Ancora sull’Australian Open - Pagina 4 di 4

Al femminile

Ancora sull’Australian Open

Da Jennifer Brady ad Ashleigh Barty, da Karolina Muchova a Sofia Kenin: conferme, delusioni e sorprese nello Slam preceduto dalle quarantene differenti

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Ashleigh Barty e Karolina Muchova - Australian Open 2021
 

Karolina Muchova
Prima di entrare nel tema confesso che mi piace particolarmente il tennis di Muchova e per questo parto con un giudizio molto favorevole nei suoi confronti. Avevo raccontato di lei due anni fa, e di come avesse stupito tutti da semisconosciuta allo US Open 2018, quando in una magica serata aveva sconfitto a sorpresa Garbiñe Muguruza, mostrando un tennis inusuale, ricco di verticalizzazioni e invenzioni tecniche; e con una gran mano a rete.

Poi nel 2019 era sbocciata: quarti di finale a Wimbledon (con la vittoria 13-11 al terzo su Pliskova) vittoria a Seoul e la Top 20 sfiorata (best ranking numero 21). Ma nel 2020, i segnali non erano stati altrettanto positivi. I dubbi che suscitava il suo gioco, molto completo ma non sempre solidissimo nei colpi al rimbalzo (soprattutto dalla parte del rovescio), sembravano confermarsi: fuori al primo turno a Brisbane, eliminata dalla convalescente Cici Bellis all’Australian Open (in tabellone grazie al ranking protetto) e ancora esclusa al primo turno del Roland Garros per mano di Christina McHale.

Rimaneva però il positivo quarto turno allo US Open, dove l’aveva sconfitta in tre set la rinata Azarenka (che sarebbe arrivata in finale). A fine anno i punti della sola stagione 2020 l’avrebbero vista retrocedere alla posizione 58, ma per sua fortuna il ranking “biennale” non ha registrato questi arretramenti.

Karolina sembra avere cominciato con un piglio diverso il 2021. Non solo perché è arrivata in semifinale a Melbourne, ma perché lo ha fatto attraversando un tabellone piuttosto impegnativo. Ha sconfitto nell’ordine: Ostapenko, Barthel, Pliskova, Mertens, Barty, prima di fermarsi al terzo set in semifinale contro Jennifer Brady.

Nelle partite contro le avversarie più complesse c’è stato un tratto in comune: la capacità di riprendersi da situazioni di punteggio quasi impossibili. Contro Pliskova ha recuperato da 0-5 nel secondo set, vincendo sette game consecutivi e chiudendo così sul 7-5 7-5. Contro Mertens ha ripreso il primo set da 2-5, vincendolo al tiebreak e chiudendo di nuovo in due parziali (7-6, 7-5). Contro Barty, testa di serie numero 1 e finalista in pectore della parte alta di tabellone, ha recuperato da 1-6 0-2, finendo per ribaltare completamente il punteggio: 1-6, 6-3, 6-2.

Appena ho la possibilità, seguo sempre Muchova, perché mi diverte molto, e ormai ho imparato a conoscerla nei suoi alti e bassi. È capace di scambi meravigliosi, nei quali muove il gioco alla perfezione chiudendo magari con pregevoli volée, cosi come di vincenti diretti al servizio. Ma è anche capace di passaggi a vuoto nei quali compie errori gratuiti veramente gratuiti, quasi senza motivazione.

Nella semifinale persa contro Jennifer Brady non si è espressa al meglio, ma ha sfiorato di nuovo una rimonta in extremis proprio nell’ultimo emozionante game, quando Brady serviva per il match sul 6-4, 3-6, 5-4. Qui Karolina ha sfoderato punti straordinari, ma al momento di raccogliere i frutti sui break point ha sempre risposto male di rovescio. E così, stringendo i denti, Jennifer è riuscita a chiudere il match sul 6-4.

Questa semifinale contro Brady, la prima raggiunta in carriera a livello Slam, testimonia contemporaneamente del grande livello di gioco che Muchova è in grado di raggiungere in alcuni frangenti, ma anche delle difficoltà che, almeno per il momento, continua ad avere in termini di consistenza. Se riuscisse a regalare meno punti facili alle avversarie, potrebbe compiere un salto di qualità determinante sul piano dei risultati.

Sofia Kenin
In Australia Sofia Kenin era la campionessa in carica. Nel 2020 aveva vinto il titolo dopo avere sconfitto in semifinale Ashleigh Barty e in finale Garbiñe Muguruza, al termine di due partite affrontate da sfavorita. Ma questa volta le cose sono andate molto diversamente: fuori al secondo turno contro la numero 64 del ranking Kaia Kanepi. Inequivocabile il punteggio: 6-3, 6-2. Ecco una parte delle sue dichiarazioni in conferenza stampa: “Non so che dire. Oggi era come se non fossi in campo. Non voglio togliere meriti alla mia avversaria, che ha giocato grandi punti, ma oggi non c’ero con la testa. Tutti mi chiedevano della difesa del titolo, di che cosa mi aspettavo. Non sono riuscita a sopportare la pressione. Ovviamente non sono abituata a questo”.

La disavventura di Kenin mi ha ricordato quella di un’altra vincitrice a sorpresa di uno Slam, Jelena Ostapenko. Dopo aver conquistato il Roland Garros 2017 grazie a una serie di prestazioni eccezionali, l’anno successivo, da campionessa in carica, Jelena sarebbe stata eliminata all’esordio dalla numero 67 del ranking Kozlova per 7-5, 6-3. Queste erano state le sue dichiarazioni dopo la sconfitta: “Oggi ho giocato al 20% delle mie possibilità. Quando sono andata in campo, avevo una pressione incredibile, anche perché i fan mi sostenevano molto, e davvero volevo giocare bene, dimostrare quanto combatto. Ma sì, ho avuto questa incredibile pressione. Oggi non ero me stessa”.

Non voglio paragonare tecnicamente Kenin e Ostapenko, né prendere spunto da questo parallelismo per fare previsioni sul loro futuro professionale. Ma resta il fatto che certi passaggi di carriera sembrano quasi obbligati. E malgrado tutti li ricordino, non c’è consapevolezza o conoscenza dei precedenti altrui che possa aiutare a sfuggirli. No, a volte le dinamiche psicologiche sono tali da risultare, letteralmente, inevitabili.

Kenin e Ostapenko hanno entrambe sperimentato sulla propria pelle la profonda differenza che c’è tra la situazione di chi scende in campo senza l’obbligo di fare risultato, e la situazione di chi, dopo essere cresciuta di status, deve dimostrare di essere all’altezza di aspettative molto alte. Che a volte si rivelano troppo alte.

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