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06/11/2011 17:52 CEST - Interviste

"Diamo più potere ai giocatori"

TENNIS – Intervista esclusiva con Claudio Pistolesi che ha individuato i criteri per essere riconosciuti coach ATP: la riforma partirà dal 2012. «Bisogna dimostrare di aver allenato giocatori in tabellone in 11 eventi Atp all’anno per cinque stagioni». Al centro, dunque, ci sono i tennisti che per Pistolesi dovrebbero contare di più. «Non si può obbligarli a giocare, nei tornei o in Davis: chiedere di saltare un match non è "sputare sulla bandiera"». Alessandro Mastroluca

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È un lavoro, ma non una professione. Il coach nel tennis vive di contraddizioni. Il suo ruolo è preparare il giocatore alla partita, ma nel momento clou, quando il tennista è in campo, non può dargli indicazioni. Non ci sono regole di ingresso alla professione, né criteri di ammissione o esclusione. «Non può nemmeno entrare nel club dove si gioca un torneo se il giocatore che segue non firma» ci dice Claudio Pistolesi, membro del Player Council dell’ATP e promotore di un primo importante passo per la riforma della professione: ha stabilito i criteri per poter essere riconosciuti coach ATP.

«Essere coach ATP vorrà significare una cosa precisa» prosegue Pistolesi, che entra nel dettaglio dei criteri che portano al riconoscimento. «Sono molto simili a quelli che hanno i giocatori per accedere alla pensione. Bisogna cioè dimostrare di essere coach di un giocatore in tabellone in 11 eventi Atp all'anno, anche non consecutivi, per cinque anni. La lista sarà sul sito dell'Atp, e chi ne fa parte potrà accedere a iniziative esclusive e rapporti privilegiati con media e organizzazione dei tornei». Si potranno ad esempio incontrare gli sponsor, si augura Pistolesi, che spera di inaugurare questa tradizione al prossimo Masters di Londra.

«Ci sarà una commissione fatta da tre coach (certamente ne faremo parte io e Marcos Aurelio Gorritz, che sta lavorando con Falla e Giraldo; ho chiesto a Darren Cahill di essere il terzo) per valutare i casi speciali. Per esempio, se Tony Roche dovesse chiedere di essere ammesso, nel caso non abbia i requisiti certo non gli chiederemmo di fare i cinque anni di “tirocinio”».

Si tratta di criteri basati sul merito, commenta l’ex coach di Bolelli, Berrer e Soderling (tra gli altri), che mettono al centro il giocatore «perché è lui che ti sceglie e che ti permette di essere riconosciuto come coach ATP».

Nel tennis, contrariamente a quanto avviene nel calcio o nel basket, è il giocatore che paga il coach, è il giocatore che sceglie. E, contrariamente a quanto avviene negli sport di squadra, il ruolo dell’allenatore si ferma prima della partita. Durante il match non ci dovrebbe essere alcun rapporto, né vocale né gestuale tra il coach e il tennista. «La regola del coaching è troppo difficile da applicare seriamente» sostiene Pistolesi. «Se io scaccio una mosca e l'arbitro percepisce che io ho dato un segno al giocatore, come potrei fare giocando a carte con gli amici, potrebbe darmi un warning. Il momento cruciale per il coach è la partita, si potrebbe liberalizzare la possibilità di dare istruzioni, anche senza arrivare a entrare in campo, come si fa nel tennis femminile. Credo che mantengano questa regola solo per chi abusa, per chi disturba in quanto il gioco deve essere continuo».

Il discorso sulle regole non poteva che portare a riflettere sulle minacce di sciopero, le proposte di riforma del calendario. E da qui a parlare di Davis e di Bolelli il passo è breve. Sulle esigenze dei giocatori, sulle richieste che tanta eco hanno avuto durante e dopo gli Us Open, il parere di Pistolesi è chiaro: «Non bisogna avere paura di passare per avidi. Ci vuole equità nella distribuzione degli introiti, cui tutte le categorie contribuiscono (tv, sponsor, giocatori). E' vero che i giocatori sono pagati bene, ma i tennisti sono pagati meno bene che negli altri sport. L'NBA sciopera perché nell'indotto i giocatori prendono il 43% e vogliono il 50%, nel tennis si arriva a 12%».

La polemica sul calendario (troppo lungo? troppo rigido?) «è iniziata negli anni '50 ed è una diatriba tra la parte dilettantistica e la parte professionistica del tennis», in cui negli ultimi anni si è aggiunto un terzo soggetto: le televisioni.

«Ci sono limiti sul come e il quando si entra in campo» sostiene. «Invece spesso si confonde l’impegno professionale dei tennisti con la proprietà dei giocatori. Se uno non si sente di giocare e c'è di mezzo la salute ha diritto di non giocare. Se piove e si scivola, non puoi costringere nessuno a scendere in campo anche se la CBS pressa. Un discorso, questo, molto legato, per esempio, alla Coppa Davis». Il riferimento al “gran rifiuto” di Montecatini è esplicito, l’amarezza per le conseguenze di quel gesto ancora forte. Peraltro, la Davis ha influito anche su Soderling, nei tre mesi in cui è stato seguito da Pistolesi, ma in senso opposto. «Robin, che è fondamentale per la Svezia, ha dovuto giocare in Davis contro la Russia e i problemi sono iniziati lì, perché s'è infortunato al tendine d'Achille contro Andreev».

Ma se da un lato quella di Soderling, o quella di Djokovic contro l’Argentina, è espressione di rispetto per la competizione e per la nazionale, dall’altro «se un giocatore chiede di saltare un turno per motivi tecnici, è successo con Bolelli quando lo allenavo io, con Volandri un anno prima, non è che "ha sputato sulla bandiera". Il giocatore ogni volta che gioca rappresenta la nazione. Quando la Schiavone ha vinto il Roland Garros, ha vinto l'Italia, tanto che è andata dal presidente della Repubblica. Quando Bolelli è andato in finale a Monaco, tutta l'Italia ha fatto bella figura».

Il rapporto con la patria, prosegue, «è una cosa intima, è un po' come il rapporto che hai con la famiglia, e nessuno può discutere se ce l’hai o no». Per Pistolesi, invece, il clima che si è creato intorno a Bolelli, dopo la richiesta di non essere convocato per lo spareggio contro la Lettonia a Montecatini, e Seppi, dopo il forfait di Cagliari contro la Slovacchia ha penalizzato i due giocatori, che nel 2008 hanno toccato il loro best ranking, rispettivamente di 36 e 27 del mondo, e i risultati degli azzurri in Davis.

«Seppi e Bolelli sono stati i più denigrati, anche sui giornali, e questo non li ha aiutati. Bolelli negli ultimi tre anni ha fatto male, ora sta uscendo in doppio, ma non credo sia una consolazione per lui. Per quanto riguarda la Davis, stare in serie B, addirittura in C, per undici anni è stata un’umiliazione per l’Italia. Per questo non capisco chi ha detto, dopo la vittoria in Cile, “l’ultimo obiettivo è stato raggiunto: siamo tornati in serie A”. Noi dobbiamo pensare di arrivare in finale, come abbiamo fatto con Bertolucci, un capitano che ha fatto cose straordinarie come Panatta, sempre pronto a difendere i giocatori, che riusciva a tirare fuori il meglio dai ragazzi. Dobbiamo pensare di poter vincere, non ci possiamo accontentare»

Un ultimo pensiero va al formato della Davis, che così com’è non riesce a garantire la presenza costante dei top players e finisce per minare, almeno un po’, il prestigio della Coppa. «Un'idea che è venuta fuori è quella di fare un Campionato del Mondo come nel calcio, nello stesso posto, con almeno le migliori otto squadre. A me però piace la formula della Nations Cup di Dusseldorf, in cui i giocatori partecipano in base alla classifica, senza convocazioni. Chi prende le decisioni secondo me deve essere qualcuno vicino all'entourage dei giocatori, come da anni fanno in Spagna in cui in pratica decidono i giocatori. E chi altro dovrebbe decidere?».

Alessandro Mastroluca

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