
Luca Nardi: è il più piccolo della nidiata, diciott’anni, nato in quel 2003 che ha regalato al tennis un ottimo Holger Rune e un certo Carlos Alcaraz. Luca è il terzo della classe col suo n. 197 ATP e al momento è fuori di soli due posti dalle Next Gen di Milano. Pesarese, da un anno è allenato da Francesco Sani, il quale deve averne sbloccato il braccio già che quest’anno Nardi si è intascato i Challenger di Lugano e Forlì, in Romagna battendo Jack Draper, capace l’anno scorso di strappare un set a Djokovic il Cannibale sui prati di Wimbledon. Dei nostri giovani è il più talentuoso, ha un tennis facile, naturale, senza lacune evidenti; lo ha sfoggiato splendidamente a Roma dove un sorteggio poco benevolo lo ha accoppiato a Cameron Norrie, testa di serie n. 9, per lignaggio il match più impegnativo tra quelli dei virgulti italiani. L’inglese non scintilla sulla terra ma è pur sempre 11 del mondo e nel pieno della maturità sportiva, ebbene, l’adolescente Luca se l’è giocata, se l’è giocata davvero. Ha assorbito l’impatto col Grand Stand senza apparenti sussulti, è rimasto tranquillo e consapevole di risorse e limiti, tenendo bene da fondo grazie a un’ottima mobilità e a una profondità di colpi rara alla sua età. Ricorda un Carreño Busta più basso, anche il viso da bravo ragazzo un po’ introverso lo apparenta allo spagnolo. Come Pablo estrae dal cilindro accelerazioni e dritti in cross, mentre più di Pablo, forse, sa toccare di fino, con Norrie si sono visti dropshot sontuosi e si è perfino spinto a rete a mostrare una manina molto educata – Luca è venuto al mondo il 6 agosto, due giorni prima di Federer, qualcosa vorrà pur dire. Il risultato è stato un match equilibrato, affrontato senza badare al pedigree dell’avversario, come se incrociasse il n. 247 a Francavilla al Mare. Stavolta non ha vinto, eppure, a differenza dei coetanei ammirati a Roma, Nardi non è mai sembrato vittima predestinata di Norrie, che il 6-4 6-4 se l’è dovuto sudare eccome. Al grande salto non manca molto – nel momento in cui scriviamo è approdato al secondo turno delle quali di Parigi – i tempi si accorceranno se al gioco brillante abbinerà giusto un pizzico di cattiveria agonistica in più.

Flavio Cobolli: ventenne da poco, non il più grande ma il più collaudato dei nostri prospetti: già l’anno scorso ha assaggiato il circuito maggiore e nel 2022 ha giocato cinque quali di tornei importanti, compresi gli Australian Open, che ne hanno alimentato il ranking, da qualche mese assestato nei dintorni della top150. Finora il miglior exploit è la recente vittoria al Challenger di Zara. Flavio è il nostro De Minaur, gran recuperatore di palle, grintoso, con un dritto anticipato e piatto che scorre benissimo. Come ci ha confessato in marzo a Roseto degli Abruzzi, dove lo abbiamo visto perdere un match lottatissimo con Nuno Borges, sta lavorando molto sulla prima di servizio, effettivamente non il suo miglior colpo. Ecco, se dovessimo individuare un deficit comune alle nuove leve italiche penseremmo alla statura, di cui la maggiore o minore efficacia del servizio è diretta conseguenza: diversamente da Berrettini e Sinner, che superano il metro e novanta, Flavio e gli altri sono “bassi”, almeno per lo sproporzionato tennis odierno; nessuno va oltre i 185 centimetri, a quelle altezze o sei Carlitos o la battuta ti torna sempre indietro. A Roma Cobolli ha incrociato Jenson Brooksby, americano in ascesa dal gioco anomalo. Per mezz’oretta è rimasto lì a remare, sorretto dalla garra e dai concittadini romani assiepati nel Grand Stand. Poi, e gli capita spesso, ha perso fiducia e l’avversario gli è montato sopra, non tanto nel punteggio – il 3-6 4-6 finale è buono ancorché un filo bugiardo – quanto nella gestione dei momenti cruciali. Si chiama esperienza e Flavio la acquisirà presto, non può essere un abbaglio se capitan Volandri lo ha voluto con sé nell’ultimo turno di Davis contro la Slovacchia.
CONTINUA A PAGINA 3