L'opinione. Nadal in Arabia Saudita: criticare Rafa è sbagliato, ecco perché

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L’opinione. Nadal in Arabia Saudita: criticare Rafa è sbagliato, ecco perché

Tra sportswashing e l’esempio di Arthur Ashe in Sudafrica: per Rafa l’arduo compito di non farsi risucchiare dalla macchina propagandistica dell’Arabia Saudita

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Masters 1000 Parigi-Bercy 2022 (foto via Twitter @atptour)
 

Nella giornata di martedì abbiamo pubblicato la traduzione di un articolo del quotidiano spagnolo El País firmato da Manuel Jabois e intitolato “Non andare, Rafa”. Una presa di posizione contro la decisione di Nadal di accettare il ruolo di ambasciatore della Federazione Tennis dell’Arabia Saudita e di partecipare all’evento di esibizione “6 Kings Slam” che si terrà a ottobre a Riyadh. Qui, invece, verrà sostenuta la tesi opposta che si rifà alle dichiarazioni in merito dello stesso Rafa – pronunciate la scorsa settimana ai microfoni del programma spagnolo El Objectivo.

Questo è il succo del discorso del campione di Manacor sull’Arabia Saudita: “È un Paese molto indietro in tante cose, si è aperto da poco. Se l’Arabia non si evolverà come credo nei prossimi 10-15 anni, ammetterò che mi sbagliavo completamente. Sono convinto di poter mantenere la libertà di operare secondo i valori in cui credo e che considero corretti per me. Se ciò non accadrà, dirò che ho commesso un errore e che ho sbagliato”. Nulla vieta di dubitare della sincerità di queste parole, ma allo stesso tempo si tratterebbe di mere speculazioni: un processo alle intenzioni privo di appigli. Ciò che possiamo giudicare è il ragionamento di Rafa, che appare logico, comprensibile, almeno secondo chi scrive, condivisibile.

Jabois scrive che Nadal, dopo una carriera in cui è sempre riuscito egregiamente a evitare gli estremismi, “è finito a fare da testimonial al peggiore di tutti”. Il tempo ci dirà se effettivamente Rafa si trasformerà nell’amabassador del brand Arabia Saudita mettendo da parte le sue convinzioni, ma ciò che è sbagliato è considerare già persa la battaglia come se questo fosse l’unico destino possibile (e consapevolmente accettato) per chi in qualche modo si avvicina all’Arabia e alle sue iniziative.

Ciò che, invece, non è in discussione è la cornice entro cui eventi come il “6 Kings Slam” – a cui ormai il mondo dello sport si sta abituando – si collocano. Sportswashing: nulla di più e nulla di meno. Che il Paese guidato dal principe Bin Salman usi atleti ed eventi di grande richiamo per accreditarsi sulla scena internazionale, attraverso la costruzione di un’immagine in cui non siano in primo piano (e nemmeno in secondo) scandali e violazioni di diritti basilari per noi occidentali, è evidente a chiunque. Anche a Nadal, a meno che non si voglia mettere in dubbio la sua intelligenza.

Perché allora prestarsi a tutto ciò e avere anche diritto alla ragione? Per rispondere, proviamo a seguire il ragionamento di Rafa.

“Se l’Arabia non si evolverà come credo nei prossimi 10-15 anni, ammetterò che mi sbagliavo completamente”

Di fronte a un Paese chiaramente non in linea con standard fondamentali in termini di libertà civili, politiche e religiose (si può discutere della loro arbitrarietà e affidabilità, ma non può essere un caso che sia il Democracy Index dell’Economist che il Global Freedom Score di Freedom House vedano l’Arabia Saudita negli ultimi 15 posti delle loro classifiche) ma che comunque adotta una politica estera contraddistinta da grande apertura, si possono avere sostanzialmente due atteggiamenti (e ciò vale per personaggi pubblici ma anche per gli attori governativi e non dello scenario internazionale): da un lato il rifiuto dell’apertura nel tentativo di isolare il Paese in questione fino a un suo ravvedimento nei vari aspetti considerati, dall’altro accettare di stringere rapporti nell’ottica di far convergere obiettivi e interessi.

Senza voler proporre analisi e scenari geopolitici, non avendone le competenze, sembra comunque logico affermare che sia molto più facile che il processo di modernizzazione in termini civili e sociali (e non solo economici) prosegua – o forse inizi – in un contesto di contatto e scambio in diversi campi con l’Occidente (una strada, questa, già ampiamente tracciata in ambito internazionale: basti vedere la postura degli Stati Uniti) piuttosto che in una situazione di isolamento totale. Sembra questo il punto di vista proposto da Nadal, secondo cui è giusto assecondare il movimento di apertura dell’Arabia Saudita proprio per facilitare quel progresso che di certo non può avvenire dall’oggi al domani per via di tradizioni e consuetudini consolidate.

Mutatis mutandis, l’esempio di quanto sta avvenendo nei rapporti con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina nel febbraio del 2022 dimostra l’inefficacia della strategia dell’isolamento. Volendo limitarci al discorso sportivo, le sanzioni in tale ambito non hanno ottenuto alcun effetto tangibile. Anzi, come aveva sottolineato nel marzo del 2022 Nicola Sbetti, storico dello sport e studioso del rapporto tra quest’ultimo e politica internazionale, “il paradosso è che per isolare e indebolire Putin si rischia di togliere una piattaforma a tutti quegli sportivi che si erano esposti pubblicamente contro la guerra”. Così, gradualmente, le istituzioni sportive stanno tornando sui loro passi, come dimostra la decisione del CIO di ammettere atleti russi e bielorussi alle prossime Olimpiadi di Parigi.

“Sono convinto di poter mantenere la libertà di operare secondo i valori in cui credo e che considero corretti per me”

Come possa tradursi nella pratica questa dichiarazione di Nadal è difficile da immaginare e prevedere. Magari, come ha suggerito il nostro direttore Scanagatta, Rafa potrebbe donare tutto o parte dell’incasso che riceverà partecipando all’evento di esibizione di Riyadh a fondazioni che promuovono i diritti delle donne e della comunità Lbtq+. In ogni caso, e ancora una volta, il ragionamento dello spagnolo non fa una grinza. Starà poi a lui dimostrare di essere in grado di non farsi risucchiare dalla macchina propagandistica dell’Arabia Saudita. Criticarlo in partenza è sbagliato.

La storia, anche recente, dello sport è infatti piena di esempi virtuosi di atleti che hanno quantomeno provato a sfruttare la loro notorietà e il palcoscenico messo a loro disposizione nelle più svariate manifestazioni per promuovere un cambiamento. Per quanto riguarda in particolare il tennis, il caso che deve fare scuola è quello che ha visto protagonista l’indimenticato Arthur Ashe nel 1973.

Arthur Ashe partecipa a un’udienza sull’apartheid alle Nazione Unite (ph. Bettman)

Negli anni dell’Apartheid in Sudafrica, Ashe aveva provato diverse volte a partecipare al torneo di Johannesburg. Nel ’73 gli fu finalmente concesso un visto (la Federazione sudafricana voleva infatti ottenere la revoca della sospensione che gli aveva impedito di partecipare alla Coppa Davis) e Ashe giocò nel Paese che pochi giorni più tardi sarebbe stato dichiarato colpevole di crimini contro l’umanità da parte dell’ONU per via del regime di segregazione razziale. Il giocatore di Richmond fu ovviamente molto criticato per la sua scelta, dietro cui però c’erano intenzioni nobilissime. Era infatti convinto che la sua presenza in Sudafrica avrebbe potuto lasciare qualcosa, innescare un progresso che, come detto e come disse lo stesso Ashe, “arriva un po’ per volta.

Così spiegò le sue ragioni: “A che serve, nel grande schema dei diritti umani e della dignità, dire a un nero che può partecipare a una gara, quando un altro nero ancora non può votare, possedere una casa, guadagnarsi da vivere dignitosamente, frequentare una scuola, cambiare residenza senza permesso del governo o addirittura camminare per strada senza portare un pass ripugnante?”. Ashe pose delle condizioni per la sua partecipazione al torneo (che si ripeté l’anno successivo), portò con sé una troupe giornalistica americana per documentare la situazione e parlò con i ragazzini di colore del posto. Era però ancora troppo presto per assistere ai cambiamenti che arrivarono 15 anni dopo. Ashe se ne rese conto e non si prestò più a quella che capì essere una messinscena. Ma ci aveva provato, magari lasciando davvero qualcosa nella testa dei sudafricani, bianchi, neri e “colored”.

Così come ci ha provato la Nazionale di calcio tedesca durante i Mondiali in Qatar (altro Paese che sicuramente non spicca per le libertà civili concesse) del dicembre 2022 quando al momento della foto di rito pre-partita i giocatori si sono coperti la bocca per denunciare le limitazioni imposte dalla FIFA alla libertà di esprimere sostegno nei confronti della comunità Lgbtq+. In quel caso la FIFA si nascose dietro alla tesi per cui lo sport debba rimanere separato dalla politica. Peccato che l’inazione, o peggio l’indifferenza, siano scelte a tutti gli effetti politiche.

Come ha ricordato Jabois, nel corso della sua carriera Nadal è sempre stato impeccabile nell’uscire da situazioni potenzialmente scomode con fare diplomatico e conciliatorio (su questioni come l’indipendentismo catalano o l’indagine del fisco su alcune sue società). Ora ha di fronte una nuova sfida che ancora una volta si giocherà sul sottile file dell’equilibrio tra estremismi opposti – entrambi da evitare. Da un lato l’indifferenza, dall’altro la presa di posizioni così ostili da spezzare sul nascere qualsiasi possibilità di lasciare un segno. Al contrario di quanto affermato dal giornalista e scrittore spagnolo, la partita non è già decisa ma è appena iniziato il palleggio di riscaldamento.

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