I giorni indimenticabili della vita di Marco Cecchinato cominciarono male, come quando i vicini di casa decidono che è arrivato il momento del trapano e del martello, e quel momento è il sabato mattina. I giorni indimenticabili della vita di Marco Cecchinato cominciarono male, perché nelle bomboniere dei campi laterali del Roland Garros si nasconde la terra più rossa e più rapida del circuito. I giorni indimenticabili della vita di Marco Cecchinato cominciarono male, al primo turno, in svantaggio di due set, contro il talento insicuro di Marius Copil. Marco, che fino a quella mattina non aveva mai vinto una partita nei tornei del Grande Slam, per un paio d’ore non vide l’ombra di una palla ma poi il suo avversario, esaurito il meraviglioso repertorio tecnico (bene), fu costretto dal punteggio a passare al tremebondo repertorio emotivo (non benissimo), trascinando sé stesso verso la solita e inevitabile sconfitta. Il Roland Garros del 2018 fu dunque la storia di un trampolino, una storia di magia e una storia di ruggine: la magia di Cecchinato, che soffiò via la polvere degli almanacchi del tennis italiano, piantando la bandierina azzurra sulla luna della semifinale di un Major quarant’anni dopo l’ultima volta. Fino a un po’ di tempo fa c’erano dei giorni della settimana che non esistevano, per le nostre racchette: il secondo venerdì di uno Slam – dedicato alle semi – era uno di quelli. E tutto il resto, ovviamente, faceva volume. Poi è arrivato Cecchinato.
La sua magia, dicevamo, rappresentò (anche se forse oggi – per certi versi assuefatti ai record di Sinner – ce ne siamo un po’ dimenticati) la prefazione di un periodo trionfale per il tennis azzurro: quel trampolino è rimasto lì, come un vecchio edificio abbandonato e pasticciato dai graffiti, sostituito metaforicamente dai grattacieli più alti. I colori dei graffiti fanno il loro mestiere, nascondendo la ruggine, però ormai il Roland Garros del 2018 sta iniziando a invecchiare: ma te la ricordi, la semifinale di Cecchinato?
Totò e l’estate italiana
Ce la ricordiamo, ce la ricordiamo: la primavera di quell’anno era cominciata sotto la stella giusta, per Marco, che si era meritato il pertugio giusto nel tabellone di Budapest: aveva perso durante la prima domenica del torneo, nelle qualificazioni, aveva alzato il trofeo la seconda domenica, da lucky loser, una settimana più tardi. La ruota della fortuna del circuito ATP – quello del piano di sopra – a volte regala una possibilità ai protagonisti dei challenger di un’estate italiana: Cordenons, Todi, San Marino e tutti quei nomi meravigliosi che sanno di provincia. I club prestano i propri campi ai professionisti, i soci si lamentano, il sole picchia forte, il secondo stadio non è uno stadio e – anche se siamo a Sassuolo – viene denominato Grandstand, a prescindere, perché ci piace così, e mentre Munar e Ramos dopo quattro ore di sofferenza si guardano allo specchio e vedono un cinque pari al terzo set, in sottofondo, nel frattempo, parte all’improvviso il corso di zumba nella piscina del circolo, con il remix della canzone vincitrice del Festival di Sanremo che viene caricato nelle casse a un volume simile a quello di uno spavento, coprendo i microfoni delle partite.
Il torneo di Budapest di Cecchinato sembrava solamente l’aperitivo dell’estate italiana e di conseguenza – dicevamo – la ruota della fortuna di un terraiolo, oppure lo scherzo di un calendario affollato, o, ancora più semplicemente, una settimana come tante altre: e invece non avevamo capito niente.
Recentemente, in occasione dell’addio a Totò Schillaci – anche lui nato e cresciuto a Palermo, proprio come Cecchinato – ho scoperto una delle statistiche più romantiche della storia recente dello sport mondiale: Schillaci ha messo a segno sei dei sette gol con la maglia della nazionale nel corso delle notti magiche di Italia ’90. Sei su sette, nel Mondiale di casa, e rendiamoci conto: i giorni indimenticabili, in cui funziona tutto, contro ogni tipo di aspettativa e di pronostico, la calamita dello stato di grazia al momento giusto, quello del torneo più importante. La palla che gli rimbalza addosso nella semifinale con gli argentini, e in qualche modo finisce dentro, con Giannini che gli urla: “Totò, ma che culo c’hai?”. Negli Stati Uniti, la patria del Grandstand, probabilmente avrebbero detto “clutch”. Uno a zero per noi.
La favola del Roland Garros
Il destino delle notti magiche di Marco Cecchinato, che oggi compie 32 anni, si materializzò a dire il vero con il sole, nel corso dei pomeriggi francesi, sintetizzando in due settimane il succo del tennis migliore del siciliano: il paragone con i Mondiali di Schillaci semplifica in maniera un po’ superficiale le pieghe di due storie lontane e più complesse, che però grazie alla potenza delle rispettive calamite attirarono il meglio della carriera nel giro di pochi giorni. Perché Ceck, fino al Roland Garros del 2018, non aveva mai sorriso in un torneo dello Slam, perché in quel Roland Garros vinse cinque incontri, spingendosi fino alla semifinale, perché dopo quel Roland Garros (nei sei anni successivi, fino ad oggi) ne vinse solamente altri cinque, comprendendo tutti i Major, una stagione dietro l’altra, e ormai siamo arrivati al 2025.
Dopo la rimonta ansiosa con Copil arrivò la vittoria della consapevolezza, con Trungelliti, e poi l’impresa con il numero 11 del ranking mondiale, Pablo Carreno Busta. Se dovessi descrivere lo spagnolo con una metafora sceglierei quella della Smart: avete presente quando credete di aver trovato parcheggio, e allora cominciate a pregustare la manovra, ad affezionarvi, e poi infine, quando vi avvicinate, scoprite che il vostro posto vuoto era in realtà occupato da una Smart? Ecco, quella Smart, proprio quella, è verosimilmente la Smart di Carreno Busta. E il parcheggio vuoto è l’occasione buona, il parcheggio vuoto è il tabellone di un torneo importante, che sembra spalancato: già, sembra. Perché Carreno Busta non è solamente arrivato prima di voi, Carreno Busta è arrivato prima di voi e vi ha pure illuso che ci fosse un’opportunità.
La strada del siciliano, a questo punto, dai, era in discesa: negli ottavi di finale dominò un Goffin (numero 9 ATP) un po’ spento, reduce da una battaglia di nervi, spalmata su due giorni, con Gael Monfils. Cecchinato srotolò il catalogo del tennista da terra battuta: il servizio in kick, che sbatteva l’avversario in tribuna, la scivolata aggressiva, anche più potente del grunting, e infine la smorzata, di dritto e di rovescio, da qualsiasi posizione.
Il rovescio in top a una mano di Ceck, tra i più balbettanti del circuito, aveva improvvisamente smesso di grattare la palla, ed era diventato un fattore: era stato da sempre il punto debole di Marco, che non riusciva a proteggerlo nemmeno con lo slice, perché il suo era uno slice che partiva da lontano, e tendeva a impennarsi, perdendo tutto lo smalto per via dell’impatto con l’aria. Il rovescio coperto, nel corso di quei giorni, era cresciuto a vista d’occhio, e gli aggettivi avevano preso la rincorsa: Karlovic (sempre nei nostri cuori), scadente, dignitoso, utile, decisivo. Per capirci: è come se di punto in bianco Sara Errani cominciasse a fare due ace a game, e non stiamo scherzando. Quel colpo era diventato il colpo che muoveva il gioco di Cecchinato, quel colpo era diventato una versione di Guga Kuerten, quel colpo era diventato il colpo della fiducia, e andate a rivedervi i match point: dopo Goffin fu il turno dell’apoteosi, e nei quarti di finale infilzò il serve and volley più goffo della carriera di Djokovic con un altro rovescio lungolinea vincente. Il serbo era in una fase della carriera in cui stava sperimentando – per un attimo, e solo per un attimo – la pace della sconfitta, e si arrese, con il sorriso, dopo un tie break emozionante.
Esageriamo: la risposta bimane di Nole ha sofferto il servizio in kick da sinistra due volte in vent’anni, la seconda a Madrid con Alcaraz (ma Madrid è in altura, e la palla vola per tutti) e la prima con Cecchinato, il 5 giugno del 2018, e allora torniamo lì. Alla prima semifinale italiana (maschile, ovviamente) dopo un secolo di niente: la bandierina di fianco al nome di Marco riempì un vuoto, perché c’erano due generazioni di appassionati che non avevano assolutamente idea di cosa fosse la semifinale di un torneo dello slam. Usciva lui, ed eravamo noi, come avrebbe detto Gianna Nannini.
Il best ranking, la sconfitta con Mahut e la crisi
Con Thiem alla fine perse, ma in maniera dignitosissima, aggrappandosi al talento della smorzata, perchè quel giorno non c’era nient’altro: staccò un biglietto che non doveva esistere, quello per la top 30, e la magia proseguì. Sull’onda dell’entusiasmo raggiunse – qualche settimana più tardi – un’altra semifinale, per certi versi ancora più assurda, ovvero quella di Eastbourne, vincendo le uniche partite della vita sull’erba. Il mix tra lo stato di grazia e la comodità delle teste di serie fece il resto: a Umago, ad esempio, venne letteralmente preso a pallate da Vesely al primo turno, però alla fine vinse il torneo, perché doveva andare così. Sul cemento, sinceramente, non c’era niente da fare, ma all’inizio del 2019 arrivò un altro titolo, il più prestigioso, a Buenos Aires (vittoria in trasferta, da Coppa Davis, dopo aver battuto Schwartzman in finale), grazie al quale firmò il best ranking di numero 16: riuscì più o meno a stabilizzarsi, perché sulla terra battuta Cecchinato viveva a casa sua, perché sulla terra battuta Cecchinato era uno spettacolo. La smorzata rappresentava la copertina di uno specialista (ogni volta che vi viene una smorzata vincente sappiate che l’avete, per forza, copiata da lui) e, anche se il rovescio era tornato a scricchiolare, le traiettorie elaborate del siciliano disegnavano un bel tennis: si stava però avvicinando Parigi, e la scadenza dei punti dell’anno precedente.
Cecchinato al Roland Garros del 2019 non difendeva i punti della classifica, Cecchinato al Roland Garros del 2019 difendeva la carriera, e tutti i giorni indimenticabili: che però, in quanto tali, non si possono replicare. E menomale.
Fu inevitabilmente eliminato al primo turno – sciupando un vantaggio di due set a zero – dal numero 252 Nicolas Mahut (37 anni e mezzo), come se non vedesse l’ora di andarsene. La festa del francese fu una festa perfetta, insperata e casalinga: l’epica della rimonta, gli spalti gremiti della prima domenica del torneo, il tennis brillante e i figli piccoli in campo, ad abbracciare il papà, ad un passo dalla pensione. Marco non aveva invece voglia di abbracciare nessuno e scappò via dal circolo più significativo della carriera, che in un certo senso finì proprio quel giorno: da Djokovic a Mahut, in meno di un anno. Ma come è possibile? E in questi casi, che cosa si fa? Si prova a cambiare tutto, a partire dall’allenatore, illudendosi possa servire a qualcosa: decise di separarsi da Simone Vagnozzi, il coach che di fatto aveva costruito quella storia, e ovviamente non vinse più una partita. Nel frattempo il tennis italiano cominciò a volare, dimenticandosi in fretta di lui e della prefazione, anche perché il carattere di Marco aveva gli stessi spigoli del suo rovescio: il resto lo sappiamo, e allora Fognini a Montecarlo, Berrettini a Wimbledon, la valanga di Sinner, la Coppa Davis e tutto il resto. Non deve essere stato facile per Cecchinato: i riflettori, che per un attimo si erano accorti di lui, si spensero subito, mentre la sua classifica sbiadiva, e cominciarono a illuminare i successi degli altri. Gli anni passarono in fretta, così come gli acciacchi, le smorzate, le estati italiane, gli allenatori e gli ultimi guizzi, e ci riferiamo alle finali di Santa Margherita di Pula e di Parma. Che forse, chi lo sa, per un attimo, gli ricordarono Parigi.
Verso la fine del 2023 i nervi di Cecchinato diedero quasi forfait, perchè il tennis è uno sport complicato: “Sì, fu il momento più duro della mia carriera. Dopo lo Us Open decisi di staccare per un po’: dopo 15 anni di sacrifici ne sentivo il bisogno, non ne avevo più”. Attualmente è il numero 371 del mondo e ha vissuto una stagione caratterizzata da due sentimenti contrapposti: il sollievo e la tentazione del ritiro, da un lato, il coraggio di riprovarci, dall’altro, grazie al sostegno del suo mentore, Massimo Sartori. Di partite, francamente, ne ha vinte poche e nel frattempo, oltretutto, si è infortunato di nuovo, stavolta al gomito: “Saranno mesi difficili, ma ancora una volta mi prometto di non mollare e di tornare più forte di prima”.
I giorni indimenticabili di Marco Cecchinato, forse, non sono ancora finiti.