Le mille sconfitte di Novak Djokovic

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Le mille sconfitte di Novak Djokovic

Avevamo parlato degli altri Fab. Dopo la sconfitta con Paire a Miami, è il turno di Nole

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Novak Djokovic guarda le casse di legno allineate nel magazzino. Centinaia di casse, come bare, piene di cadaveri. Se cadaveri si possono chiamare. “Io sono vivo”, pensa. “Voi siete tutti morti”. Il primo dubbio gli era venuto due anni addietro. Nel 2016, dopo la vittoria a Parigi che lo aveva reso il primo uomo dopo Rod Laver a vincere quattro Slam consecutivi. La gioia, il sollievo, la felicità di condividere il successo con la famiglia. Eppure, da qualche parte nella sua mente, un piccolo tarlo insinuava dubbi, rosicchiando via la sua sicurezza. “Non lo meriti”, sussurrava. Lo stesso tarlo che anni prima, nei tre anni trascorsi dopo il suo primo successo in uno slam, gli aveva fatto credere di non essere all’altezza dei due più grandi campioni della sua epoca, se non di sempre. “Non sono successi tuoi”, sussurrava.

Era stato bravo, negli anni successivi, a tappare la bocca a quei dubbi. A vincere partite su partite. A dominare come pochi avevano dominato nella storia, diventando numero uno, vincendo Slam su Slam e insinuando il piedistallo storico su cui si erano insediati gli altri due. Cercando di dimostrare di valere quanto loro. Più di loro. Cercando di dimostrare a sé stesso di esser fatto del loro stesso materiale. “Non sei tu”, era tornato il dubbio. Gli altri due erano fatti della materia degli eroi. Così diversi tra loro eppure entrambi predestinati. Entrambi ammessi di diritto all’Olimpo. Lui no. Lui era un uomo, senza un talento sovrannaturale, senza una tenacia ed una forza sovrannaturali. Lui era umano, capace di sbagliare, vittima di dubbi e insicurezze. E lui li aveva sfidati, cercando di essere come loro. E ci era riuscito. Aveva messo a tacere quella vocina nella sua testa ed era tornato a vincere. Per un po’ aveva dominato il tennis come loro e poi, era riuscito dove loro avevano sempre fallito. Quattro slam di fila. “Non li vali”. Era tornata la vocina.

Quella mattina a Londra, poche settimane dopo il trionfo di Parigi, si era svegliato pensando che fosse tutto un sogno. La sua vita, le sue vittorie. E soprattutto le sue sconfitte. Ricordava flash della sconfitta con Murray a Roma, con Vesely a Montecarlo, settimane prima. E con Lopez a Dubai. Cosa era successo là? Si era ritirato. Un problema agli occhi. Era stato un problema strano. Come se altre immagini, confuse, si sovrapponessero a quello che stava vedendo. Aveva visto frammenti di partite precedenti sovrapporsi agli scambi con Feliciano. E poi? Confusione negli spogliatoi. Marian sembrava preoccupato, troppo preoccupato. Una doccia, un massaggio. E poi? Cosa era successo? Qualcuno era venuto in camera sua quella notte. Mentre dormiva. O era un altro sogno? No, qualcuno era venuto. Per settimane il pensiero gli era cresciuto in testa ed era stato bravo a non farsi condizionare, a lasciare quell’episodio in un angolo della sua mente dove non poteva fare danni. Ma quella mattina, a Londra, si era convinto che tutta la sua vita fosse un falso. Un po’ come in quel film di Peter Weir con un altro uomo comune la cui vita non era sua. Poi era sceso in campo e non era riuscito a giocare. Distratto. Poco concentrato. Aveva perso da Sam Querrey lasciando il mondo di stucco. Ma non gli importava. La sua testa lo stava portando altrove. Paranoia? Forse. O forse stava davvero succedendo qualcosa.

Qualche tempo dopo aveva tentato un esperimento. Aveva finto un problema all’occhio simile a quello di Dubai. Durante un allenamento. Niente di speciale. “Mi fermo, Marian. Sono confuso, ci vedo doppio”. E poi la notte era rimasto sveglio, all’erta, in attesa. E qualcuno era venuto. Aveva sentito i passi, il brivido di terrore lungo la schiena. Era pronto a balzare fuori dal letto e aggredire l’intruso ma non ci era riuscito. Si era addormentato. O aveva perso i sensi. Nonostante avesse tentato con tutte le forze di restare sveglio. Mentre i passi dello sconosciuto si avvicinavano non era riuscito a tenere gli occhi aperti ed era sprofondato nel sonno. Da quel momento era diventata un’ossessione. Era tutto vero. C’era qualcuno che tramava alle sue spalle una trama a lui sconosciuta ma di cui era il protagonista. Aveva bisogno di aiuto. Ma da chi? Non si fidava di nessuno. Aveva la sensazione che Vajda fosse coinvolto. Forse anche sua moglie. Paranoia di nuovo? Forse, ma meglio non rischiare. Capire chi fosse responsabile e cosa gli stessero facendo era improvvisamente diventato l’unico obiettivo della sua vita. Decisamente paranoia. Improvvisamente vincere non gli importava più. Aveva iniziato a perdere sempre più spesso con giocatori che pochi mesi prima avrebbe distrutto. I rapporti con Jelena erano peggiorati. Era lontano e distratto. Diffidente. Con Marian anche. Svogliato e sospettoso con tutti. Non si fidava di nessuno e non andava d’accordo con nessuno. Eccetto Boris!

Boris viveva in un mondo suo, poco in contatto con la realtà. Un episodio in particolare gli aveva fatto capire che Boris era all’oscuro della cospirazione. Qualche tempo prima Boris aveva notato un uomo dall’aspetto sospetto, entrare nella camera d’albergo di Nole, ‘come un detective in un film di serie B’, aveva detto. Ne avevano parlato e poi avevano dimenticato il tutto. Ora Boris poteva essergli utile. Lui aveva la libertà d’azione e la spavalderia per scoprire qualcosa. Convinse Boris a lasciare il suo posto di allenatore per diventare il suo investigatore privato. A volte lo seguiva in qualche torneo. Più spesso spariva per mesi seguendo qualche indizio. Spesso in alberghi di lusso di isole tropicali. Boris. Finché un giorno se ne venne fuori con un indizio importante. Solido. Forse anche decisivo. Erano a casa di Nole ma da soli. Yelena e Stefan erano fuori a godere del clima e dell’aria di mare. Boris aveva visto Marian Vajda e Miljan Amanovic confabulare con degli individui dall’aspetto poco rassicurante.

“Ecco le foto”, aveva esclamato Boris, baldanzoso come non mai, porgendogli il telefonino. “Fatte in centro a Belgrado, tre giorni fa”. Una mezza dozzina di foto mosse e sfocate mostrava Vajda e Amanovic seduti al tavolo di un bar con due tizi grandi e grossi abbigliati come membri di una grunge band degli anni novanta, capelli lunghi e camicia a scacchi compresi. “Non è che si capisca molto”. Nole restituì il cellulare. “È vero. Ma ammetterai che quei due tizi sembrano decisamente fuori posto”. “Anacronistici quasi, ma questo non significa nulla”. “Ah!”, esclamò Boris. “Il bello viene dopo. Li ho seguiti in macchina. I due tizi, non Marian e Miljan. Per un bel po’. Hanno guidato un vecchio furgone fino ad un capannone abbandonato in mezzo alla campagna ungherese, non lontano dal lago Balaton. Sono rimasti là dentro per un bel po’. Poi se ne sono andati ed io mi sono potuto avvicinare al capannone”. Boris gongolava sorridente pieno di autocompiacimento. “E?”. “Non era molto sorvegliato, niente videocamere sull’esterno, ma non sono riuscito ad entrare. Una sola via d’accesso, grande abbastanza per un camion, ma ben chiusa e blindata. Sono riuscito solo a dare una sbirciatina dentro da una finestrella sul seminterrato. Il seminterrato era tipo un locale caldaie con tanti macchinari. Ma macchinari ben strani. Alcuni sembravano server di qualche computer cluster. Altri non ho proprio idea di cosa fossero. Ed era pieno”. “Fa vedere. Hai fatto delle foto?”. “Niente foto. Quattro ore a guidare dietro a quei due, due ore ad aspettare. Il cellulare si è scaricato. Ma il magazzino mica se ne può andare. So dove si trova. Ti ci posso portare quando vuoi”. “Ok, si parte domattina all’alba. “Eh? E come?”. “In macchina. Partenza da Montecarlo alle 6 del mattino, arriviamo sul posto nel pomeriggio. Troviamo un albergo e ci appostiamo a sorvegliare il capannone finchè non succede qualcosa”. “E se non succede niente? Hai impegni, allenamenti, tornei. Non puoi sparire così per giorni, magari settimane”. “Hai ragione. Se non scopriamo nulla entro domenica io torno che settimana prossima devo giocare a Madrid. Tu però resti. E sorvegli il posto ogni giorno finché non succede qualcosa”. “Ma…”. “Domattina alle sei. Ti passo a prendere. Faccio io il primo turno alla guida”.

Il capannone era ancora lì, in mezzo alla campagna, senza nessuno attorno e presumibilmente dentro. Immobile e imperscrutabile. Entrare era impossibile ma l’attesa non era un problema. Passati un paio di giorni Nole fece rotta su Madrid lasciando Boris a fare la guardia. Ogni sera un messaggio del tedesco lo aggiornava sulla situazione: “Anche oggi nulla”. Sempre lo stesso messaggio, giorno dopo giorno, per due settimane. Forse il capannone non aveva alcuna importanza in quella vicenda. Dopo tutto l’indizio si basava sull’intuito di Boris che aveva seguito due balordi nella campagna ungherese. Nole stava per perdere la speranza quando finalmente arrivò un messaggio diverso da parte di Boris. Una foto. La foto di una cassa di legno, scattata dal posto dove Boris si trovava appostato e nascosto. La cassa era abbandonata, a terra, davanti alla saracinesca del capannone. “Portata da un camion. Scaricata pochi minuti fa. Camion partito. Nessuno in giro. Che faccio? Boris”. L’eccitazione! L’adrenalina! Nole sapeva di dover scendere in campo a minuti. Che fare? “Se riesci avvicinati e manda altre foto. Arrivo prima possibile”. Poco più di un’ora dopo Nole era in macchina, guidando a tutta velocità da Roma verso l’Ungheria. Un altra foto, mandata da Boris mentre lui era in campo, mostrava una scritta stampata sulla cassa: Madrid – 2017.

A notte fonda la cassa era ancora lì. Boris era ancora lì. “È troppo grande e pesante da trasportare. Potrebbe essere una bara. Che facciamo?”, chiese il tedesco. “Non so. Proviamo ad aprirla?”. “E come?”. “Hai un piede di porco?”. “Ti pare? Per chi mi hai preso? Sono un ex tennista, miliardario, non vado in giro con attrezzi da scassinatore”. “Ok, ok. Guardo in macchina”. Usando un crick ed un cuneo di metallo i due riuscirono a scardinare una delle pareti della cassa. Dentro ci trovarono segatura, materiale da imballaggio, trucioli e polistirolo. Boris osservava da lontano mentre Nole frugava nella cassa fino a trovare il contenuto. Un braccio, umano, avvolto in plastica simile a quella per imballare i cibi. Il braccio apparteneva ad un corpo umano, integro, tutto avvolto nella plastica trasparente. Nole lo sollevò quanto basta per vederlo in faccia e si trovò a scrutare la sua faccia. Un altro Nole, addormentato o morto. Dentro la cassa. Avvolto nella plastica. “Aaaah!”. “Che succede?”, chiese Boris accorrendo. “Sono io!”. “Lo so che sei tu. Ti vedo bene”. “No. Non io io. Dentro la bara… la cassa. Sono io. Boris si avvicinò a scrutare il cadavere nella cassa per poi ritrarsi, pallido e silenzioso. “Sei proprio tu”.

Nelle settimane seguenti Nole si fece progressivamente taciturno e scontroso. La mente costantemente rivolta a quello che aveva visto nella cassa, in cerca di una spiegazione. Alla fine, dopo la sconfitta a Parigi, un anno dopo che aveva raggiunto una delle più alte vette della storia del tennis, si decise ad affrontare la situazione. Trovò Vajda comodamente seduto sul divano. “So tutto”, decise di tagliare corto. Marian lo guardò perplesso per un secondo, poi comprese di cosa si trattava. “Le casse?”, sembrava quasi sollevato. “Sì. Ho visto le casse, ho visto cosa c’è dentro”. “E hai capito…”. “Sì”. “Come ci sei arrivato?”. “Ci è voluto tempo. Alcuni incidenti strani, altre cose che non sapevo spiegarmi. Ho fatto ricerche. E li ho trovati. Li ho visti Marian. Inutile negare”. “Non ho nessuna intenzione di negare o di mentirti, Nole”. “Cosa sono? Cloni? Robot? Ormai ho capito. Non ero io. Non sono mai stato io”. “Che stai dicendo?”. Le mie vittorie? Sono stati quei robot a vincere. Non io. “Sono stati i robot a vincere? Che stai dicendo? Che cosa credi di aver capito, Nole?”. “Potevate mettermi nella loro testa a piacimento e farli giocare al posto mio. Più forti, più resistenti, più potenti. È così che sono riuscito a battere quei due fenomeni. E così ho vinto quattro slam di fila. Non ero davvero io”.

Vajda sorrise. “Cosa ci trovi di divertente, Marian?”. “Nole, Nole. Non hai capito affatto. Le vittorie sono tutte tue. Eri tu in campo e sei stato tu a raggiungere vette che neanche gli altri due hanno raggiunto. I ‘robot’, se così li vuoi chiamare, non giocano a tennis. Credo”. “E allora quei corpi che cosa sono?”. “Sono… corpi. Cloni. Copie di te fatte in determinati momenti. Ce n’è uno per ogni volta che hai perso una partita. Ma sono vuoti. Morti”. “A che scopo?”. “È… complicato. Non te lo posso spiegare. Anch’io non me lo so spiegare fino in fondo”. “Marian come hai potuto farmi una cosa simile? Quanto ti hanno dato?”. “Denaro? Credi che avrei mentito a te e ti avrei messo in una simile situazione per denaro? Io ti amo come un figlio, Nole. Se ho fatto quello che ho fatto è perché era l’unica cosa giusta da fare. Tu al posto mio avresti fatto lo stesso”. “Quale cosa giusta? Che cosa hai fatto? A che servono quei corpi?”. “Stai calmo Nole. Ti ho detto che anch’io non capisco a fondo la situazione. Ma quei cloni sono a fin di bene. Il loro scopo è salvare vite”. “Salvare vite? Dove? In che modo?”. “Non lo so Nole. In una specie di guerra credo. Non so rispondere a queste domande.”

Nole parve calmarsi. Sedendosi sul divano emise un sospiro, quasi sollevato al pensiero che i suoi incredibili risultati fossero davvero suoi. “Chi li ha… creati? Costruiti? Cresciuti?”, domandò dopo qualche minuto. “Non possiamo saperlo. Io ho incontrato solo due emissari. Non ho mai visto i creatori ma ti assicuro che sono capaci di cose che noi umani non possiamo immaginare”. “Stai dicendo che non sono umani?”. “Precisamente”. “Quindi le vite da salvare…”. “Non sono vite umane. I cloni sono destinati ad una guerra, ma non qui. Non sulla terra. Non so che guerra e non so come li useranno, ma le cose che mi hanno mostrato sono abbastanza convincenti”. “Ma perché io?”. “Non sei l’unico, Nole. Hanno clonato anche altri”. “Altri? Chi?”. “Altri due”. “Tennisti?”. “Tennisti”. Nole annuisce. “Tre tennisti clonati per una guerra interplanetaria?”. “Sembrerebbe”. “Ma perché?”. “Forse gli piace il tennis”.

Il resto dell’anno passa in un lampo. Niente tennis ma un piano, preparato con calma, con l’aiuto di Vajda, per andare fino in fondo. Una lettera scritta a Roger. Una lettera scritta a Rafa. Alcune bugie dette alla stampa. Il più difficile addio della sua vita, a Yelena, Stefan e Tara. Con la speranza che non sia un addio. Ed il ritorno al magazzino. Poco prima di capodanno. Due giorni di appostamento, al freddo, davanti al capannone. Attesa e attesa. Ogni giorno una telefonata alla famiglia ed un messaggio da Boris che sta cercando di rintracciare i due emissari. Il terzo giorno il messaggio di Boris dice: ‘Stiamo arrivando. Tienti pronto’. Alla fine il camion arriva. A bordo ci sono i due grunge insieme a Marian e Boris. Boris sta litigando con Marian, da dove è nascosto Nole non riesce a sentire cosa dicono. I due grunge alzano la saracinesca del capannone ed entrano insieme a Boris. Marian resta fuori guardandosi intorno con aria preoccupata. Scruta nel magazzino, scruta la strada ed estrae il cellulare. Nole riceve il messaggio di Marian che dice: ‘Adesso!’. Corre fuori dal nascondiglio e fa per entrare nel capannone. Marian lo guarda con le lacrime agli occhi. Lo abbraccia forte per un secondo.

“Nell’angolo di là” indica, “fai presto, torneranno a momenti”. Nole entra e si nasconde. Poco dopo Boris e gli altri due tornano. Boris ha l’aria più rilassata, si guarda attorno continuamente. I due escono mentre Boris rimane indietro di qualche passo. Nole sporge la testa quanto basta per essere visto dal tedesco. Boris sorride e con quel suo accento teutonico urla: “Grazie ancora, ragazzi. Tutto a posto. Possiamo andare”. Pochi secondi dopo la saracinesca si abbassa ed il camion riparte, lasciando Nole da solo nel magazzino. Novak Djokovic guarda le casse di legno allineate nel magazzino. Centinaia di casse, come bare, piene di cadaveri. Ogni cassa porta il nome di un luogo e una data. Nole sa cosa c’è dentro. “Mi immaginavo qualcosa di più sofisticato”, pensa. “Con apparati elettronici. Monitor e display vari. Certo non mi immaginavo delle casse di legno. Come per il conte Dracula”. Nole si aggira per il magazzino, va negli uffici in cerca di informazioni ma i computer non si accendono. Dopo qualche ora il capannone è scosso da una sottile vibrazione accompagnata dalla sensazione di essere spinto dolcemente ma con fermezza contro il pavimento. Nole si guarda attorno, torna verso le casse. “Non c’è nessuno qui, eccetto i cadaveri. Ormai è chiaro”. Parla tra sé e sé. Guardandosi attorno scorge una piccola finestra su una parete, ad un paio di metri da terra. Spingendo un paio di casse fino alla base del muro riesce ad arrampicarsi per guardare fuori. Sale sulle casse e si avvicina alla finestra. Fuori il buio ed un cielo stellato. Un cielo in continuo mutamento, con stelle sconosciute. Novak appoggia la mano alla parete accanto alla finestra. Solo pochi centimetri di muro lo separano dal vuoto dello spazio. “Sto arrivando”, pensa.

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