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28/09/2011 11:55 CEST - Storie di tennis

Il Giovane Angelo con la racchetta

TENNIS – Teen Angel. L’Assassino di Ghiaccio. Soprannomi che raccontano stile e personalità di Bjorn Borg, che esattamente trent’anni fa, il 26 settembre 1981, vinceva il suo ultimo torneo, il numero 61, a Ginevra, battendo Tomas Smid in finale. Ma la fine era iniziata due settimane prima, con la sconfitta agli Us Open contro McEnroe. L’anno successivo giocherà solo a Montecarlo perdendo ai quarti da Noah. Alessandro Mastroluca

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So young and so untender. So young and so true. Così giovane, e così privo di tenerezza. Così giovane e così sincero. Difficile trovare una descrizione che possa adattarsi meglio a Bjorn Borg, anche se arriva dal Re Lear.

Prova emozioni, diceva di lui Gerulaitis, ma ha un talento unico per mascherarle. Il suo compagno di doppio, Ove Bengstone, non l’ha mai visto arrabbiarsi in campo. Una volta gli hanno chiesto: “Borg ha mai dato segni di emotività da giovane?”. Lui ha risposto, incerto: “Che volete dire? Quando aveva sei anni?

L’Assassino di Ghiaccio, biondo quasi come Gesù, portava il carattere inscritto nel nome. Bjorn vuol dire orso, e qualche amico per questo lo soprannominava affettuosamente Nalle, l’orsetto. Borg significa castello, marchio di regalità e insieme distanza, di inaccessibilità e superiorità. “Noi giochiamo a tennis, lui gioca a qualcos’altro” spiegava Nastase

È su un altro pianeta, sembra arrivare da un altro pianeta il Teen Angel, insieme pubescente e patriarcale quando è apparso sulla scena. Rinuncia alla vita mondana durante i tornei, eppure è sempre circondato da donne: “potrei averne due diverse a sera” diceva, e forse era un esercizio di modestia.

Un giorno, aveva 19 anni, è in viaggio alle Hawaii. Incontra una coppia in luna di miele. Il marito lo avvicina e gli dice. “Il più grande regalo che potrei fare a mia moglie è permetterle di fare l’amore con lei”. Borg, mai così young and untender, mai così young and true rinuncia: “non lo faccio mai con le donne sposate”.

Arriva da un altro pianeta, il campione che sogna un giorno perfetto “al mare, in barca, in Svezia: da solo, senza nessuno che parla. Solo io e il vento. Lui che ha racchiuso tutto in otto anni di carriera folgorante, in cui si è specchiata tutta la sua personalità, in cui ha trasfuso il suo stile unico e solitario, vive la sua sera quasi perfetta quando le luci si spengono, gli amici e gli avversari se ne vanno, e l’universo di BjornBorg, tutto attaccato come lo pronunciano in Svezia, smette di essere un rettangolo d’erba o terra rossa.

Non è al mare, d’accordo, ma nella piscina della casa che abitava a New York, a Sands Point, che chiamava “il mio castello sull’acqua”. È un Borg solitario, è un Borg finale ma nient’affatto triste. È solo con il vento e per la prima volta dopo anni ha pensato: sono libero. È da poco finita la finale degli Us Open. In pratica è da poco finita la sua carriera.

I got it my way
Start spreading the news, I am leaving today, I want(ed) to be a part of it, New York, New York. Non c’è Frank Sinatra che canta, anche se sarebbe l’accompagnamento ideale. C’è John McEnroe che parla, che ringrazia la famiglia, gli amici e il coach Tony Palafox, che soprattutto si dice dispiaciuto per Bjorn Borg: “un giorno vincerà questo torneo, ma spero non finché ci sarò io”.

Borg però è sotto la doccia, con quattro poliziotti a guardia dello spogliatoio. Uno di loro grida: “fate arrivare una macchina!”. Borg esce passando per le cucine, preoccupandosi che Lennart Bergelin non scivoli sul pavimento macchiato e si mette al volante.

Attraversa Long Island, va a est verso Grand Central Parkway. Passa Douglaston, King's Point dove abita Gerulaitis, la Port Washington's Academy dove era cresciuto McEnroe.

Non potevo farcela a stare di nuovo davanti a quella gente e fare un bel discorso” dirà anni dopo. “Credo fossi un cattivo ragazzo”. Forse solo un ragazzo sincero e poco tenero. Un ragazzo con la chioma bionda bagnata che gli ricade sulle orecchie e sulle spalle mentre attraversa New York. Non c’è più bisogno delle scaramanzie per cui, durante gli Slam, guidava sempre Lennart Bergelin.

Il rapporto tra i due era molto più di un legame giocatore-coach. I due si incontrano per la prima volta quando Borg ha 15 anni. Bergelin è capitano di Davis e organizza una serie di partite amichevoli per selezionare giovani promesse da convocare. Iceborg gli dà pubblicamente dell’imbroglione. Ma viene inserito in squadra e diventa il più giovane a prendere parte, e a vincere, un match di Davis.

Il suo stile era considerato idiosincratico, un punto di non ritorno buono per Bobby Riggs e le sue scommesse. Il paziente gioco da fondo non si vedeva dai tempi di Jean-René Lacoste, l’ultimo a usare il rovescio a due mani era stato l’australiano Vivian McGrath negli anni Trenta.

Tirava il dritto come se stesse giocando a ping-pong, e proprio al ping-pong si deve la sua carriera. Da piccolo giocava centravanti a hockey su ghiaccio ma quando ha nove anni, però, il padre Rune vince un torneo di ping-pong: il premio è una racchetta da tennis.

Borg inizia a giocare contro il muro del garage, sei anni dopo ha realizzato il suo primo sogno: rappresentare la Svezia in Davis.

Sono poi arrivati i sei Roland Garros, i cinque Wimbledon, le tre doppiette consecutive Parigi-Londra. Se l’Orso ha potuto portare il suo Castello in cima al mondo, in una nazione in cui c’è una lunga tradizione di sovrani sportivi, in cui Gustavo VI giocava a tennis, il principe Adolfo partecipò alle Olimpiadi di Berlino ‘36 con la nazionale di scherma, lo deve soprattutto a un grande eroe popolare, Jan Erik Lundquist. Ha avuto un solo grande acuto in carriera, il titolo a Roma nel ‘64, ma ha guidato la Svezia a sei finali europee di Davis e a tre finali inter-zona. Ha reso popolare il tennis, ha portato il passatempo dei re in televisione. Ha portato un bambino biondo quasi a piangere perché il padre tentava di cambiare la racchetta da tennis che aveva appena vinto con una canna da pesca.

Un luogo chiamato libertà
Un bambino che diventa subito uomo, che prima di compiere vent’anni ha già l’aura di Kennedy a Hyannis o di Paul McCartney a Liverpool, che non sopporta la sconfitta pur avendola incontrata poco. Un campione che 30 anni fa vinceva il suo ultimo torneo, a Ginevra.

Nei primi tre turni perde 10 game per battere Mats Wilander (fresco campione europeo junior), il peruviano Pablo Arraya e lo svizzero Heinz Gunthardt. In semifinale affronta Manolo Orantes. Vince il primo set 6-4, poi nel secondo fa quello che praticamente non ha fatto mai in carriera, serve and volley quasi sistematico. Lo spagnolo non crede a tanta benevolenza e porta a casa il set 6-0. Ma nel terzo Iceborg torna a fare quello che sa fare meglio e vince 6-1.

In finale, davanti a 5 mila spettatori supera 6-4 6-3 il ceco Tomas Smid in un’ora e 45. è il 27 settembre 1981.

L’anno successivo annuncia che si prenderà un anno sabbatico. Si concede una sola eccezione, a Monte Carlo, che è diventato anche casa sua. Deve passare per le qualificazioni, perché il regolamento impone di essere iscritti ad almeno dieci tornei in stagione per poter essere ammessi al tabellone principale. Arriva fino ai quarti, dove incontra Yannick Noah, che lo demolisce 6-2 6-1.

Ma il francese non può credere alle sue orecchie. Ai cambi di campo Borg fischietta, sempre più forte man mano che il match procede. L’Orso è con il corpo in campo e con la mente nel suo Castello. Il ragazzo, quel ragazzo con una luce strana dentro agli occhi che qualcuno ha chiamato cattiveria anche se nessuno sa dei suoi pensieri e del suo mondo, è da un’altra parte. So young and so true. So young and so tender.

Alessandro Mastroluca

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