Coaching, le reazioni. Kyrgios, Roddick e Moya contrari: "Si perde l'unicità di questo sport"

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Coaching, le reazioni. Kyrgios, Roddick e Moya contrari: “Si perde l’unicità di questo sport”

“Il lavoro dell’allenatore è prima della partita” dice Moya. Favorevole Mouratoglou: “Niente più ipocrisia”. “Alcuni giocatori condividono gli allenatori” fa presente Roddick

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Carlos Moya e Rafa Nadal - Roland Garros 2018 (foto Roberto Dell'Olivo)
 

L’ATP negli ultimi tempi non sta mancando di prendere decisioni di un certo peso, che inevitabilmente scuotono gli animi e creano divisione di opinioni, e la più recente non fa eccezione. Annunciata solo tre giorni fa, il “legalizzare” il dialogo tra giocatore e coach durante il match già sta portando varie discussioni in superficie, e non tutte propriamente calme e rilassate, trattandosi di un cambiamento importante nel mondo del tennis. Patrick Mouratoglou, uno dei coach principali del panorama mondiale (attualmente al seguito di Simona Halep ma che ha legato le sue fortune a Serena Williams), ha commentato così sul suo Twitter: “Congratulazioni all’ATP per aver “legalizzato” una pratica che va avanti in quasi tutte le partite da decenni. Niente più ipocrisia“. Certo ci sarebbe da argomentare sulla saggezza delle parole del francese, che in parte ha ragione, in parte no, perché una cosa che viene autorizzata non può automaticamente ritenersi giusta. E certamente così la pensa anche Todd Woodbridge, ex n.19 al mondo, che dal canto suo travisa un po’ il senso di quello che aveva scritto Mouratoglou, e quasi lo “attacca” in risposta al tweet: “È così deludente vedere che un allenatore di così alto profilo ammette apertamente di aver infranto le regole del nostro sport per così tanto tempo“.

L’australiano ha inteso in senso un po’ complottista le parole di Mouratoglou, che non ha certo detto di essere stato lui a infrangere le regole (in una risposta successiva scriverà “Impara a leggere. Non ho mai scritto di aver fatto ciò che tu pretendi avessi scritto“), ma come effettivamente siano episodi che accadono. Lui stesso inoltre era stato colto in fragrante durante la finale degli US Open 2018 tra Williams e Osaka, con successiva polemica della statunitense. L’esempio più noto è Stefanos Tsitsipas con il padre Apostolos, ma tanti allenatori spesso parlano e intervengono disturbando anche l’avversario, e questa è un’evidenza; perciò in effetti regolamentare il tutto da un lato potrebbe portare vantaggi, evitando anche problemi di regolamento o dispute. E probabilmente questo intendeva il coach di Simona Halep, come fa capire in un successivo tweet di ribattuta a Woodbridge: “Questo è particolarmente brutto da parte tua, Todd. Sei stato nel tour per molto tempo, perché neghi l’evidenza che il coaching accade ogni giorno sui campi? Per cercare di proposito di farmi sembrare cattivo e accusarmi? Questo è deludente…“. Ci sono state altre risposte, ma quasi di ripicca, con Woodbridge a negare che i suoi coach abbiano mai fatto cose del genere, e Mouratoglou quasi a ridergli sopra per prenderlo in giro (“Vorrei essere te. Magari in un’altra vita“).

Al di là dell’essere d’accordo o meno con uno dei due, un dato di fatto da accettare che emerge da questa decisione c’è: assistiamo a una sorta di snaturamento del mondo del tennis come lo conosciamo, che in parte va a perdere la sua specificità di sport singolo, del giocatore che deve cavarsela da solo, e che perciò rendeva tutto unico, un duello tra due uomini da pari a pari. E così la pensa anche Nick Kyrgios, che una tantum sceglie con cura e concretezza le sue parole: “Completamente in disaccordo. Si perde uno dei tratti unici che nessun altro sport aveva. Il giocatore doveva capire le cose da solo, questo era il bello. Cosa succede in caso di un giocatore di alto profilo contro un giocatore di basso livello che non ha o non si può permettere un allenatore?“.

Aspetto anche economico sottolineato da Kyrgios dunque, decisamente rilevante, dato che non tutti i giocatori possono avere un coach fisso, e ciò metterebbe a rischio l’essenza stessa della competizione nel tennis, e la possibilità di raccontare storie romanzesche o epiche imprese (come Van Rijthoven a ‘s-Hertogenbosch), dato che uno dei due avrebbe una sorta di “handicap”, causato dal regolamento per di più. Anche Andy Roddick, uno che se ha qualcosa da dire raramente non vale la pena di ascoltarlo, batte su questo punto, che potrebbe causare problemi non indifferenti in futuro, oltre ad aggiungere una nota a margine, che poi tanto a margine non è: “Questo è il punto più logico contro il coaching in campo. Aggiungerò anche che alcuni giocatori condividono gli allenatori, quindi comporta anche difficili conflitti di programmazione“. Questa ipotesi, decisamente verosimile, scuoterebbe ancor di più le polemiche e le problematiche, con coach che per seguire tutti dovrebbero cercare il dono dell’ubiquità.

Abbiamo visto l’opinione di giocatori, ex giocatori e coach, chiudiamo con un ex n.1 al mondo e che allena attualmente un certo Rafa Nadal: Carlos Moyà. L’ex campione, intervistato da Eurosport, si dimostra fermamente critico al coaching in campo, sottolineando quanto la bellezza del tennis sia proprio il poter contare solo sui propri mezzi: “Non sono molto favorevole al coaching. Ciò che rende il tennis uno sport speciale è che è l’unico sport in cui sei solo contro un altro senza l’aiuto di nessuno. Nel resto degli sport hai qualche tipo di “aiuto”, sia con la presenza del tuo allenatore, attraverso la radio nei motori, con il caddy con il golf, qualunque cosa. Quella battaglia “in solitario” è tipica del tennista, con i battiti cardiaci a 180 e 20 secondi tra un punto e l’altro per pensare alla tattica corretta, alla giocata giusta. E’ li che scopri la qualità di ogni giocatore“.

La sua esperienza da coach, unita all’amore per questo sport reso unico proprio dal sapersela cavare da soli, è ben evidente nelle dichiarazioni: “Per me è fondamentale che il giocatore pensi da solo, il lavoro dell’allenatore è già fatto. È come un esame, l’insegnante può aiutarti, ma una volta iniziato l’esame sei da solo. Il lavoro dell’allenatore va fatto prima della partita, il giocatore deve a quel punto conoscere tutte le variabili possibili, perché poi succederanno cose che sicuramente non erano nel copione che hai studiato. È lì il grande fascino. In questo senso, sono totalmente contrario al coaching“.

L’intervista si riallaccia in parte anche al tweet “incriminato” di Mouratoglou, che tanto aveva scosso Woodbridge, focalizzandosi su come il coaching si effettui già nella pratica: “Forse è il primo passo per poi cercare un cambiamento più importante. Lascerei tutto così com’è, il bello del tennis è la battaglia in solitaria con il tuo rivale, che mostra quanto sei intelligente e quanto è bravo ogni singolo individuo“. Eppure rimane ben ferrato sulla sua idea che il tennis è bello così come lo conosciamo, e inserire questa regola, pur riconoscendo che a livello mediatico può avere un ottimo impatto (“Riconosco che avrà un impatto a livello di telespettatori, lo abbiamo già visto quando è stato fatto in WTA, con l’allenatore che scendeva in campo e parlava con il giocatore. Capisco che potrebbe esserci un certo interesse da parte dello spettatore a sapere cosa sta succedendo, cosa sta dicendo loro e poi vedere se ha cambiato effettivamente il gioco in campo. Rispetto questo punto di vista, ma la mia posizione è chiara: sono contrario“), lo porterebbe alla stregua di tanti altri sport, privandolo della tanto ricercata e difesa unicità, di storie e sensazioni che solo un uomo che affronti tutto con la sua sola forza può provare e trasmettere.

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