2022, l'anno dei grandi ritiri nel tennis maschile: da Del Potro a Federer, passando per Tsonga, Simon e Seppi - Pagina 2 di 5

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2022, l’anno dei grandi ritiri nel tennis maschile: da Del Potro a Federer, passando per Tsonga, Simon e Seppi

Storie, racconti, aneddoti, partite storiche e finali diversi, si intrecciano per omaggiare i grandi campioni che hanno lasciato in questa stagione. Roger Federer al fianco dell’amico Rafa Nadal, Del Potro in campo a Buenos Aires, Seppi lontano dai riflettori

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Roger Federer - Laver Cup 2022, Londra (twitter @LaverCup)
 

Tommy Robredo 24/03/2022 – 25 stagioni tra i professionisti, una carriera cominciata nel lontano 1998. Di fatto, un’era tennistica fa. Nativo di un piccolo comune, Hostarlic, della Catalogna; prende il nome di battesimo dal quarto album inciso dalla rinomata band rock britannica The Who, per l’appunto “Tommy” del 1969, del quale il padre era un grande ammiratore. Carriera eterna di un sanguino della racchetta, un passionale che non si è mai tirato indietro quando il gioco diventava duro. Il suo anno d’oro, fu il 2006 nel quale vinse il torneo di Amburgo – all’epoca aveva ancora la valenza di un “1000” – e raggiunse ad agosto la 5 posizione del ranking mondiale. Due anni prima, invece, era stata la volta del trionfo vestendo la maglia Roja: la Coppa Davis del 2004 vinta al fianco di un giovanissimo Nadal, superando per 3-2 gli Stati Uniti. Altro dato, a testimonianza del fatto che sia stato uno dei migliori esponenti del tennis spagnolo del XXI secolo: il traguardo raggiunto di ben sette quarti di finale a livello Slam, di cui cinque al Roland Garros. Purtroppo ha passato gli ultimi anni nel circuito minore, finendo un po’ nel dimenticatoio, a causa dell’infortunio patito al gomito nel 2016 che ha sostanzialmente chiuso la sua carriera ad alti livelli. Se in Germania ha ottenuto il risultato più grande, è nel ‘500’ di casa a Barcellona ad aver trovato il suo giardino dell’Eden: campione nel 2004 e finalista due anni dopo, nonché teatro dell’ultima partita disputata lo scorso aprile. Ma come detto, è stato un uomo in campo prima ancora che un giocatore: istintivo, genuino, in poche parole vero nelle sue esternazioni e nei suoi comportamenti. Più di qualunque titolo, è una sconfitta subita il 26 ottobre 2014 il lascito più importante del classe ’82 iberico: la finale del cinquecento di Valencia persa contro Andy Murray, subendo la rimonta dopo il 6-3 di apertura con un duplice tie-break in più di 3 ore e 20 di epica agonistica. Match, esegesi di cosa sia stato Tommy Robredo – celebre il “saluto” al momento della stretta di mano in cui mostra entrambi i diti medi -. Una partita di tennis, può assumere diverse matrici lungo le quali srotolarsi: può prendere le sembianze di una scacchiera, trasformarsi in confronti geometrici da cui venire fuori mostrando abilità nel disegnare le traiettorie più imprendibili, o ancora uno studio continuo di punti di forza e crepe da ricercare nella metà campo avversaria. Ma vi è anche un’altra possibile raffigurazione, quella della guerra di logoramento. Dove l’importante non è sferrare l’attacco decisivo, ma lavorare ai fianchi fino allo sfinimento. Quindi, dove il crollo fisico diviene solo la naturale conseguenza di una tattica meticolosa sviluppata all’interno di una battaglia di nervi e resistenza. Ecco, la carriera di Tommy è stata contraddistinta incessantemente da questi elementi e lo scontro con lo scozzese ne è la rappresentazione ideale. Un animo da sergente sul campo quando impugnava la racchetta, ma un cuore enorme al di fuori. La vittoria più grande, rimane difatti l’Arthur Ashe Humanitarian Award del 2018 – riconoscimento ideato per premiare gli sforzi umanitari dei tennisti professionisti -. Un premio derivante dall’impegno della sua Fondazione, incentrata soprattutto nell’aiutare i ragazzi con disabilità a praticare sport. La Tommy Robredo Foundation, nacque nel 2009 per onorare la memoria del suo caro amico, Santi Silvas, costretto sulla sedia a rotelle da un incidente e deceduto nel 2008. Da lì, partì l’idea per la creazione del Memorial Santi Silvas: torneo per ragazzi in carrozzina, in nome di una vecchia promessa fatta all’amico scomparso.

"Andy io capisco che devi andare a tutti i costi al Master però..."
“Andy io capisco che devi andare a tutti i costi al Master però…”

Kevin Anderson 03/05/2022 – Se si pensa alla figura dello Struzzo – così ribattezzato nel circuito per via dei suoi 202 cm – sudafricano sono due essenzialmente i frame che vengono in mente. Due scorci di prepotenza tennistica consumati nell’arco di tre giorni. Correva l’11 luglio 2018, e nell’insolita location del Campo 1 di Wimbledon maturava una clamorosa rimonta. Inusuale teatro, perché un certo Roger da Basilea si ritrovava per la prima volta dal 2015 declassato di grado e costretto a dover rinunciare al Centre Court. Una scelta di programmazione, che lasciò parecchi appassionati in preda al panico una volta costatata la cruda realtà che il biglietto acquistato nove mesi prima non avrebbe consentito di ammirare il divino come credevano. Così, è partita la corsa allo scambio: improvvisazione di trattative per ricevere il ticket “dorato” sul modello delle contrattazioni riservate alle figure panini. Ma il buon Kevin, in tutto questo clamore, preparava il ribaltamento perfetto: parte riuscendo a rispondere con notevole continuità, tuttavia i suoi servizi non producono i danni sperati. Dall’altra parte, la grande uscita dai blocchi che tante volte abbiamo osservato esterrefatti: break a freddo e conferma fulminea, insomma il solito King nella giornata in cui è semplicemente irrefrenabile. La doccia fredda si acuisce ancor di più nel secondo set per il lungagnone sudafricano, pur entrando maggiormente nel match con un break alla fine finisce per perdere in quella che dovrebbe invece essere la sua meta di ogni parziale: il tie-break. Addirittura lo cede da una situazione di vantaggio, 2-0. A questo punto non ce nessuno sulla faccia della terra, che darebbe anche solo l’1% di possibilità di successo a Kevin. Ebbene, contro ogni tipo di logica, Anderson compie lo scalpo sgretolando lentamente l’armatura di certezze indossata da Federer nei primi due set. Le crepe elvetiche diventano voragini, nelle quali i servizi da Johannesburg comandano portando il campione in carica a rifugiarsi costantemente nelle risposte choppate. Il trend è cambiato, e lo si capirà in maniera ineluttabile sul match point mancato da Sua Maestà dei prati nel decimo game del quarto. Lo strappo finale giungerà sull’11-11, permettendo all’uomo con il cappellino di infliggere all’uomo con la fascia il suo quinto KO dal 2-0 e la ventesima sconfitta con match point a favore. Pensate che il massimo dell’emozione struggente sia stato toccato, e invece nella semifinale di 48 ore dopo si assiste ad un scontro dai connotati ancora più storici. 6 ore e 36 minuti, la durata del penultimo atto più lungo della storia di Wimbledon: conclusosi 26-24 al quinto set per Kevin, che centra così la sua seconda finale Slam. In una battaglia tra giganti, è Isner il primo a cedere fisicamente. Altro ribaltone, questa volta dall’2-1. Un’altra partita passata alla storia per la una “infinitezza”, con ancora Long John di mezzo. Tra record frantumati, come i 214 ace a Church Road di Ivanisevic polverizzati da Big John, e un continuo tiro al piattello; colui che veramente godrà sarà “Nole il serbo” ritrovandosi in finale un avversario spolpato da ogni qualsivoglia riserva energetica.

Kevin Anderson con la moglie e la figlia a Newport 2021 (Credit: @atptour/Ben Solomon on Twitter)

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