L’amabile, e vincente, crisi di Novak Djokovic

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L’amabile, e vincente, crisi di Novak Djokovic

“A proposito dell’incredibile maratona vincente di Novak Djokovic contro Roger Federer nella finale di Wimbledon”. Ubitennis propone la traduzione integrale dell’articolo di Bryan Phillips pubblicato da ‘The Ringer’

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Novak Djokovic - Wimbledon 2019 (foto via Twitter, @wimbledon)
 

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Novak Djokovic ha la capacità di vincere anche mentre sta perdendo. Possiede una dote che gli consente di subire pazientemente il gioco più devastante dell’avversario, facendo giusto ciò che serve per rimanere in vita, e di scegliere il momento più adatto per restituire tutto. È capace di perdere uno scambio spettacolare e poi, mentre i commentatori sono ancora impegnati a magnificare il rivale, vincere quasi in anonimato il punto successivo. Uno pensa che stia per essere spazzato via dal campo, ma poi lui azzecca un paio di vincenti di dritto e te lo ritrovi ad un passo dalla vittoria del set.

Il tennis è un gioco di attimi nascosti dentro a correnti di alti e bassi e non credo di aver mai visto un giocatore in grado di illustrare questa dinamica in modo migliore di Novak Djokovic. Da un lato, Novak è perfettamente in grado di dominare in maniera clamorosa, meglio di qualsiasi giocatore sia mai esistito, e di smontare gli avversari con chirurgica spietatezza, come ha fatto ad esempio mercoledì scorso con il povero David Goffin, nei quarti di finale di Wimbledon: ha vinto il secondo set 6-0 ed è sembrato addirittura un punteggio troppo generoso. Sa esplodere dei colpi che lasciano increduli davanti alla TV. Ma è l’altra sua faccia, il suo lato “oscuro” fatto di resistenza tattica, che lo rende il giocatore più temibile dell’ultimo decennio e, probabilmente, di tutti i tempi.

Novak è un genio nel districarsi nelle fasi negative, in modo da assicurarsi le migliori chance per capitalizzare i momenti chiave. Il miglior esempio di questa attitudine di Djokovic si è visto nella finale della scorsa domenica a Wimbledon, nella quale ha retto per cinque ore l’urto con Roger Federer – il giocatore più vincente di sempre nei tornei major, idolo delle folle internazionali e inimitabile leggenda dello sport – vincendo 7-6 (5), 1-6, 7-6 (4), 4-6, 13-12 (3). Dico, rileggiamo un attimo il punteggio. È ridicolo, no? 13-12 non è un set di tennis, ha più a che fare con un compito per casa di matematica delle scuole medie. Eppure, nascosta tra quella sequela di numeri e parentesi, sta scritta la storia della perseveranza quasi soprannaturale di Djokovic, che ben potrebbe non avere eguali nella storia del tennis.

Mettiamo le carte in tavola. Chiunque stia leggendo queste righe e non sia originario di una ristrettissima zona geografica dell’est Europa, molto probabilmente avrà parteggiato per Federer, oggi. Altrettanto probabilmente, non amerà particolarmente Djokovic. L’adorazione per Federer è diventata – talvolta stucchevolmente – la norma sia per i fan occasionali che per gli esperti e Djokovic non è mai stato granché amato. Per i suoi tifosi, la sua relativa impopolarità è dovuta allo sciovinismo del pubblico americano e dell’ovest europeo, alla riluttanza di certi fans privilegiati provenienti da nazioni tradizionalmente dedite al tennis nei confronti di un serbo che s’imbucava senza invito nella torre di vetro di Nadal e Federer.

Per chiunque altro, è la conseguenza del suo essere in qualche modo arrogante e stressante da guardare, del suo apparente bisogno un po’ eccessivo di essere amato, del fatto che si strappi la maglia quando è furioso e del modo in cui ammicca, sbraita e gigioneggia con il pubblico, con atteggiamenti non richiesti e non graditi. Possiamo dire che ambedue le fazioni hanno la loro parte di ragione. In ogni caso, non c’è nessuno con cui abbia parlato oggi che non tifasse per Federer. Io stesso ho tifato per Federer. Nick Kyrgios, che sa ben più di un paio di cose sul pubblico e sul suo affetto, tifava per Federer. Lo stesso Kyrgios che lo scorso maggio sintetizzò alla perfezione l’opinione diffusa tra i fan in una chiacchierata durante un podcast, quando disse che Djokovic aveva “un’ossessione malata di essere amato”. “Vuole essere come Roger”, dichiarò, e aggiunse “è molto imbarazzante”. Ieri, Nick ha twittato “Federer, per favore, vinci!”, seguito da un emoji di un fantasmino.

Novak Djokovic – Wimbledon 2019 (foto via Twitter, @wimbledon)

Per cui, se avete appena finito di assistere ad una finale esaltante, ma probante, durata cinque ore, compreso il primo tie-break al quinto set della storia dell’All England Club – sul quale McEnroe ha espresso più di qualche perplessità dalla cabina di commento – se avete appena visto il giocatore che amate live su ESPN con il cuore spezzato, è comprensibile che non siate dell’umore adatto per leggere una disquisizione sulla feroce forza mentale dell’avversario che lo ha battuto. E questo è, in essenza, il dramma di Djokovic. È arrivato un po’ troppo presto o un po’ troppo tardi sulla scena della rivalità tra Federer e Nadal – troppo tardi per essere un coprotagonista della favola, troppo presto perché questa potesse finire prima di lui – e di conseguenza si è sempre sentito come un estraneo, nonostante abbia vinto 16 majors e sia stato il miglior giocatore del mondo per buona parte dell’ultimo decennio. (Con l’eccezione di alcuni inciampi imbarazzanti e qualche misterioso infortunio, il suo picco prestazionale è probabilmente durato di più di quello di Federer).

I tifosi di tennis lo applaudono quasi a malincuore e, anche nelle sue giornate migliori, c’è quasi sempre la sensazione che il titolo debba essere “Federer perde” anziché “Djokovic vince”. E questo è un vero peccato, perché Djokovic, anche se qualcuno di voi gli tifa contro, è diventato il personaggio più affascinante del tennis. La sua vittoria oggi è stata così implausibile da sembrare assurda, ma è anche emblematica delle sue caratteristiche ed illustra perfettamente il percorso che ha dovuto compiere per trasformare le sue debolezze in punti di forza. È sufficiente dare un’occhiata alle statistiche.

Federer (quasi unanimemente considerato il più grande giocatore di tutti i tempi) ha vinto 36 games in una finale Slam… e ha perso. Federer ha vinto almeno sei games in tutti e cinque i set… e ha perso. Federer non ha dovuto affrontare nessun break point a sfavore per i primi tre set… e ha perso (peraltro, perdendo due di quei primi tre set). Federer ha vinto più games di Djokovic: 36-32. Ha vinto più punti di Djokovic: 218-204. Ha servito meglio di Djokovic sotto ogni punto di vista: più ace (25-10), meno doppi falli (6-9), una percentuale più alta di prime palle in campo (63%-62%) e percentuali migliori di punti vinti sia con le prime palle di servizio (79% contro 74%), che con le seconde (51%-47%). Ha anche vinto più punti a rete (51-24) con un rendimento globalmente più alto (78% contro 63%). Ha brekkato più spesso (7 volte contro 3) convertendo una percentuale più alta di palle break (54%-38%).

Djokovic è probabilmente il miglior ribattitore della storia del tennis, eppure, in finale, Federer ha vinto più punti in risposta (79 contro 64), con una miglior percentuale (36%-32%). Lo svizzero ha commesso più errori gratuiti di Djokovic (79-64) – il suo dritto è stato traballante all’inizio del match e il suo rovescio, ultimamente assai solido, è diventato più incostante all’approssimarsi della quinta ora di gioco – ma ha ampiamente compensato il deficit mettendo a segno 40 vincenti in più del serbo, 94-54. Federer è stato il giocatore migliore in praticamente qualsiasi categoria immaginabile, eppure ha perso. Se si fosse guardata la partita senza tenere d’occhio il punteggio, e magari non conoscendo la storia di Djokovic in match come questo, si avrebbe avuto l’impressione di un dominio di Federer. (Essendo invece a conoscenza della storia di Djokovic, probabilmente, non si avrebbe mai avuto la sensazione di una possibile vittoria dello svizzero, nemmeno quando ha avuto a disposizione due match point).

Novak Djokovic e Roger Federer – Wimbledon 2019 (foto via Twitter, @wimbledon)

Federer è stato più propositivo, più aggressivo e più propenso a dar sfoggio di colpi memorabili; ha passato il pomeriggio correndo a rete, depositando soffici drop-shots in posizioni impossibili e mettendo a segno ace. E ha perso. Federer ha dominato il gioco di correnti, ma non è riuscito ad impedire a Djokovic di comandare il gioco degli attimi. Dopo esser stato spazzato via dal campo nel secondo set, il serbo ha eretto un muro attorno a sé, si è tolto pressione di dosso ed ha ignorato il pubblico, mettendo le basi per un terzo set che è sembrato non avere ritmo. Federer aveva il momentum dalla sua e Djokovic, anziché attaccare, si è messo a faticare e difendere. Incapace di scalfire i turni di battuta dello svizzero, ha badato a sopravvivere per arrivare al tie break. E una volta arrivatoci, è stato capace di innalzare abbastanza il suo gioco, da arrivare per primo a sette punti. È stata un’esibizione di tennis tirato, brutale e poco poetico, con nessun margine di errore, ma ce l’ha fatta, diventando così il primo uomo a vincere Wimbledon avendo dovuto annullare match point a sfavore dai tempi di Bob Falkenburg nel 1948.

Ciò che affascina di questa storia è che è possibile tracciare un collegamento diretto tra la forza mentale quasi indistruttibile di Djokovic e i tratti caratteriali che gli hanno impedito di essere maggiormente amato dai fan. Supponiamo che Kyrgios avesse ragione e che Djokovic sia davvero disperatamente alla ricerca di essere benvoluto dai tifosi. Dovunque Federer vada, la folla lo adora; ha giocato con il vantaggio del pubblico a favore per l’intera durata del suo infinito tramonto, come nessun altro prima di lui. Quando vince, la folla condivide ed esalta la sua gioia; quando perde gli chiede di tornare. Sotto di lui c’è una rete, come quella che gli sta di fronte quando gioca, ed affronta ogni match con un grande supporto emozionale.

Ma consideriamo la situazione di Djokovic. Vorrebbe quel tipo di affetto, ma non lo riceve quasi mai. Dopo aver vinto Wimbledon, mentre avanzava impettito ed ammiccava alla folla o mentre si esibiva nel suo rito di mangiare un filo d’erba, l’applauso è stato… cordiale. Prima di vincerlo, quasi tutti, nello stadio o tra gli spettatori davanti al televisore, milioni di persone in tutto il globo, quasi pregavano che lui perdesse. Il giocatore che più di tutti brama l’amore della folla è proprio colui al quale la folla, testardamente, seguita a negarlo. Mi spiace, ma dev’essere davvero struggente. In un certo senso, è come se giocasse in un incubo, partita dopo partita. Una persona normale, probabilmente, collasserebbe. Cosa c’è di sbagliato in me? Perché non mi amano? Ma Djokovic, in qualche modo, ha tramutato questo scenario in una ricetta per continuare a vincere.

È forse sbagliato dire che Djokovic sia stato in grado di sopravvivere alle avversità, e di farlo così bene nei momenti di maggior stress, perché essenzialmente è abituato ad affrontare difficoltà e pressioni di continuo? Che sia diventato il giocatore mentalmente più forte della storia, pur essendo in origine uno dei più fragili? Il gioco di Federer s’è fatto confusionario nei momenti cruciali della finale – i due match point a favore nel quinto set, i tre tie break- e certamente è sembrato sopraffatto dalla pressione. È parso visibilmente contratto, come se stesse pensando: non rovinare tutto; tutte queste persone tifano per te. Poi ha cominciato a commettere errori da fondo. Djokovic, invece, è rimasto impassibile.

Novak Djokovic – Wimbledon 2019 (foto via Twitter, @wimbledon)

Sa come rimanere calmo e giocare con intelligenza quando i colpi dell’avversario lo mettono sotto, perché è abituato a percepire quando la situazione gli è sfavorevole. Sa come capitalizzare nei momenti di crisi, perché è come se si trovasse perennemente in uno stato di mini-crisi. Ha imparato a fare affidamento su sé stesso perché non può contare sul pubblico. Tutto ciò, naturalmente, è una teoria, perché non sono in grado di leggere la mente di Djokovic, ma mi sembra in grado di spiegare perfettamente partite come quella di oggi, in cui Novak riesce a vincere apparentemente contro ad ogni logica tennistica.

Vorrebbe che noi lo amassimo, ma noi non lo facciamo; quindi lui ha trovato un modo per superare anche noi, oltre al suo avversario. Augurandoci che lui perdesse, lo abbiamo aiutato ad imparare a vincere.

Traduzione a cura di Filippo Ambrosi

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