Paolo Lorenzi, la parabola vincente del Signor Challenger

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Paolo Lorenzi, la parabola vincente del Signor Challenger

Venerdì per la prima volta – quella di Torino fu solo strategica – Paolo Lorenzi verrà schierato come titolare della squadra di Coppa Davis azzurra. Non è solo l’omaggio alla lunga carriera di uno dei giocatori italiani che meglio ha saputo valorizzare le proprie qualità perché a 34 anni suonati il bello deve ancora arrivare

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Gli uomini sono come il vino. Alcuni diventano aceto, i migliori invecchiano bene. Il celebre adagio firmato da Papa Giovanni XXIII si sposa a meraviglia con l’evoluzione tennistica di un giocatore eccezionale in tutta la sua ordinaria normalità che risponde al nome di Paolo Lorenzi. Un simpatico giovanotto con la faccia da buono e l’espressione un po’ buffa, che a dispetto delle trentaquattro faticose primavere già lasciate dietro le spalle non vuole smettere di divertirsi facendo ciò che nella vita gli riesce meglio: giocare a tennis.

A proposito di proficua maturazione. Nello scenario incantevole del senese, tra i boschi della Maremma e le alture del monte Amiata, immerso in colori e forme ineguagliabili nasce il Brunello di Montalcino, orgoglio italiano entrato a far parte delle più esclusive aste delle bottiglie di grande invecchiamento. Ciò tanto per sottolineare che il proverbio di pontificia memoria, nello specifico calzi a pennello, non una, ma ben due volte, visto che la storia che abbiamo l’onore di raccontare ha inizio proprio a Siena – città adottiva di un Lorenzi appena nato, nel 1981.

Una classe, quella del 1981, che di per sé è già una garanzia di longevità agonistica. Se Lleyton Hewitt ha urlato al cielo il suo ultimo “c’mon” solo nel corso degli Australian Open appena passati in archivio, Roger Federer dal canto proprio è ancora in giro per il circus a dispensare, ginocchia permettendo, frustate liquide in piena sindrome di Peter Pan. Per non parlare poi di Serena Williams. Un fenomeno vivente che se non più tardi di cinque mesi fa non si fosse imbattuta in una mitragliata di rovesci slice senza precedenti nella storia di questo sport vanterebbe oggi un Grande Slam in più ed un esaurimento nervoso in meno. Insomma, la compagnia è di quelle buone.

A differenza del mitologico coscritto svizzero però, generosamente omaggiato da madre natura di tutto ciò che serve per essere campione fin dalla culla, la carriera del Paolino nazionale ha assunto solo con l’andare del tempo le sembianze di un prezioso mosaico. Una composizione pittorica, la sua, fatta di un’infinità di piccole tessere di umile materiale il cui paziente accostarsi ha dato vita alla lunga ad un’opera d’arte. Che se non finirà in pompa magna nella hall of fame del tennis mondiale, un posticino nel cuore degli ammiratori italiani se lo è guadagnato di sicuro. Noi che nel corso delle stagioni quel suo rincorrere sempre e comunque pancia a terra abbiamo imparato ad apprezzarlo e farlo nostro. Al punto da credere che se il compianto Elio Petri avesse avuto modo e tempo per conoscere la storia operaia di questo volenteroso ragazzo – col cappellino da baseball girato all’indietro, i polsini tricolori ed i pantaloncini improbabili da far invidia anche ad un rivoluzionario del look come Stan Wawrinka – in paradiso, al posto di Lulù, quasi certamente ci avrebbe spedito Paolo.

Romano di nascita e come detto toscano d’adozione, Lorenzi, sacca in spalla e biglietto aereo rigorosamente low-coast in tasca, frequenta i campi di mezzo mondo da almeno una quindicina d’anni. Da quando, non ancora ventenne, ha fortemente voluto che il tennis in un modo o nell’altro diventasse anche un mestiere. Una grande passione del resto lo era già. Complice il fratello Bruno che lo ha introdotto allo sport del diavolo all’età di sette anni, in un periodo storico nel quale grazie al carisma contagioso di personaggi come l’idolo d’infanzia Boris Becker non era così difficile farsi prendere dalla voglia irrefrenabile di sporcarsi le scarpette di rosso. Se Lorenzi a suon di sportellate non avesse fatto strada nell’impermeabile mondo del tennis che conta, probabilmente oggi saremmo qui a celebrare le vicende di uno stimato dottore. Magari chirurgo, proprio come papà Mario. E non è detto che con sommo piacere non ci toccherà farlo in futuro, qualora il proposito ventilato di ultimare quegli studi in medicina sacrificati a suo tempo per inseguire un sogno chiamato tennis non sarà disatteso. Una volta, si spera il più tardi possibile, appesa la racchetta al chiodo.

Contradaiolo del Nicchio ma al contempo grande tifoso della Fiorentina al punto da mettere in dubbio l’esistenza stessa della battaglia di Montaperti, Paolo Lorenzi al pari di molti altri tennisti italiani di queste ultime generazioni ha avuto una crescita lenta e una maturazione un po’ tardiva. Gioca infatti il suo primo torneo professionistico nella primavera del 1999, un future a Valdengo, ma è solo a partire dal 2006, sette anni dopo, che approda tra i primi duecento giocatori al mondo con la possibilità concreta di ritagliarsi l’accesso al tabellone principale nei tornei del circuito maggiore. Cosa che puntualmente avviene ad Adelaide, in Australia, dove il battesimo del fuoco – è proprio il caso di dirlo – è tenuto da un giovane di certo avvenire come il britannico Andy Murray che finisce quel giorno per avere la meglio in tre set. Per il primo hurrà non dovranno però passare che dodici mesi quando, sulla terra di Barcellona, dal purgatorio delle qualificazioni si issa fino al secondo turno grazie alla vittoria sul connazionale Galvani al termine della consueta estenuante battaglia, prima di cedere il passo all’argentino Calleri.

La strada maestra è ormai tracciata e nel 2010, alla soglia dei trent’anni, la svolta significa Top100, tabellone principale in tre Slam su quattro, esordio nei Masters 1000 con passaggio del turno negli Internazionali d’Italia a Roma e prima convocazione da parte di Capitan Barazzutti per la sfida di Coppa Davis contro l’Olanda. Continuando ad alternare le apparizioni tra i tornei ATP e il Challenger Tour, Lorenzi prima consolida e poi migliora il proprio ranking fino a toccare nel corso del 2013 il ragguardevole personale al numero 49. Il 2014, dopo qualche piccolo infortunio, significa finalmente appuntamento con la storia. Nell’estate brasiliana si compie la settimana (quasi) perfetta che, nell’umidità appiccicosa di San Paolo, vuol dire prima storica finale ATP della carriera. All’atto conclusivo Paolino ci arriva al culmine di una cavalcata che lo vede prevalere su giocatori del calibro di Haas – numero 12 mondiale – e Monaco prima di capitolare con qualche rimpianto al termine di una lotta senza quartiere contro il tignoso argentino Delbonis. Tuttavia le “prime volte” non sono finite e l’anno solare si chiude in bellezza con la soddisfazione del passaggio del turno in un Major. Nella chiassosa cornice della Grande Mela, il quindicesimo tentativo è finalmente quello buono: Lorenzi dopo aver agevolmente liquidato la pratica Nishioka cede con l’onore delle armi al più quotato Gasquet ma il tabù è ormai sfatato.Tutto il resto è storia recente.

Dici Lorenzi e dici Challenger Tour, terreno di conquista preferenziale del senese d’acciaio…..

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