. Anche qui, una differenza di uno o due punti percentuali è enorme. Sul circuito maggiore, si vince tra il 29 e il 43% di punti alla risposta. Con il 32%, un giocatore riesce a fare un break all’incirca una volta ogni otto game di risposta. Con il 36%, si sale a un break ogni cinque game di risposta. Arrivando al 39%, il break è ogni quattro game.
Ubi: A tuo parere si può quantificare ciò che succede in campo anche in momenti dove la componente psico-fisica pare prendere il sopravvento, come ad esempio nella finale dello US Open? Se sì, come?
ES: Lo si può fare se si mette da parte l’assunto che guida molte analisi sportive per cui il punteggio è identico e indipendentemente distribuito, e quindi il predominio nei momenti chiave (a violazione di una probabilità costante di vincere il punto), il vantaggio psicologico o le strisce vincenti (a violazione di una distribuzione indipendente) sono inesistenti o non quantificabili. In sostanza, il risultato di un punto non incide sull’esito di un altro punto, e la probabilità di vincerlo o di perderlo resta la stessa. Pur essendo un modello valido e in grado di fornire una buona approssimazione della realtà, non sembra che nel tennis moderno questo possa accadere, cioè che i giocatori siano sempre imperturbabili di fronte alla pressione di determinate situazioni di gioco o che non risentano della fatica imposta da altre. Anche se indiscutibilmente legati tra loro, terrei distinti i due aspetti per maggiore facilità di risposta.
Per quanto riguarda la componente mentale, c’è un ampio filone d’indagine in cui si inserisce il lavoro di Stephanie Kovalchik, che ha elaborato alcune statistiche di misura della solidità di un giocatore espressa in termini di predominio nei momenti più importanti. Sebbene Gilbert nel suo libro definisca psicologicamente cruciale il punto che precede una possibile palla break, proprio per il potenziale a esso associato, la conversione delle palle break è considerata fondamentale ai fini della vittoria, nonché diretta indicazione di predominio. Partendo dall’indice di dominio sviluppato da Carl Bialik, equivalente al rapporto tra la percentuale di punti vinti alla risposta da un giocatore e la percentuale di punti vinti alla risposta dall’avversario (in virtù dell’alta correlazione positiva con la conversione delle palle break), Kovalchik ha elaborato l’indice palle break plus (o BP+), che misura il predominio di un giocatore attraverso le palle break convertite e il totale ponderato dei mini-break vinti al tiebreak. La frequenza di conversione di BP+ esprime in un solo numero l’efficienza di un giocatore nei momenti più caldi e fornisce un’indicazione semplice ma onnicomprensiva dell’imponenza di una vittoria.
Di analogo pregio è il concetto di volatilità o leva introdotto da Sackmann, che misura l’importanza di ciascun punto intesa come la differenza, in termini di probabilità di vittoria, tra un giocatore che vince o che perde un determinato punto. Più alta è la leva di un punto, più ha valore vincerlo. Per essere considerato capace di fare la differenza nei momenti chiave, un giocatore deve vincere più punti a leva alta di quanti ne vinca a leva bassa. Nella finale dello US Open 2020 a cui facevate riferimento, i 163 punti vinti da Thiem hanno avuto una leva media più alta, pari al 6.9%, dei 159 vinti da Zverev, con una leva media del 6.3%. Così è stato anche nel rendimento al servizio. Thiem ha servito 8 ace con una leva media del 3.8%, rispetto ai 15 di Zverev con una leva media del 3.7%. Zverev ha servito quasi il doppio degli ace ma in punti meno importanti. Con i doppi falli è successo esattamente l’opposto. Gli otto commessi da Thiem hanno avuto una leva media del 6.1%, mentre i 15 di Zverev una sanguinosa leva media del 7%. Zverev non solo ha fatto più doppi falli, ma li ha fatti anche nei momenti meno indicati.
Una spiegazione generale può essere data dall’intervento della componente fisica. Per una modellizzazione della fatica nel tennis come fenomeno cumulativo a pregiudizio del rendimento, sempre Kovalchik ha evidenziato come un esame della velocità del servizio può restituire elementi utili. In particolare, all’aumentare del numero di servizi in una partita, ci si aspetta che diminuisca la velocità, soprattutto sulla seconda. Nel momento in cui la differenza tra una tipica prima e una seconda raggiunge almeno il 15%, allora l’effetto fatica inizia a essere significativo. Nella finale di New York, per Zverev la differenza media è stata di ben il 27%! Ed è una dinamica negativa che può rafforzarsi nel corso di un intero torneo. Se la velocità media della prima di Zverev allo US Open è stata di 203 km/h fino alla finale, in cui è scesa di poco a 199 km/h, la seconda è passata da una media di 165 km/h ai 144 km/h della finale, con una riduzione ben più accentuata.
Ubi: Sulla base di quello che hai visto finora, chi andrà tenuto d’occhio nei prossimi anni?
ES: In campo maschile, mi hanno colpito le Finali ATP, in particolare l’andamento delle semifinali. Che Thiem riesca a battere Djokovic dopo aver sprecato al servizio due match-point nel secondo set, di cui uno con un doppio fallo, e recuperando da 0-4 nel tiebreak decisivo, non è così scontato. Come non lo è la vittoria di Medvedev, con Nadal che va a servire per la partita e perde il game a zero! Valgono le attenuanti del caso, un anno evidentemente del tutto anomalo, la maggiore probabilità di risultati a sorpresa in partite al meglio dei tre set, l’assenza del pubblico. Ma sono comunque segnali forti della possibilità di questo gruppo di inseguitori di allentare la presa dei Grandi Tre (per quanto sarà da verificare il livello di Federer al rientro) e garantirsi vittorie importanti. È stato così alle Finali ATP degli ultimi anni, vediamo se lo US Open 2020 non rimarrà solo un errore di sistema. Thiem sembra essere il giocatore meglio posizionato, grazie a una crescita ormai consolidata sul cemento e un rendimento sulla terra secondo solo a quello di Nadal.
Ho un debole per il rovescio a una mano e quindi aggiungo Tsitsipas, di cui mi piace anche la propensione a rete. Ovviamente vanno considerati Medvedev, Zverev, che ha di fatto buttato via la vittoria agli US Open, e anche Rublev. Spero ci sia spazio per Sinner, talento indiscusso e compostezza già da campione, Berrettini e Sonego, che hanno una potenza di colpo impressionante, ma anche Musetti. Forse quattro decenni di attesa dall’ultimo Slam tra gli uomini per l’Italia possono bastare. Il recente estremo equilibrio nel circuito femminile, evidenziato da una riduzione nel divario tra giocatrici di vertice e altre giocatrici, ha fatto emergere nomi interessanti da seguire. Mi piace molto Osaka, ma anche Stephens, Bencic e Andreescu. Di più, generano eccitazione quelle domande che ancora non hanno trovato risposta: riuscirà Serena Williams a vincere finalmente lo Slam 24 e raggiungere Court sulla vetta? Kerber a completare lo Slam con una vittoria a Parigi? Barty a vincere un altro Slam? Halep a vincere uno Slam sul cemento? Osaka a diventare competitiva al Roland Garros e a Wimbledon? Il fatto che dal 2017 nessuna giocatrice è riuscita a vincere più di uno Slam a stagione rende il futuro del tennis femminile molto incerto. E l’incertezza significa spesso divertimento.
A pagina 2, Edoardo parla del ruolo dei record nello sport e si rivolge a chi non ama i numeri nello sport