A Kyrgios non servono allenatori. Ma quanto (e quando) serve un coach?

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A Kyrgios non servono allenatori. Ma quanto (e quando) serve un coach?

“Personalmente penso che ingaggiare un allenatore sia una perdita di denaro”. Parola di Nick Kyrgios. Ma, a parte il caso limite dell’australiano, qual è la reale importanza di un coach per un tennista ATP?

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Roger Federer e Ivan Ljubicic - Madrid 2019 (foto Roberto Dell'Olivo)
 

“Personalmente penso che ingaggiare un coach sia uno spreco di soldi perché costano troppo rispetto a quello che servono. E per quanto mi riguarda, io non punto a vincere i tornei dello Slam. Io voglio fare le cose alla mia maniera: giocare e divertirmi. Per me avere un coach non ha senso. Sarei quasi dispiaciuto di fargli perdere il suo tempo. Sarebbe un incubo per lui. Inoltre, penso di essere ormai troppo avanti nella carriera per avere un coach. Perché sono troppo convinto della mia maniera di fare le cose e non ho voglia di ascoltare nessuno che mi dia consigli, ad essere sincero”.

Parole e musica dell’uomo più controverso nel mondo del tennis, Nick Kyrgios, durante una chiacchierata con l’amico Elliot Loney. La stessa in cui ha raccontato di aver battuto Rafa Nadal da ubriaco. 

Kyrgios in questo passaggio non sostiene che l’importanza del coach sia minima o sopravvalutata in senso assoluto. Piuttosto che nel suo caso, avere una persona nella propria panchina sarebbe inutile dato che non vuole veramente puntare a conquistare i tornei più importanti e va in campo più per divertirsi che per vincere. Non fa una piega in effetti, considerando che un allenatore spera di poter ottenere il massimo dal giocatore con il quale lavora e portarlo a raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi. Oltre che per propria missione, anche per il proprio profitto.

Nick Kyrgios – Australian Open 2020 (via Twitter, @AustralianOpen)

Ma lo spiazzante australiano, nella sua lucida follia, offre sempre qualche spunto di riflessione interessante. Come probabilmente potrebbero fare – o hanno già fatto – alcuni giornalisti a caccia del titolo acchiappa-commenti, travisiamo le sue parole e chiediamoci: ma quanto servono i coach nei piani alti del circuito ATP? È così strettamente necessario avere un allenatore?

La domanda potrebbe suonare retorica dato che praticamente tutti i giocatori hanno (almeno) un coach al proprio fianco. D’altro canto, cosa può dire un coach, per quanto bravo, a un individuo che ha fatto del tennis la propria vita da quando era un bambino? Qualcuno se la sentirebbe di dire a un ragazzo che tira la prima di servizio a 210 chilometri orari, con un movimento perfezionato nel corso di lunghissime sessioni di allenamento e misurato in efficacia contro i migliori ribattitori del mondo: “No, guarda che non stai caricando bene le gambe”? E soprattutto, quante possibilità avrebbe di essere preso sul serio – almeno sulle prime?

La risposta è più articolata di quanto sembri. In breve, si potrebbe riassumere che serve il coach giusto nel momento giusto per il giocatore giusto. Le qualità di un coach devono combaciare con le necessità (ma anche intenzioni, come dimostra il caso di Kyrgios) del tennista in quel preciso momento. Naturalmente allenatori diversi hanno diverse qualità, così come in tutti gli sport, compresi quelli di squadra. Pensiamo solo alla recente grande rivalità tra Pep Guardiola, un vero e proprio innovatore nella maniera di pensare il calcio, e Mourinho, un condottiero capace di motivare i suoi uomini a morire sul campo per lui. 

Nel tennis ci sono varie categorie di allenatore. C’è per l’appunto l’allenatore-tecnico. In uno sport come il tennis la tecnica è una componente fondamentale, anche ad altissimi livelli. Un gomito un po’ più alto o un po’ più basso può fare la differenza tra un colpo solidissimo e uno ballerino. In questa categoria Riccardo Piatti è un maestro assoluto. Lui stesso di recente in un’intervista ha sottolineato l’enorme lavoro tecnico che compie sui giocatori della sua accademia. I risultati si vedono nella meravigliosa fluidità di gioco del suo ultimo prodotto, Jannik Sinner, il cui corredo genetico di prima qualità ha certamente contribuito.

Riccardo Piatti e Jannik Sinner – Roma 2019 (foto Felice Calabrò)

C’è poi l’allenatore-tattico. Quello che conosce tanto i punti di forza del proprio giocatore quanto le debolezze di tutti i suoi potenziali avversari nel circuito, anche quelli meno celebri, ed è capace di elaborare le strategie migliori per arrivare alla vittoria. Questi coach non cercano di far giocare il loro assistito in maniera perfetta, ma semplicemente migliore di quella del tennista che hanno di fronte nella determinata circostanza. Brad Gilbert, allenatore di Andre Agassi e Andy Roddick tra gli altri, ha fatto di questo principio il suo credo. Vincere sporco, winning ugly, come recita il titolo del suo libro.

Gli allenatori-motivatori sono una terza categoria. La categoria è molto varia nel senso che, così come tutti noi, i tennisti reagiscono a stimoli differenti in maniera differente. C’è chi ha bisogno di un allenatore molto presente e coinvolto nel match, sempre pronto a battere le mani e incoraggiarti dagli spalti. C’è anche chi, paradossalmente, trova più motivazioni e tranquillità in un coach assolutamente impassibile di fronte agli eventi della partita. Pensiamo ad Andy Murray, che in Ivan Lendl ha trovato una figura per nulla avvezza a farsi emotivamente coinvolgere dai suoi fino a quel punto della carriera esagerati brontolii in campo.

Altri tennisti hanno semplicemente (dove l’avverbio non sta a indicare la facilità, quanto il fatto che si tratta dell’unico aspetto rilevante) bisogno di circondarsi di figure con cui vanno molto d’accordo, di compagni di viaggio, di amici. Non bisogna sottovalutare il fatto che i giocatori passano più tempo con i propri coach che con le proprie famiglie durante la stagione. Pensiamo ad esempio ai sodalizi indissolubili, che caratterizzano un’intera carriera, come quello tra Andreas Seppi e Massimo Sartori. Sodalizi che cementano la fiducia reciproca al punto che il tennista non deve più mettere in discussione ciò che gli viene suggerito: anni di risultati sono un manifesto sufficiente.

La quarta e ultima categoria è quella degli allenatori-manager. Tra le mansioni di un allenatore, soprattutto se non c’è un team molto nutrito attorno, può esserci anche quella di organizzare la routine quotidiana del giocatore, sia durante i tornei che in off-season.

Naturalmente, un allenatore dovrebbe essere dotato di tutte queste doti. Può però spiccare in una di queste qualità rispetto alle altre. A seconda delle sue attitudini ed esigenze, un determinato giocatore può trarre beneficio da un determinato di tipo di allenatore. Il tennista che ha difficoltà a elaborare un piano tattico preciso può migliorare grazie a un allenatore che si concentra molto su quest’aspetto; un altro che fatica a tenere alta la concentrazione può avere gran bisogno di un motivatore.

Le necessità dei tennisti possono poi variare a seconda delle fasi della carriera. Il coach di cui un tennista ha bisogno a vent’anni potrebbe non essere lo stesso di quando ne ha trenta. A inizio carriera, un tennista può (e deve) ancora lavorare sui propri colpi, perfezionarli, limare i difetti ed esaltare le proprie armi migliori. Per farlo, è logico affidarsi a un coach molto attento alla parte tecnica. Inoltre, nei primi anni sul tour, il giocatore giovane potrebbe necessitare maggiormente di qualcuno che ne controlli i ritmi di lavoro. Con l’andare avanti dell’età i margini di miglioramento tecnico si assottigliano così come il bisogno di qualcuno che ‘diriga le operazioni’. Il salto di qualità ulteriore può essere reso possibile da un allenatore capace di stimolare nella maniera giusta un giocatore che magari si sente già arrivato. In una ideale parabola, ci si aspetta quindi che a inizio carriera il tennista abbia bisogno maggiormente di supporto tecnico e organizzativo e, successivamente, più motivazionale e strategico. 

Il caso di Dominic Thiem è particolarmente paradigmatico da questo punto di vista. L’austriaco si è formato sotto la sapiente guida di Gunther Bresnik, un coach di assoluto livello, che vantava nel suo curriculum anche una collaborazione con Boris Becker. Bresnik lo ha preso sotto la sua ala quando Dominic era un adolescente, togliendo ad esempio la seconda mano dal suo rovescio. Stagione dopo stagione nel circuito maggiore, Thiem ha migliorato enormemente il proprio bagaglio tecnico, oltreché la tenuta fisica, raggiungendo l’élite del tennis mondiale. Un anno fa, di improvviso, è arrivata la decisione di mollare Bresnik per Nicolas Massu, l’ex tennista cileno medaglia d’oro ad Atene 2004, sostanzialmente alla prima esperienza su una panchina del circuito ATP.

Una decisione che, a parte gli screzi del caso (e sono stati notevoli), può essere stata dettata dalla volontà di Thiem di trovare un allenatore in grado di stimolarlo meglio, anche tramite un maggior trasporto emotivo durante il match. Un aspetto sulla quale i due non potrebbero essere più diversi, con l’algido Bresnik da una parte e il focoso Massu dall’altra. Certo, grazie al cileno Thiem ha migliorato anche alcune soluzioni tattiche – usa con più profitto il rovescio tagliato e si sente più a suo agio a rete, come ha ammesso lui stesso. Però la formula magica che ha favorito l’approdo alle tre grandi finali – le due Slam e quella al Masters di fine anno – e la vittoria di Indian Wells consiste soprattutto nel grande feeling che i due hanno immediatamente trovato.

Nicolas Massu all’angolo di Dominic Thiem – Roland Garros 2019 (foto Roberto Dell’Olivo)

Ci sono poi anche i controesempi da questo punto di vista. Il caso forse più emblematico di un coach capace di dare una svolta (e che svolta) tecnica oltreché tattica ed emotiva alla carriera di un tennista in una fase già abbastanza avanzata è quello di Magnus Norman con Stan Wawrinka. Fino ai 28 anni, ovvero prima della cura Norman, Wawrinka era un giocatore forte ma non fortissimo. Il rovescio era potente ma non micidiale, il dritto incerto. Il coach ed ex tennista svedese ha saputo sensibilmente migliorare l’arsenale dello svizzero, rendendo i suoi colpi molto più incisivi. Questa evoluzione tecnica abbinata a una maggiore convinzione in sé stesso e a un lavoro fisico più puntuale, hanno trasformato Stan in Stanimal. Nonostante una breve interruzione tra il 2017 e il 2018, il rapporto tra Wawrinka e Norman prosegue ancora oggi. A testimonianza comunque delle ottime qualità di motivatore dello scandinavo. 

E che dire invece dei Big Three? A cosa gli sono serviti gli allenatori che si sono succeduti nelle loro rispettive carriere? Perché diamo per scontato che qualcosa (e più di qualcosa) abbiano contato visti i loro risultati senza precedenti nella storia del tennis. Federer è di gran lunga quello che ha avuto più avvicendamenti nel suo box da quando è sul tour: Peter Carter, Peter Lundgren, Tony Roche, Paul Annacone, Severin Luthi, Stefan Edberg e oggi Ivan Ljubicic. Quelli che forse sono stati più capaci di influenzare lo sviluppo del tennista svizzero sono stati Lundgren e Edberg. Due coach che hanno avuto il carisma di suggerire la strada a Federer per essere vincente. Perché per qualcuno che sa già fare tutto dal punto di vista tecnico, il problema è come scegliere le armi giuste per sconfiggere gli avversari. Lundgren ha trasformato un talento d’altri tempi con poca costanza in un implacabile tennista capace di dominare nel tennis moderno. Edberg ha avuto il carisma per fargli capire che per con l’avanzare dell’età, per rimanere competitivo, avrebbe dovuto fare un salto indietro nel tempo e avanti nel campo. Forse non è un caso che Federer si sia affidato in ogni caso sempre a ottimi tattici del tennis, lui che dall’alto del suo talento di preparare un piano partita ha sempre avuto poco bisogno. 

Il via vai è stato molto più limitato nei box di Nadal e Djokovic. Dopo una vita insieme, nel 2018 Rafa ha interrotto il sodalizio professionale con zio Toni, colui che lo aveva cresciuto tennisticamente, strappandolo anche al calcio, che scorre nelle vene della famiglia. Una decisione, quella dei due Nadal, dovuta a tanti fattori. In primis, la volontà di Toni di smettere di stare in viaggio tutto l’anno. Ma in questa separazione c’è stato anche un senso di fine di un percorso, di missione compiuta, quella di aver formato un campione assoluto, sotto ogni punto di vista, tecnico e mentale. Rafa ora è seguito da Carlos Moya, maiorchino come lui, suo punto di riferimento da ragazzino. Una scelta per rimanere comunque in famiglia, un elemento evidentemente imprescindibile per il fenomeno di Manacor.

Più indecifrabile rimarrà l’impatto di Marian Vajda sul luminoso percorso di Novak Djokovic. Vajda non è stato un campione nella sua carriera in singolare, prima di iniziare a lavorare con Nole nel 2006 era stato solamente capitano di Davis slovacca e non ha mai dato l’impressione di spiccate qualità da alcun punto di vista. D’altro canto, è sempre stato lì mentre il serbo mieteva uno Slam dopo l’altro. E quando nel 2017 Nole ha cercato nuovi stimoli assumendo due super-coach come Agassi e Stepanek, le cose non sono andate benissimo al punto che Nole è tornato presto sui suoi passi riprendendo Vajda (e successivamente a vincere). A detta dello stesso Agassi, il serbo mal digeriva posizioni diametralmente opposte alle sue. Vajda evidentemente riesce a toccare le corde giuste nel serbo. O forse a non toccarle affatto. Tra le abilità dell’allenatore di un top player, probabilmente, c’è anche quella di saper stare in disparte e avere semplicemente cura che nessun granello finisca per insinuarsi nell’ingranaggio quasi perfetto.

Novak Djokovic e Marian Vajda – Rolex Paris Masters 2018 (foto @Sport Vision, Chryslène Caillaud)

In conclusione, come sa in fondo bene anche Kyrgios, i coach servono anche nel tennis di altissimo livello. E serve soprattutto scegliere quello giusto, al momento giusto. 

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