Paolo Lorenzi, la parabola vincente del Signor Challenger - Pagina 2 di 2

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Paolo Lorenzi, la parabola vincente del Signor Challenger

Venerdì per la prima volta – quella di Torino fu solo strategica – Paolo Lorenzi verrà schierato come titolare della squadra di Coppa Davis azzurra. Non è solo l’omaggio alla lunga carriera di uno dei giocatori italiani che meglio ha saputo valorizzare le proprie qualità perché a 34 anni suonati il bello deve ancora arrivare

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Lontano dall’opulenza del tennis di vertice, e in luoghi difficilmente rintracciabili sulle cartine geografiche, Paolo ha saputo costruire il proprio status di giocatore vincente. Per lui, infatti, da registrare la bellezza di 17 tornei vinti in 31 finali disputate con un bilancio di 1 a 2 in questo primissimo scorcio di 2016. Nel mirino, e nemmeno troppo lontano, c’è dunque il record del cinese di Taipei, Lu, che ad oggi recita 22 vittorie su 36 apparizioni in finale. Chissà se prima della meritata pensione Paolo potrà fregiarsi di questo onorevole primato che certifica una continuità di rendimento ad alti livelli tutt’altro che banale.

Il guerriero Lorenzi non combatte quotidianamente solo contro gli avversari che di volta in volta ne incrociano il cammino sui playground dei cinque continenti. Su di lui infatti, chissà poi per quale motivo, aleggia sempre un certo scetticismo condito da qualche luogo comune di troppo. Una mancanza generalizzata di fiducia dalla quale neanche la nostra federazione è spesso riuscita ad esimersi. Sarà forse che, per restare entro i confini di casa nostra, Paolo non può esibire il talento cristallino di un tipo bizzarro come Fognini, che se gli salta la mosca al naso rimonta senza batter ciglio due set a Nadal in uno Slam. O la fluidità dei movimenti di un colpitore eccelso come sa essere il Bolelli on-fire, quando produce vincenti a grappoli anche bendato. E nemmeno l’acume tattico di un ragioniere della racchetta come Seppi, che l’ultima scelta scellerata su un campo da tennis deve averla compiuta ai tempi degli juniores. Tuttavia, pur non potendo annoverare all’interno del proprio bagaglio una peculiarità in grado da sola di spostare gli equilibri del gioco, Lorenzi è indubbiamente un signor giocatore. Anzi, nella sua completezza a 360 gradi, è forse un esemplare unico ed irripetibile nel proprio genere.

Paolo serve bene – non è così raro veder bordate che superano i 200 chilometri orari – e si muove ancor meglio. Spinge forte senza sbagliare mai anche con il toppone di diritto, grazie al quale esplora con eguale naturalezza tutte le possibili traiettorie. Con il passare degli anni, poi, ha saputo dotarsi anche di una buona solidità con il rovescio, colpo meno performante ma oggi garanzia di tenuta anche al termine di quegli estenuanti rally che fanno sovente le fortune del senese. Interessante – sempre a proposito di rovescio – il cambio in lungolinea, un’arma destabilizzante per gli avversari ossessivamente votati alla ricerca del diritto. Inoltre, vera rarità di questi tempi stereotipati, Paolo non è affatto sprovveduto quando mette il naso nei paraggi della rete, un aspetto non trascurabile nell’economia globale della partita consolidato grazie all’impegno profuso nei tanti doppi disputati in carriera. Efficace l’esecuzione dei colpi di volo, quindi, e buono il tocco di palla in virtù di una mano inaspettatamente educata. Non alla McEnroe, per carità, ma di sicuro in giro se ne vedono di peggiori. Degno di nota è anche l’uno-due servizio diritto che pur non essendo quello implacabile di un Nadal d’annata rappresenta una preziosa fucina di punti “facili” cui ancorare il gioco nei momenti di difficoltà. Quando c’è da uscire dalla buca, insomma, bordata al servizio, piedi dentro al campo e spazzolata con il diritto a chiudere. Il tutto ad una velocità di crociera tale da scongiurare pericolosi fuori giri. Last but not least, la triade testa-cuore-gambe, vero fiore all’occhiello di casa Lorenzi. Roba che non si compra al supermercato – sempre a proposito di coloro che pensano che un Lorenzi qualsiasi lo si possa comunque diventare – che siamo certi essergli invidiata dalla stragrande maggioranza dei più talentuosi colleghi. Insieme all’intelligenza ed alla meticolosità con la quale da sempre pianifica ed ottimizza stagioni, superfici e trasferte. Con un occhio vigile alla salute, per via di quella fastidiosa allergia che lo tormenta quando le primavere si fanno calde e poco piovose.

Il bello dell’essere tifosi di un giocatore come Lorenzi – oltre al fascino impagabile dell’incoraggiare Davide che affronta Golia – è la sua affidabilità. Un motore diesel che non conosce incidenti di percorso e cedimenti strutturali. Paolino, in campo, fissa l’asticella alla propria velocità di navigazione e vince le partite che deve vincere cedendo il passo solo al cospetto di atleti che gli risultano davvero superiori. Un vero toccasana per il ranking la certezza quasi matematica di poter disporre senza soluzione di continuità degli avversari di fascia inferiore. Lorenzi è personaggio poco incline alle concessioni – spettacolo sparagnino, il suo, e regali ridotti ai minimi termini – che vive lo sport con la serenità di chi è in grado di esibire in ogni occasione la miglior versione di sé. E poco importa se la meccanica dei colpi non sia conforme ai dettami dei manuali del tennis e le gestualità non siano quelle armoniose da far sobbalzare sul divano. Del resto, a fronte di cotanta efficacia, chi l’ha mai detto che caviale e Champagne siano sempre più appetitosi di un piatto di pici senesi innaffiati da un buon Chianti?

A voler essere pignoli, un ulteriore passetto in avanti potrebbe passare attraverso l’assunzione di un baricentro meno arretrato sul campo di gioco unito ad un’attitudine complessivamente più propositiva. Considerata l’essenza di questo frenetico tennis moderno che obbliga, per quanto possibile, a mantenere saldo nelle mani il pallino delle operazioni. Tuttavia è facile rendersi conto di quanto possa essere complicato modificare schemi ed impostazioni mentali consolidati da mille battaglie anche per uno stacanovista infaticabile come Lorenzi. Che a remare per ore schiacciato contro i teloni di fondo campoci sguazza a meraviglia.

Questo 2016 “olimpico” si è aperto nel segno della continuità con la stagione precedente. Dopo l’esordio per la verità non eccelso a Doha – out con Andujar all’esordio – subito il sigillo, manco a dirlo, nel Challenger di Canberra in finale su Dodig, prima del main draw di Melbourne, sconfitto con onore al primo turno dal pensoso Dimitrov ammirato a tratti nello Slam down under. Immancabile, a seguire, l’ennesima finale nel Challenger Tour a Bucaramanga (sempre a proposito di località ignote) dove, probabilmente esausto per la semifinale maratona del giorno precedente, Lorenzi ha ceduto il passo un po’ a sorpresa al meno blasonato dei fratelli Melzer. Sono però gli ATP sudamericani a regalargli le soddisfazioni dal maggior peso specifico. A Quito, nel 250 ecuadoregno, timbra infatti con merito la seconda semifinale della carriera in un torneo del circuito maggiore. La sua è una settimana di estrema maturità impreziosita dallo scalpo di un Top20 di talento come l’irrequieto Tomic – sommerso tra l’altro da una cascata di 25 ace – e interrotta solo dall’ottima prestazione di un redivivo Bellucci. La campagna sull’amato mattone tritato è quindi proseguita a Buenos Aires. Altra nazione, nuova capitale, consueta solidità. Dopo due turni combattuti e vincenti, alla Lorenzi per intenderci, l’onore del quarto di finale nobile contro Rafa Nadal. Una buon primo set perso al tie-break prima della capitolazione e la riprova di un livello di gioco vicino ai primi della classe fanno da preludio al ritorno in Top50 a due anni di distanza con la concreta possibilità di ritoccare il best ranking nonostante la delusione del  Rio Open, ma sopratutto con la ciliegina del posto di titolare in Coppa Davis. Mica male eh?!

Lontano dai campi da gioco, non è affatto un mistero la passione di Lorenzi per Stephen King, scrittore e sceneggiatore di indubbia fama. Volendo prendere spunto dalle innumerevoli opere del maestro, si potrebbe assumere pertanto ‘Cose preziose’ come slogan consuntivo della carriera di Paolo: tanti piccoli pezzettini ad assemblare un prezioso puzzle. Siena, tuttavia, non è Castle Rock e quindi per ottenere ciò che più si desidera dalla vita non è affatto necessario vendere l’anima a nessun diabolico Leland Gaunt. Il sogno di diventare un grande giocatore gli ha richiesto solamente di mettere sul piatto della bilancia impegno, volontà, sudore e tanta passione. Cosa che, giorno dopo giorno, questo encomiabile ragazzo ha saputo fare benissimo. E a trentaquattro anni suonati, con l’entusiasmo di un debuttante e la consapevolezza di un veterano, è già pronto per la sfida contro la Svizzera, e peccato che non ci siano quei due. Alla carta di identità ci penserà un’altra volta…

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