US Open, COVID edition: istruzioni per l'uso

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US Open, COVID edition: istruzioni per l’uso

Il direttore medico della USTA spiega quali sono le condizioni che dovranno essere rispettate per far svolgere il torneo. I protocolli sanitari potrebbero rendere impraticabile la disputa a porte chiuse

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US Open 2019 (foto via Twitter, @usopen)
 

A questo punto dell’emergenza, si tratta sicuramente della domanda che tutti si pongono con maggiore insistenza: si giocherà lo US Open? Se sì, si disputerà nella data prevista oppure sarà posticipato? E si rimarrà a New York, in questo momento travolta dall’epidemia di COVID-19, oppure si traslocherà? Sarà a porte chiuse?

Tante domande che al momento hanno poche risposte certe, la maggior parte delle quali sono state riassunte dall’articolo di Alessandro Stella a inizio settimana. La Federazione Americana USTA ha instaurato un comitato tecnico scientifico che tra qualche settimana fornirà il proprio parere sulla possibilità di tenere il quarto Slam stagionale (almeno prima che il Roland Garros si auto-spostasse a ottobre) e a quali condizioni. Tra i membri di questo comitato c’è anche il Dr Brian Hainline, che dal 1992 al 2007 è stato Chief Medical Officer dello US Open, per poi diventare Chief Medical Officer della USTA e, più di recente, il massimo responsabile medico per la National Collegiate Athletic Association (NCAA), l’associazione che governa tutto lo sport a livello di college negli Stati Uniti.

La prestigiosa rivista Sports Illustrated ha parlato con il Dr Hainline la settimana scorsa per fare il punto della situazione e cercare di capire a che tipo di scenario giocatori e appassionati potrebbero trovarsi davanti a fine agosto in caso di svolgimento del torneo. “Le due condizioni da sviluppare rapidamente per far si che si possa giocare il torneo sono il monitoraggio e test su larga scala. Sono convinto che nel prossimo mese ci sarà uno sviluppo notevole delle capacità di effettuare test che possano dare risultati rapidi. Parliamo di PCM testing (Phase-contrast microscopy), così come i test sierologici che possono identificare la prima risposta immunitaria relativa alla presenza del virus, oppure i test IGM per identificare la presenza di immunoglobuline o anticorpi che rappresentano l’immunità al virus”.

Ammesso e non concesso che come dice il Dr Hainline nel prossimo mese sarà possibile sviluppare la capacità di effettuare test su larga scala, rimane comunque da capire se sarà possibile organizzarsi in modo da avere a disposizione la capacità di realizzare tutti i test necessari nella sede del torneo. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza dello sforzo richiesto, basta considerare che in occasione della riunione UFC 249 di “mixed martial arts” tenutasi a Jacksonville, Florida la settimana scorsa sono stati effettuati circa 1200 test per garantire la sicurezza di tutti i presenti, ovvero circa una trentina di atleti e circa 150 membri dello staff (contro i 300 che solitamente vengono utilizzati per una riunione di questo tipo). “Stiamo probabilmente parlando di una spesa di almeno 1000 dollari a persona per tutti i test” ha ipotizzato il Dr Hainline, e considerando la quantità di giocatori, allenatori, manager, addetti e giornalisti che sono necessari per far funzionare un torneo come lo US Open si può capire come il conto delle misure sanitarie potrebbe essere particolarmente salato.

Sarà fondamentale definire in maniera estremamente rigorosa una “inner bubble (una bolla interna), composta da tutte le persone necessarie a mettere in scena la manifestazione, e una eventuale “outer bubble (bolla esterna) per tutte le altre persone presenti all’impianto, che siano pubblico o altro – ha continuato il Dr Hainline – Per ognuna di queste bolle sarà necessario creare un protocollo molto preciso che prevede una descrizione delle procedure da seguire e la tempistica dei test”.

In definitiva, sempre secondo il Dr Hainline, perché ci sia qualche possibilità di disputare lo US Open sarà necessario che l’Amministrazione della città di New York rimuova il lock-down tuttora in vigore, che tutti i membri della bolla interna siano disposti ad effettuare una quarantena di 14 giorni negli Stati Uniti prima dell’inizio del torneo (cosa che non dovrebbe essere un problema per i tennisti), fare in modo che ogni giocatore giochi esclusivamente con le proprie palle, e che ogni giocatore accetti di essere testato prima di ogni partita.

Roger Federer – US Open 2019 (via Twitter, @usopen)

Come si può vedere si tratta di un buon numero di “se”, e la lista non è per nulla esaustiva. Non è infatti improbabile che tutta la “bolla interna” debba alloggiare in alberghi predeterminati nel Queens o comunque lontani da Manhattan. Per quest’anno dunque niente ristoranti, niente teatri, niente shopping, niente New York experience.

Altra questione tutta da definire è poi quella della “bolla esterna”, che potrebbe includere anche il pubblico. Al momento già la definizione di un protocollo per la bolla interna potrebbe richiedere sufficienti risorse finanziarie ed energie da rendere improponibile l’ipotesi di avere spettatori allo US Open 2020. Fatto questo che sposta notevolmente il bilancio economico del torneo.

Senza spettatori infatti vengono meno gli introiti della biglietteria, delle concessioni di cibo e bevande e soprattutto il denaro della hospitality per gli sponsor, una voce di bilancio estremamente importante per gli eventi tennistici. Secondo quanto riferito da Bret McCormick dello Sports Business Journal, per un torneo di piccole dimensioni come potrebbe essere un ATP 250 i diritti televisivi rappresentano poco più del 10% del fatturato totale, mentre tutto il resto è dipendente dalla presenza di spettatori sugli spalti. Disputando il torneo a porte chiuse sarebbe certamente possibile risparmiare qualcosa sulle spese (costruzione di tribune temporanee, villaggio commerciale, uscieri, etc…), ma i costi supplementari per mettere in piedi un protocollo sanitario adeguato alla “bolla interna” vanificherebbe quei risparmi e andrebbe a mangiarsi quasi tutti i proventi dai diritti TV, rendendo quindi economicamente sconveniente la disputa del torneo a porte chiuse.

A conti fatti, dunque, il numero di tornei per i quali un’edizione senza pubblico avrebbe senso dal punto di vista del bilancio si può contare sulle dita delle mani: gli Slam, qualche Masters 1000, le Finals ATP e WTA e la Coppa Davis. Nel loro caso la consistenza dei contratti per i diritti televisivi possono far sì che valga la pena giocare solamente per gli spettatori da casa. Per gli altri davvero non ha senso pensare di giocare a botteghini chiusi, a meno di non avere sovvenzioni da parte di enti pubblici o di altro tipo.

Mentre un barlume di ottimismo sembra illuminare l’Italia che prova faticosamente a ripartire dopo quasi due mesi di economia ibernata, il conto alla rovescia continua inesorabile per la stagione tennistica che si trova a combattere contro lo spettro di una cancellazione totale. Il primo vero passaggio da brivido sarà quello dello US Open, seguito a breve dal Roland Garros: la disputa dei due Slam potrebbe salvare la stagione e fornire a tutti gli altri tornei un manuale d’istruzioni su come gestire la nuova realtà nel tennis ai tempi del Coronavirus.

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