Djokovic: "Se mi dicono che in America non ci posso andare, io non ci vado"

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Djokovic: “Se mi dicono che in America non ci posso andare, io non ci vado”

Il serbo critica anche lo shot clock: “Faccio respirazione consapevole da sempre ma adesso è tutto troppo accelerato”. E sull’ Australia: “Avevo un’esenzione”

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Novak Djokovic ha raggiunto il terzo turno di Wimbledon con la bella vittoria su Thanasi Kokkinakis dopo quella meno entusiasmante su Kwon. Tra le due, ha avuto modo di parlare con i media serbi del prossimo US Open, torneo al quale non potrà prendere parte con le attuali regole di ingresso negli Stati Uniti, come del resto era successo in gennaio con lo Slam australiano. Regole della cui logica dubita, secondo quanto riporta Saša Ozmo su Tennis Majors,

Djokovic comincia spiegando che “al momento nessuna persona non vaccinata può entrare negli Usa”. Poi aggiunge: “Avevo sentito ufficiosamente che qualcuno l’ha fatta franca, qualche persona che non è ‘famosa’, ma io non cercherei mai di andare negli Usa se non è permesso. Alcuni pensano che io abbia commesso un errore in Australia, ma è stato proprio il contrario – avevo un’esenzione, eccetera, non torniamo su quella storia. La conclusione è: se mi dicono che non posso andare, non ci andrò, non mi metterei mai in tale situazione. Anche se entrassi, mi vedrebbero giocare in TV e verrebbero a prendermi”, scherza Nole che poi prosegue: “Più seriamente, ho scambiato dei messaggi con Tennys Sandgren giorni fa. Volevo ringraziarlo per il sostegno che mi ha dato pubblicamente in questa situazione. Quello che dice ha assolutamente senso: se i giocatori non vaccinati non possono competere allo US Open, allora dovrebbe riguardare tutti. Non vedo la logica sanitaria alla base, perché Tennys possa possa giocare in quanto cittadino americano e io non posso. Se avessi un passaporto statunitense o una green card, potrei giocare. Forse c’è una logica politica dietro a tutto ciò – non sanitaria – ma preferirei non parlarne e potete capire il perché”.

Tralasciando la parte in cui non vuole tornare a parlare di Australia ma non prima di aver ribadito “avevo un’esenzione”, magari citare il twittatore no-vax Tennys Sandgren cercando un sostegno fondato sulla logica non è la scelta migliore quando si tratta di questo argomento (e anche di altri che qua non interessano). Per essere chiari: Djokovic non è in grado di partecipare allo US Open perché una norma del governo statunitense vieta l’ingresso nel Paese agli stranieri non vaccinati e per la sua professione non è previsto il telelavoro.

Invece, se non c’è la logica sanitaria, questo è il ragionamento, dev’essere politica, suggerendo così l’accezione più deleteria, qualunquista del termine. Perché è un periodo in cui pare che i tennisti (e molto probabilmente anche altri individui) abbiano scoperto che non solo esiste questa cosa chiamata politica, ma che condiziona pure il nostro quotidiano. Dispiace che ne abbia dato un esempio anche Ons Jabeur, la quale, inevitabilmente incappata nello slogan “non bisogna mescolare politica e sport”, non ha saputo non ripeterlo sebbene insensato e scollegato dalla realtà. Peraltro forse senza rendersi conto che lei, una sportiva, aveva appena fatto una dichiarazione politica.

Ma torniamo a Novak spostandoci ora sulle sue parole dopo la sfida con Kokkinakis, contro il quale, assicura in seguito a una domanda, non ha messo più intensità perché viene dall’Australia. L’analisi iniziale è tanto semplice quanto perfetta: “Penso che la qualità del mio tennis sia stata molto alta, migliore del primo match. Dovevo iniziare bene perché l’avversario era insidioso, gran servizio, gran dritto. Non volevo dargli troppo tempo”.

Dopo aver rivelato che il proprio agente è in contatto con gli organizzatori della Laver Cup per la sua eventuale adesione che verrà decisa dopo Wimbledon e che significherebbe la presenza di tutti i Fab Four alla O2 Arena di Londra, approfitta della domanda su come usi il tempo al cambio campo oltre che per reidratarsi per esprimere un certo disappunto sulla quantità di quel tempo. “Faccio respirazione consapevole, concentrazione, tecniche mi hanno aiutato nel corso della carriera. A volte però non hai davvero un minuto perché fanno partire lo shot clock appena termina l’ultimo punto del game. Prendi l’asciugamano e arrivi alla panchina che sono già passati 20 o 30 secondi. È poco, non mi piacciono queste nuove regole con lo shot clock [per completezza di informazione, la regola sul gioco continuo non è cambiata con il cronometro in campo, ndr]. Capisco che in passato c’erano giocatori, me compreso, si prendevano troppo tempo, magari facendo rimbalzare la palla. So che la gente me lo addebita, lo capisco, ma penso che ci siamo spinti troppo oltre nell’accelerare tutta la prassi”.

Come già al primo turno, mercoledì c’erano la fidanzata e il figlio di Boris Becker nel box di Nole. “Non ho comunicato con lui direttamente, l’ho fatto attraverso loro” spiega Djokovic. Cerco di sostenere alle persone che lo circondano perché considero Boris davvero un membro della famiglia, qualcuno che apprezzo enormemente, rispetto, di cui mi preoccupo. Mi spezza il cuore vedere cosa gli sta accadendo. Posso solo immaginare quanto difficile sia per i suoi familiari. Invitarli è stato un piccolo gesto di amicizia”.

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