Non si interrompe un'emozione: il paradosso di John Isner, l'uomo che ha distrutto il fascino dell'oltranza

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Non si interrompe un’emozione: il paradosso di John Isner, l’uomo che ha distrutto il fascino dell’oltranza

Il 39esimo compleanno dell’ex numero 8 del mondo: la favola del primo torneo ATP, la partita infinita con Mahut, la bellezza dei long set, il cambio di regolamento e il tennis recintato

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John-Isner-e-Nicolas-Mahut-Wimbledon-2010
 

Lorenzo Giustino ha il naso triste da italiano allegro, e continua a scuoterlo: ha appena fatto il bagno nella terra rossa del campo numero 14 del Roland Garros e la sua schiena porta i segni colorati di quel tuffo. Si è accasciato per un attimo sulla rete, in attesa di salutare il suo avversario, e sta sorridendo solamente con gli occhi, perché ha i muscoli pietrificati. Corentin Moutet continua a fare i capricci, guarda il campo, alla ricerca di una buca con cui litigare, ma alla fine cede e si avvicina a Giustino: Lorenzo si aspettava un addio più affettuoso dopo tutto quel tempo passato assieme, ma Moutet è Moutet e onestamente- dopo due giorni di tennis, dopo 6 ore e 5 minuti (il secondo match più lungo della storia del Roland Garros), dopo un quinto set di tre ore- avrebbe anche tutto il diritto di rosicare in santa pace. 

La versione autunnale del Roland Garros, quella del 2020, non è stata una storia indimenticabile: la solita passeggiata di Nadal, il freddo, il lockdown, le tribune praticamente deserte, il tennis a tutti i costi. Un torneo complessivamente noioso e per forza di cose un po’ ovattato, un torneo che decise di regalarci qualche goccia di adrenalina solamente nel corso dei primi giorni, con una serie di maratone da slam: nervi e polvere, Sandgren e Hurkacz (11-9 al quinto), Giron e Halys (8-6), Rodionov e Chardy (10-8), Londero e Delbonis (14-12). E poi? E poi i francesi, che si incazzano. 

Lorenzo Giustino era un giocatore che non esisteva, poi è rimasto impigliato nel fascino dell’oltranza, e adesso ce lo ricorderemo per sempre. 

0-6 7-6(6) 7-6(3) 2-6 18-16, zero-sei, sette-sei, sette-sei, due-sei, diciotto-sedici, e già solamente la matematica del punteggio meriterebbe una seduta gratuita dall’analista. Anche perchè Moutet ha sbattuto contro gli spigoli del labirinto dello sport del diavolo, perdendo una partita assurda, nonostante i 25 punti in più di Giustino; perché Moutet ha perso la partita nonostante abbia messo a segno 31 vincenti in più dell’avversario e commesso 8 errori gratuiti in meno. Uno scherzo, un primo turno orrendo, una partita indimenticabile: Lorenzo Giustino era un giocatore che non esisteva, e adesso che lo ricorderemo per sempre. 

IL TIE BREAK DECISIVO, L’ECCEZIONE CHE DIVENTA PRETESTO

Lorenzo Giustino ce lo ricorderemo per sempre, anche perché non esisterà mai più una storia come la sua. Nel 2022 i capi del tennis mondiale decisero di abolire la bellezza dell’oltranza nel set decisivo dei tornei del Grande Slam introducendo definitivamente, in tutti e quattro i Major, il tie break ai 10. Il meccanismo dell’oltranza era sopravvissuto ai cambi di stagione della storia del gioco, con la curiosa eccezione dello US Open, dove sul 6 pari del set decisivo si disputava un normale tie break, come in tutti gli altri parziali. 

Il governo del tennis, che già da tempo si interrogava sul presunto problema dei match infiniti, trasformò l’eccezione in un pretesto dopo la storica semifinale di Wimbledon del 2018 tra Kevin Anderson e John Isner: il sudafricano si impose dopo 6 ore e 36 minuti di agonia con il punteggio di 26-24 al quinto set, rovinando il palcoscenico della semifinale più attesa, quella tra Nadal e Djokovic. I palinsesti delle televisioni di tutto il pianeta impazzirono, in attesa della fine dell’antipasto: i due campioni entrarono in campo solamente nel corso della serata inglese e la partita venne spezzata in due a causa del coprifuoco dei Championships, che imponeva agli organizzatori di interrompere gli incontri alle ore 23 locali.

La semifinale più attesa- ed è proprio il caso di dirlo- proseguì il giorno successivo, Nole vinse 10-8 al quinto set (il destino, quando ci si mette, sa diventare beffardo) e poi dominò (quel che rimaneva di) Kevin Anderson in finale. La frattura e la frittata erano completate, e quel weekend segnò la fine delle storie di tutti i potenziali Lorenzo Giustino del circuito. Wimbledon si inventò immediatamente l’esperimento del tie break ai 7 ma sul 12 pari (vi ricordate la finale Djokovic- Federer del 2019?), gli australiani optarono subito per il tie break ai 10, i francesi provarono a resistere, ma nel 2022 furono costretti a cedere: tie break ai 10, sul 6 pari, in tutti e quattro i tornei del Grande Slam. 

Si arrivò in poche parole a una soluzione posticcia e anti-climatica per un problema che non esisteva.

Una soluzione posticcia, perché il tie break ai 10, che nasce come una specie di via di mezzo tra l’oltranza e il tie break “secco”, è una via di mezzo piuttosto inguardabile, oscura contemporaneamente sia il fascino storico dell’oltranza che l’emozione “casuale” di un normale tie break, dove ogni punto pesa, dove una singola stecca può rappresentare la svolta della lotta. Il tie break ai 10 è un’idea piccola, da circolo, nella peggiore accezione possibile del termine: come quando sta finendo l’ora e non hai tempo di terminare un altro set: “Facciamo un tie break ai 10?”, giusto per ingannare il tempo, giusto per trovare un senso dove un senso non c’è più.

E poi è una soluzione totalmente anti-climatica dal punto di vista dello spettacolo, perché interrompe l’emozione dei colpi di scena per costruire una nuova parentesi pre-confezionata. Lo sport, purtroppo o per fortuna, non è infatti il cinema: non c’è la sceneggiatura, non c’è il montaggio, non c’è la colonna sonora, non c’è il finale giusto al momento giusto. Il buio, le nuvole che trascinano la pioggia, il medical time out, la bagarre, la torcida, la polemica, la tensione dei nervi e del punteggio: le emozioni sportive vivono una vita propria, ma se vengono pre-confezionate perdono tutto. John Isner ha costruito una carriera intorno al fascino dell’oltranza ma John Isner è stato anche il killer di quel fascino: cerchiamo di approfondire l’indagine.

LA CARRIERA E I SUCCESSI DI LONG JOHN

John Robert Isner, che oggi compie 39 anni, si è ufficialmente ritirato al termine dello US Open del 2023: la sua è stata una carriera anomala, cominciata di fatto in ritardo, nel 2007, a 22 anni, solamente dopo aver completato gli studi. Il primo torneo ATP di Isner fu una specie di favola: raggiunse, da wild card, la finale di Washington vincendo tutti i match al tie break decisivo (nell’ordine Henman, Benjamin Becker, Odesnik, Haas e Monfils). Quel battesimo rappresentò il trampolino di lancio della vita sportiva di Long John (208 centimetri), che nel corso degli anni smussò gli spigoli del suo gioco: il nativo di Greensboro venne inizialmente percepito dal resto del circuito come una specie di fenomeno di baraccone, ma quel tennista/ pachiderma aggrappato al servizio col passare del tempo aggiunse altre piccole soluzioni ad un gioco per forza di cose scarno. Lavorò sulla condizione atletica e sulle risposte in avanzamento, cavò dalle rape del suo talento un pizzico di tocco nei pressi della rete e una volée in generale più che discreta e si tolse di conseguenza le soddisfazioni che meritava: il best ranking di numero 8 del mondo (dopo quella semifinale con Anderson), il record di ace nel circuito maggiore (14.470) 16 titoli ATP (sempre nel 2018, il più prestigioso, a Miami, dopo una grande finale con Zverev) e una presenza alle Finals di fine stagione.

Non ha mai vinto un torneo in Europa: 14 in Nord America (6 volte Atlanta, 4 volte Newport, Isner era un tipo che si affezionava ai suoi posti) e un paio in Australia (Auckland, 2010 e 2014). Ha perso altre quattro finali nei Masters 1000 (la distanza del 2 su 3, soprattutto sul cemento, rappresentava la sua condizione preferita) a Indian Wells (Federer), Cincinnati (Nadal), Bercy (Murray) e ancora a Miami (Federer). Proprio con Roger firmò però una delle partite della vita, in Coppa Davis, a Friburgo, nel 2012: i padroni di casa optarono per la terra indoor, e ne uscirono con le ossa rotte. Long John scoprì le condizioni perfette per il suo servizio e per le risposte aggressive col paraocchi (tre quelle vincenti nell’ultimo game, giocato in totale trance agonistica) e travolse Federer in quattro set, guidando la sua nazionale verso il sapore dolce dell’impresa in trasferta.

IL PARADOSSO E LA MARATONA: ISNER- MAHUT

Punto di riferimento americano, titoli, best ranking da campione, una delle battute più efficaci della storia: ma, perdonate la superficialità, le partite di Isner non le guardava nessuno. E, per certi versi, della sua carriera monumentale rimarrà soprattutto il ricordo della tortura di quei maledetti ace, che ti costringevano a cambiare canale. Isner era il “bug” del tennis mondiale, specialmente nei tornei del Grande Slam: il berretto ad un certo punto cominciava a grondare di sudore, la faccia paonazza si trascinava per il campo, e quello diventava il momento della svolta, il momento degli ace. Il motore del gioco di John col passare dei minuti si inceppava, producendo servizi vincenti a grappoli e, contemporaneamente, game di risposta completamente immobili, in attesa di non si sa bene cosa. Il tennis diventava maratona, la partita si trasformava in una storia, il gioco non esisteva più, il pubblico impazziva, e tu, seduto sul divano, appena vedevi quegli strani numeri del livescore diventare sempre più gonfi (8 pari, 10 pari, 14 pari,…) non resistevi più alla tentazione, e ‘accendevi Isner’: un po’ come quando sei in coda in autostrada e c’è un incidente, e poi ci passi di fianco, e non vuoi guardare, perché lo sai che non devi guardare. Ma alla fine guardi.

Isner ha costruito la sua reputazione e la sua eredità tennistica basandosi sui match a oltranza, e i match a oltranza sono stati cancellati dal tennis per colpa di Isner. La maggior parte delle maratone “mostruose” e difficili da digerire lo vedevano infatti protagonista: bastava eventualmente attendere il suo ritiro, e invece il Governo ha sfruttato l’eccezione e l’ha fatta diventare regola. I match a oltranza erano di fatto un problema minore (i dati parlano chiaro, percentuali di impatto su un torneo che andavano dallo 0 virgola al 3%) e riguardava eventualmente solo un giocatore, al massimo due o tre (Isner, Anderson e Karlovic, tutti ormai ritirati).

I paradossi di John Isner sono un cane che si morde la coda. 

L’ex giocatore statunitense- ripetiamo- ha costruito la sua reputazione e la sua eredità tennistica sui match a oltranza e di conseguenza se fosse sempre esistito il tie break ai 10 nel set decisivo probabilmente nessuno- provocazione, ma solo fino ad un certo punto- si ricorderebbe di Isner. Provate a pensare alla carriera di Isner senza Isner-Mahut e senza quella targa appesa fuori dal campo 18.

Nel 2012 (secondo turno del Roland Garros) perse 18-16 al quinto con Paul Henri Mathieu dopo 5 ore e 41 minuti, nel 2010 vinse- eccoci- la partita più lunga della storia del tennis, con Mahut, a Wimbledon, con il punteggio di 70-68 al quinto, e fa impressione solamente a scriverlo. I due rivali stracciarono, a braccetto, qualsiasi tipo di record, compreso quello della durata: 11 ore e 5 minuti, spalmati in tre giorni. Nel 2016 un’altra delle tante maratone di nervi, con Tsonga, sempre a Wimbledon: vinse il francese, 19-17, dopo 4 ore e 29 minuti, e infine, dopo una serie notevole di torture del genere, la semifinale del 2018, con Kevin Anderson.

L’erba, ormai lenta o per meglio dire rallentata, consentì a Isner- non esattamente una specialista- di trovare il tempo del suo gioco: raggiunse la semifinale e occupò il Campo Centrale per quasi 7 ore, e possiamo solamente immaginare l’ansia del giardiniere. Nel corso del 49esimo game del quinto set Anderson scivolò, si rialzò, e, completamente fuori equilibrio, colpì un dritto mancino, per poi vincere il punto: 0-30, e infine break. Il break decisivo, grazie ad un dritto mancino, dopo una giornata intera di tennis. Hanno deciso di toglierci il vizio di queste piccole emozioni.

LA RIVOLUZIONE DEL TIE BREAK E IL TENNIS RECINTATO

La verità è che la rivoluzione del tie break rientra perfettamente nel contesto del pacchetto di provvedimenti che hanno contrassegnato il tennis mondiale nel corso degli ultimi anni: la svendita della tradizione della Coppa Davis, quella vera, la chiusura progressiva dei tornei minori, il nuovo sistema di assegnazione dei punti a livello challenger, il giorno di riposo nel formato dei Masters 1000 travestiti da slam, la protezione dei top player, il contentino economico ai giocatori di terza e quarta fascia.

La direzione è quella dei binari di un tennis recintato: non c’è spazio per le storie inferiori ma solo per la comodità delle facce più note del circuito, perché quelle sono le facce che attirano i soldi, non c’è spazio per la pazienza e l’approfondimento della vicenda ma solo per i reel di Instagram. Un minuto, i sottotitoli giganti, un paio di mosse con le dita e il “contenuto” è impacchettato. La partita non la guarda più nessuno, eliminiamo direttamente la partita.

I giocatori che vivono una carriera al di fuori della top70 del ranking rappresentano solamente un fastidioso contorno, organizziamo i tornei solamente tra i primi 10 del mondo. Prima o poi. Ma siamo così sicuri che Giustino- Moutet valga meno dell’ennesimo braccio di ferro- sempre uguale- tra Nadal e Djokovic?

I capi del tennis ci hanno raccontato che il tie break è stata una minaccia esplicita dei giocatori, ci hanno raccontato che il bene supremo da proteggere era quello dell’integrità del torneo, “perché chi vince un long set poi sicuramente perde al turno successivo”, e ci hanno raccontato tante bugie: dal 2010 al 2018 (fonte: tennisitaliano.it) la percentuale di vittorie al turno successivo di quelli che erano appena sopravvissuti ad un tie break decisivo (ai 7) allo US Open era più bassa di quella di chi aveva appena trionfato in un quinto set a oltranza negli altri tre slam. Il tie break non risolve alcun tipo di problema, perché è impossibile risolvere un problema che non esiste.

L’ultimo dritto di Lorenzo Giustino, in quella serata di Parigi, aveva la retromarcia, è inutile negarlo: si incastrò in una buca nei pressi della riga laterale, mandando completamente fuori tempo Moutet, che rimase a guardare il campo, ringhiando da solo. Il tennista napoletano adesso ha 32 anni, è il numero 324 del mondo e sta provando a risalire ancora una volta dall’inferno dei tornei Futures. La scorsa settimana ha raggiunto la semifinale nel challenger di Barcellona, partendo dalle qualificazioni: da quel Roland Garros autunnale non ha mai più rimesso piede nel tabellone principale di un torneo del Grande Slam.

Moutet, invece, è rimasto Moutet, e non avevamo dubbi: lo scorso anno è stato operato al polso destro e per una manciata di mesi ha giocato solo slice di rovescio; un paio di sere fa nel corso di un cambio campo del suo match di primo turno a Madrid si è fatto offrire il caffè da uno spettatore. Aveva sonno e ha chiesto una mano all’arbitro: “We don’t provide coffee, Corentin”. E allora si è rivolto al pubblico.

Anche il naso di Giustino, a dirla tutta, è rimasto lo stesso: quello lì un po’ triste, da italiano allegro. Su youtube non si trovano highlights della partita, ma noi c’eravamo e sappiamo che è esistita: la pioggia, la sospensione, i 25 punti di differenza a favore dello sconfitto, le mascherine, la malinconia della festa a porte chiuse, i lob di Moutet con l’avversario a fondo campo, l’astuzia di due tennisti da circolo, l’agonia degli scambi da terza categoria e l’allucinazione dei raggi di sole all’inizio del quinto set, e poi, soprattutto, i francesi che si incazzano, che le palle ancora gli girano.

Lorenzo Giustino era un giocatore che fino a quella sera non esisteva, poi è arrivata l’oltranza. E ce lo siamo ricordato per sempre.

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