Nei dintorni di Djokovic: i mille giorni di Goran Ivanisevic e Marin Cilic

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Nei dintorni di Djokovic: i mille giorni di Goran Ivanisevic e Marin Cilic

Qualche giorno fa si è interrotto il rapporto di collaborazione tra Goran Ivanisevic e Marin Cilic. C’è chi parla di divergenze sui metodi di allenamento, chi di due caratteri troppo diversi per proseguire ancora assieme. Forse, semplicemente, era giunto per entrambi il momento di andare avanti

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Un fulmine a ciel sereno, a giudicare dalle reazioni degli addetti ai lavori, la notizia dell’interruzione del rapporto di collaborazione tra il tennista croato Marin Cilic ed il suo allenatore, il connazionale ex n. 2 del mondo Goran Ivanisevic.

Nel pensare a Cilic e Ivanisevic viene immediatamente in mente la clamorosa vittoria di Marin agli US Open 2014, guidato appunto dall’ex campione di Spalato, ma il loro rapporto nasce da lontano. Il campione di Wimbledon 2001 riconobbe le potenzialità dell’attuale n. 12 del mondo sin da quando questi era ragazzino, tanto da consigliare nel 2004 al 15enne Cilic di affidarsi al suo ex allenatore Bob Brett. E negli anni a seguire non gli fece mai mancare i suoi consigli, addirittura un primo assaggio della loro futura collaborazione ci fu già nel 2010, in occasione dei Zagreb Indoors vinti da Cilic, quando fu Goran ha seguirlo in veste di coach. Separatosi da Brett, a Marin probabilmente sembrò perciò la cosa più logica del mondo affidarsi a colui che in tutti questi anni lo aveva sempre aiutato, anche se era alla prima esperienza come coach ad alto livello.

Ripercorriamo brevemente le tappe principali di questi tre anni di collaborazione tra i due unici due giocatori croati ad avere vinto uno Slam in campo maschile.
Tutto inizia dunque nel settembre 2013 e non inizia certo nei migliori dei modi, dato che proprio in quel periodo Cilic viene squalificato per 9 mesi (poi ridotti a 4) per doping, il famoso caso della “zolletta di zucchero”. Cilic – che non giocava da fine giugno perché accettò di venir sospeso cautelativamente (ma si scoprirà solo al momento della squalifica) e si ritirò prima del match del secondo turno a Wimbledon – torna a giocare solo a fine anno, a Paris Bercy, scivolando al n. 37 ATP, dal n. 12 che occupava prima di Wimbledon.
Si può perciò dire che di fatto sia il 2014 la prima vera stagione in cui il binomio Goran & Marin entra a regime. Ed è la più bella stagione di Cilic: che inizia l’anno con le vittorie di Delray Beach e Zagabria, prosegue la stagione con delle ottime prestazioni negli Slam di Parigi e Londra dove viene fermato solo da Novak Djokovic, che nei quarti di finale di Wimbledon ha bisogno di 5 set per avere la meglio sul croato. Poi arriva la magia, la fantastica vittoria a New York, con le tre prestazioni incredibili sfoderate da Cilic dai quarti in poi, dove batte nell’ordine Berdych, Federer e Nishikori senza perdere un set ed eguagliare così il suo coach vincendo anche lui un torneo del Grande Slam. Nonostante alcuni problemi alla spalla destra, che si erano palesati già prima di New York, Marin riesce a conquistare anche il torneo di Mosca e a concludere la stagione con la sua prima partecipazione alle ATP Finals, piazzandosi al nono posto della classifica ATP di fine anno.

 

I problemi alla spalla non danno tregua al tennista di Medjugorje, che deve fermarsi all’inizio del 2015 e fa il suo esordio solo a marzo a Indian Wells. Ma non è ancora del tutto a posto e deve fermarsi ancora un mese, per ripartire poi dalla terra battuta di Montecarlo. Ovviamente ritrovare il ritmo partita dopo tanti mesi non è banale e solo a Wimbledon, dove viene fermato nuovamente ai quarti da Djokovic, inizia a carburare. Arriva a New York e sembra che di nuovo il cemento di Flushing Meadows riesca a fare la magia e a far esprimere al tennista di Medjugorje tutto il suo potenziale. Marin arriva in semifinale, ma deve nuovamente fare i conti con un problema fisico: si era procurato un infortunio alla caviglia negli ottavi di finale contro Chardy, che peggiora giocandoci sopra per cinque set contro Tsonga. In semifinale praticamente non è in grado di opporre alcuna resistenza al futuro vincitore Djokovic. Nuovo stop e rientro giusto in tempo per difendere il titolo a Mosca e riuscire così a finire la stagione tra i top15, in 13esima posizione.

Il 2016 non parte con grossissimi squilli, a parte la finale a Marsiglia (sconfitto da Kyrgios), ma quando sembra che i quarti di finale di Indian Wells siano un segnale che sta per tornare il vero Cilic, l’ennesimo infortunio, questa volta al ginocchio destro, lo costringe alla resa contro Simon e gli fa saltare tutti i Masters 1000 sulla terra battuta. Recupera giusto in tempo per il Roland Garros, e la finale disputata la settimana prima a Losanna (battuto da Wawrinka) sembra di buon auspicio, invece a Parigi esce subito per mano dell’argentino Trungelliti.
Poi però si regala delle ottime prestazioni sull’erba: semifinale ai Queen’s e l’incredibile match contro Federer nei quarti di finale dei Championship, dove non riesce a capitalizzare due set di vantaggio e tre match point. In quell’occasione fa il giro del mondo su Internet l’espressione di Ivanisevic stravolta dalla tensione, colta dalle telecamere durante l’emozionante tie-break del quarto set. Che ora diventa l’ultima immagine “ufficiale” di Goran come coach di Marin Cilic.

goran ivanišević

Ivanisevic durante il tie-break tra Cilic e Federer a Wimbledon 2016

Quando un rapporto si interrompe in maniera così improvvisa, senza che nessuno dei protagonisti sia andato oltre ai classici ringraziamenti all’altro e abbia fornito spiegazioni, si scatena la ridda delle ipotesi sui veri – o presunti tali – motivi della separazione.
Caratteri troppo diversi, un impegno diventato troppo oneroso quello di seguire un giocatore in giro per il mondo tutto l’anno, visioni diverse su come proseguire il lavoro assieme.
Sulla questione del carattere, c’è da dire che sin dall’inizio a molti in Croazia il loro binomio erano sembrato strano: da una parte l’esuberante e tutto istinto Ivanisevic, dall’altra il tranquillo, riflessivo e pacato Cilic.
Goran per carattere non è il classico allenatore, come per carattere è anche una persona diversa da Marin, sono quasi all’opposto. Io stesso, quando iniziarono, mi chiesi come avrebbe potuto funzionare. Invece è andata bene. Si è visto che Goran è riuscito a trasmettere a Marin determinate cose, gli ha migliorato il servizio, lo ha spinto a giocare in maniera più aggressiva. Goran è un impulsivo, perciò non mi aspettavo che questa collaborazione durasse in eterno” ha dichiarato ad un giornale croato una persona che li conosce bene entrambi, l’ex direttore del torneo ATP di Zagabria, Branimir Horvat.
E tre anni non sono pochi, soprattutto se si deve seguire un giocatore per 365 giorni l’anno e nel frattempo si presentano nuove opportunità.
“C’è da valutare il fatto che il lavoro del coach obbliga a tante rinunce, a tanti viaggi, a stare lontano dalla famiglia. Senza considerare che Goran è molto richiesto per le esibizioni, forse uno dei più richiesti tra gli ex campioni del circuito” ha aggiunto Horvat.
Altre voci di corridoio riportano che da qualche tempo tra i due ci fossero visioni discordanti sui metodi di allenamento e sulle cose su cui avrebbe dovuto lavorare Marin, anche se – come detto – nulla è trapelato direttamente da loro.

“Sono sorpreso, per prima cosa perché Marin con Goran è diventato un grande giocatore, lo ha aiutato nella tattica di gioco, nel cogliere e lavorare su certi dettagli è stato acuto e scaltro. Non so perché hanno deciso di non lavorare più assieme” ha dichiarato il leggendario allenatore croato Nikki Pilic, riprendendo di fatto la sostanza delle cose dette da Cilic in più occasioni: che era Goran che preparava le tattiche da adottare con i singoli avversari, che ha limato certe aspetti del suo gioco e che soprattutto – e su questo sono in molti a concordare – è riuscito a trasmettergli la capacità di avere fiducia in sé stesso, anche dopo delle dure sconfitte. Pilic ha voluto poi soffermarsi sulla l’attuale situazione di Cilic e sui possibili sviluppi della sua carriera agonistica.
“Per il suo tipo di gioco, Cilic deve essere sempre fisicamente a posto. Ovvio che essendo alto quasi due metri non può essere agile come molti dei suoi avversari, ma ci sono ampi margini di miglioramento in questo senso. Si è visto a Wimbledon, dove ha giocato il miglior tennis sull’erba della sua vita, ma al quinto set non ha potuto tenere il ritmo, sennò sarebbe “saltato”. Inoltre Marin è un giocatore molto brillante quando è in giornata, invece quando le cose non girano per il verso giusto non riesce ad uscire dal “buco nero”. Da questo punto di vista ha troppi alti e bassi per un giocatore di quel livello, questa è una cosa che il nuovo allenatore dovrà trovare il modo di correggere” ha detto il 77enne coach spalatino, che era l’allenatore del suo concittadino Ivanisevic in occasione dell’incredibile vittoria a Wimbledon nel 2001.

“Auguro a Marin tutto il meglio” ha detto Goran quando ha confermato la notizia della fine della collaborazione con Cilic, precisando poi che non aggiungerà altro.
Forse, semplicemente, non ha aggiunto altro perché non c’era veramente niente da aggiungere. Lui e Marin hanno fatto assieme un bel percorso – a tratti difficile, a tratti entusiasmante – durato ufficialmente poco più di 1.000 giorni, ma in realtà iniziato molto tempo prima.
Forse, semplicemente, era giunto il momento che il loro rapporto si evolvesse: che dopo tanti anni Cilic tagliasse quel “cordone ombelicale” che lo legava sin da adolescente all’icona del tennis croato e che Goran a sua volta non si preoccupasse più di quel timido ragazzino di Medjugorje, ormai diventato uomo.
Forse, semplicemente, era il momento giusto per salutarsi.

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Nei Dintorni di Djokovic: Nole, ancora tu? Ma non dovevi arrivarci più?

Novak Djokovic ha raggiunto Steffi Graf in testa alla classifica assoluta di settimane di permanenza al n. 1. Solo un anno fa, dopo quanto accaduto a Melbourne, sembrava un’impresa irrealizzabile. Ma, ancora una volta, Djokovic ha stupito tutti e riscritto una pagina della storia di questo sport

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Novak Djokovic - Australian Open 2023 (foto: twitter @AustralianOpen)

È passato un anno. Era infatti lunedì 28 febbraio 2022 quando Medvedev subentrava a Djokovic al vertice della classifica ATP, peraltro interrompendo il monopolio del trono ATP da parte dei Fab Four (Federer, Nadal, Djokovic e Murray – elencati, a scanso di equivoci, in rigoroso ordine cronologico di conquista della prima posizione mondiale) che durava ininterrottamente da ben 18 anni. Da quando cioè – il 2 febbraio 2004 – Roger Federer raggiunse per la prima volta la prima posizione del ranking, dando inizio ad un’era probabilmente irrepetibile, che ha visto per quasi vent’anni il dominio di quattro fuoriclasse assoluti. Sì, consideriamo tale anche Andy Murray, che non vanterà il palmares degli altri tre – ridenominati Big Three proprio dopo che, a partire dal 2017, per i problemi all’anca lo scozzese non è più stato in grado di competere al loro livello – ma che comunque nel periodo in cui duellava con loro ha portato a casa 3 Slam (in 10 finali), 1 ATP Finals, 2 medaglie d’oro olimpiche, 14 Masters 1000 e 41 settimane da n. 1. Ma non divaghiamo, anche se c’è sempre il rischio di farlo parlando di questi quattro fenomeni.

Stavamo dicendo che in quell’ultimo giorno di febbraio di un anno fa Medevdev diventava per la prima volta il n. 1 ATP, superando Djokovic. Il serbo era appena uscito dal “pasticciaccio brutto” dell’espulsione dall’Australia e conseguente forfait all’Australian Open e già sapeva che avrebbe dovuto rinunciare anche ai Masters 1000 di Indian Wells e e Miami, dato l’obbligo di vaccinazione anti Covid previsto per chi si recava negli Stati Uniti. Insomma, Nole si trovava sicuramente in un momento psicologicamente molto difficile. Già reduce dalle delusioni di pochi mesi prima –  la mancata medaglia d’oro olimpica, ma soprattutto il Grande Slam sfumato all’ultimo chilometro, con la finale dello US Open persa proprio contro Medvedev –  aveva appena visto svanire anche il sogno della decima vittoria a Melbourne e stava realizzando che l’annata sarebbe stata costellata da diversi stop and go agonistici in considerazione della sua scelta di non vaccinarsi e che lo strascico di critiche e polemiche annesse a quanto accaduto Down Under –  e in assoluto alla scelta in questione – lo avrebbe accompagnato per parecchio tempo. Ed erano in tanti tra gli addetti ai lavori e gli appassionati a pronosticare che con tutto quel fardello emozionale addosso, per quanto gli era accaduto e gli stava accadendo, difficilmente Nole si sarebbe ripreso del tutto e avrebbe avuto la forza di tornare quella macchina da tennis pressoché perfetta ammirata per tanti anni. E a ritenere, quindi, che il sole sul regno del re serbo fosse tramontato.

In realtà non passò nemmeno un mese che, complici le performance non eccezionali del russo ai Master 1000 di Indian Wells e Miami (anche a causa di un problema fisico che lo ha poi costretto ad operarsi e a fermarsi), il fuoriclasse di Belgrado si riprese lo scettro stando seduto sul divano di casa, vista la rinuncia obbligata al Sunshine Double. Ma i discorsi tornarono d’attualità a metà giugno, quando – usciti dal computo i punti della vittoria al Roland Garros dell’anno precedente – Nole dovette cedere nuovamente la prima posizione a Medvedev. Ci fu il “copia & incolla” di quanto detto e scritto a febbraio, rafforzato da quanto accaduto nel frattempo nel circuito e da quanto si pensava stesse per accadere. L’ascesa prepotente di Alcaraz, che sembrava destinata a proseguire anche nella seconda parte della stagione, soprattutto sul cemento americano. La doppietta Slam di Nadal e la conseguente possibilità che vedendo all’orizzonte la possibilità di realizzare il Grande Slam avrebbe trovato per l’ennesima volta modo di andare oltre gli acciacchi fisici: conoscendo l’animus pugnandi del maiorchino, per molti era quasi una certezza. L’approssimarsi della stagione del cemento americano, dove Medvedev negli ultimi anni aveva sempre reso al meglio.  A queste ed alle considerazioni di febbraio che restavano attuali – dato che per i protocolli Covid in vigore non avrebbe potuto partecipare anche i tornei nord-americani dell’estate, US Open compresi – se ne aggiungevano delle altre a sfavore di Nole: l’impatto della cocente sconfitta contro Rafa a Parigi, il fatto che avesse appena superato i 35 anni, che lui stesso avesse dichiarato apertamente come tra i suoi obiettivi non ci fosse più la prima posizione del ranking ma pressoché esclusivamente i tornei del Grande Slam. La mancata assegnazione di punti ATP al torneo di Wimbledon, il Major che in questi ultimi anni lo vede maggiormente favorito e dove non perde dal 2017, sembrava infine l’ultimo colpo di piccone alla possibilità del campione di Belgrado di restare in scia e magari tentare un nuovo sorpasso a fine stagione, grazie agli amati tornei indoor. Insomma, erano di nuovo in molti quelli convinti che la sesta ascesa al trono fosse stata l’ultima e che si fosse veramente giunti al crepuscolo del suo regno.

 
Novak Djokovic – Roland Garros 2022 (foto Roberto dell’Olivo)

Ed invece eccoci qua, ad annotare l’ennesimo record del fenomeno serbo. Da questa settimana, infatti, Novak ha raggiunto Steffi Graf per numero di settimane in testa alla classifica mondiale, 377. Eh già, perché da qualche settimana siamo al Djokovic VII. Il sole non era tramontato, c’erano solo tante nubi che lo oscuravano. E Novak le ha spazzate via, con la stessa forza con cui la Košava, il potente e freddo vento che arriva dai Carpazi, in questo stesso periodo le spazza via dai cieli della sua Belgrado.

Questo perché i pronostici di metà giugno sono tutti saltati. Medvedev tornò n. 1 ma da quel momento non ne ha azzeccata praticamente una, tanto che adesso è ai margini della top 10 (ci è rientrato lunedì, grazie alla vittoria a Rotterdam dela scorsa settimana). Anche Nadal non è più riuscito ad ingannare le leggi del tempo e dell’usura fisica: infortunatosi a Wimbledon, non è praticamente più tornato competitivo da allora e a Melbourne ha accusato l’ennesimo acciacco fisico che lo terrà di nuovo lontano dai campi per un po’. Alcaraz a dire il vero ha mantenuto le promesse, ha vinto lo US Open ed è diventato il più giovane n. 1 della storia. Ma ha dovuto pagare dazio per una stagione scintillante ma oltremodo impegnativa, con ben 70 partite disputate. Che sono risultate evidentemente troppe anche per un teenager dal fisico corazzato come lui, visto che sono arrivati gli infortuni – prima lo strappo agli addominali al Masters 1000 di Bercy, poi un problema alla coscia prima dell’Australian Open – che lo hanno tenuto fermo da inizio novembre sino alla scorsa settimana, quando è rientrato sulla terra rossa di Buenos Aires (riprendendo peraltro subito le buone abitudini: cioè vincendo il torneo). E se è vero che a Wimbledon non si assegnarono punti, d’altro canto quella vittoria, la settima ai Championships, confermò a Djokovic di essere di nuovo lui. Di aver cioè metabolizzato tutto quanto era accaduto nei mesi precedenti e di poter ancora essere il “RoboNole” che tutti conoscevano. Tanto che dopo la forzata rinuncia ai tornei sul cemento dell’estate nordamericana ha ripreso il discorso da dove lo aveva lasciato sull’erba londinese: il suo score nei tornei ufficiali, da Wimbledon alle ATP Finals è stato di 25 vittorie ed una sola sconfitta. E così anche quel pronostico era stato smentito: Djokovic era tornato.

Novak Djokovic – Torino 2022 (foto Gianpiero Sposito/Fit)

Devo essere meno umile nel 2023: il 2022 mi dice che devo puntare ai grandi tornei, vincerli”. “Voglio rimanere sano e giocare al livello più alto”. Queste le dichiarazioni di Nole a dicembre, poco dopo la sesta vittoria alle ATP Finals che gli ha consentito di raggiungere Federer in testa alla classifica dei plurivincitori del torneo, pienamente in linea con la consapevolezza appena acquisita di essere di nuovo il giocatore da battere. Detto, fatto. Ed è così che a gennaio (aggiornando nel frattempo lo score vittorie-sconfitte dal giugno scorso ad un impressionante 35-1) ha realizzato il sogno sfumato lo scorso anno: ha conquistato il suo decimo Australian Open. Ed è tornato per la settima volta in testa alla classifica. La prima fu il 4 luglio 2011, dopo il suo primo successo a Wimbledon. Raggiunta Steffi Graf, come dicevamo, ma già certo di superarla. Il prossimo lunedì, infatti, il solo Alcaraz potrebbe eguagliare il suo punteggio nel ranking, vincendo questa settimana l’ATP 500 di Rio de Janeiro, ma Nole rimarrebbe comunque il n. 1 in quanto ha conquistato complessivamente più punti tra Slam, Masters 1000 Mandatory e ATP Finals. Tra qualche settimana molto probabilmente dovrà di nuovo abdicare, anche se la prossima facesse bottino pieno a Dubai, dato che i protocolli anti Covid USA non gli consentiranno di partecipare neanche quest’anno al “Sunshine Double”. Ma attenzione: da qui al Roland Garros (compreso), Alcaraz difende oltre 3.000 punti, Nadal poco più di 2.800 punti, Ruud e Tsitsipas circa 2.300, Nole invece meno di 2.000. E poi arriverà Wimbledon, stavolta con i punti in palio. Insomma, un Djokovic VIII e quota 400 settimane non sembrano proprio traguardi impossibili.

Concludiamo l’articolo riportando alcuni dati – anche aggiornando parte di quelli riportati di recente da Ferruccio  Roberti nella sua rubrica “Numeri” – che certificano, al di là dei calcoli del computer ATP, di come il fuoriclasse serbo sia stato il n. 1 del tennis maschile di questi ultimi dodici anni. Diciamo dodici perché è vero che divenne n. 1 per la prima volta a metà 2011, ma la sua supremazia si delineò sin dall’inizio di quella stagione, dato che arrivò a Londra avendo già vinto l’Australian Open e 4 Masters 1000: dopo i Championship, il suo score stagionale fu di cinquanta vittorie ed una sola sconfitta, quella nella semifinale del Roland Garros contro Federer. A partire dal 2011 Djokovic ha vinto 21 dei 45 Slam (il 46,7%) e 33 dei 79 Masters 1000 (41,7%) a cui ha partecipato. In questo lasso temporale solo Nadal è riuscito a stargli (quasi) a ruota, grazie soprattutto al predominio sulla terra battuta: Rafa ha infatti vinto 13 Slam e 18 Masters 1000, di cui rispettivamente 9 e 13 sul mattone tritato. Molto più lontani gli altri due Fab Four, a partire da Sua Maestà Roger Federer che negli ultimi dodici anni ha vinto 4 Slam e 11 Masters 1000. Giusto evidenziare come il fenomeno di Basilea abbia scontato la differenza di età con i suoi grandi rivali: in quel 2011 Roger compì trent’anni, Djokovic 24 e Nadal 25. Per il coetaneo di Nole, Murray, 3 Slam e 8 Masters 1000, ma come già detto è stato competitivo al top per i primi cinque anni, fino al 2016. E tornando a parlare della prima posizione del ranking vera e propria, da quel 4 luglio 2011 Djokovic, come dicevamo, ha occupato la prima posizione del ranking ATP per 377 settimane, ovvero per il 64,3% del tempo (sono escluse dal calcolo le 22 settimane in cui il ranking fu congelato per la sospensione dell’attività a causa della pandemia). Gli altri lo seguono ben distanti: Nadal 107, Murray 41 e Federer 25.

Novak Djokovic - Australian Open 2023 (Twitter @rolandgarros)
Novak Djokovic – Australian Open 2023 (Twitter @rolandgarros)

Certo, la vittoria a Melbourne per quanto netta ha comunque fatto capire, visto il problema muscolare accusato alla coscia e risolto quasi miracolosamente (uno dei possibili argomenti della conferenza stampa indetta per oggi all’ora di pranzo a Belgrado, dato che aveva accennato a tale possibilità verso la fine dell’Australian Open; un altro potrebbe essere un aggiornamento sullo stato di avanzamento della sua richiesta di un permesso speciale per giocare tra due settimane negli USA), che neanche il fisico bionico di Djokovic può sfidare le leggi del tempo. E che i quasi 36 anni, le oltre 1.200 partite da professionista, i diciotto anni e mezzo nel circuito maggiore (l’esordio fu ad Umago nel 2004, perse al primo turno contro l’attuale capitano azzurro di Davis, Filippo Volandri), prima o poi presenteranno il conto anche a lui.
Anche se con tutte le volte che ci ha sorpreso in questi anni quasi quasi un piccolo dubbio viene… Viene quasi quasi da chiedersi, tra il serio e il faceto (del resto siamo a Carnevale, no?), se siamo proprio sicuri che tra tutto quello che Djokovic ha studiato, scoperto, fatto e utilizzato per prendersi cura del proprio corpo, sia dal punto di vista fisico che spirituale – la camera iperbarica, la dieta, lo yoga, la meditazione -, non ci sia anche lo specchio di Dorian Gray? E che magari lui abbia trovato il modo per renderlo infrangibile. Per continuare a riflettere quel sole che, probabilmente, vorrebbe non tramontasse mai.

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Australian Open

Nei dintorni di Djokovic AO Edition: a Melbourne è l’ora del D10KO?

Per gli addetti ai lavori è Djokovic il grande favorito dello Slam di apertura della stagione 2023. Vediamo cosa fa pensare che assisteremo alla sua decima cavalcata trionfale a Melbourne e cosa invece può far dubitare che l’aggancio a Nadal a quota 22 Slam sia dietro l’angolo

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Novak Djokovic, Australian Open 2021 (via Twitter, @AustralianOpen)

Sono passati meno di due mesi dalle ATP Finals e ancor meno dalle fasi finali della Coppa Davis ed il tennis professionistico torna a fare sul serio: lunedì a Melbourne inizia il primo Slam stagionale, l’edizione n. 111 dell’Australian Open. E come si immaginava quando c’è stata la conferma della revoca del divieto di ingresso in Australia per tre anni comminatogli dopo quanto accaduto lo scorso anno, il grande favorito è Novak Djokovic. Il fuoriclasse serbo è a caccia del suo decimo Slam Down Under, che significherebbe agganciare Nadal a quota 22 nella classifica totali dei Major vinti e, tanto per non farsi mancare nulla, anche la riconquista – ne entrerebbe in possesso per la settima volta – di quello scettro di n. 1 mondiale che ha tenuto per più tempo di tutti (373 settimane). Ma quali sono i motivi principali che portano a ritenere il 35enne campione di Belgrado in grado di portare a termine l’ennesima impresa da record – il secondo tennista in campo maschile a raggiungere la doppia cifra nelle vittorie di un singolo Slam dopo Nadal al Roland Garros – e quali invece i segnali che portano invece a ipotizzare che ci sia la possibilità che i pronostici vengano sovvertiti? Abbiamo cercato di riassumerli qui di seguito.  

I punti a favore

Sia parlando di dati statistici che di risultati recenti, i numeri sono dalla parte di Nole. Che si presenta ai nastri di partenza con una imbattibilità sui campi di Melbourne Park che dura dal 2019 (striscia di 27 vittorie consecutive: ultima sconfitta nel 2018, contro Chung negli ottavi), con tre vittorie nelle tre ultime partecipazioni, ed un parziale negli ultimi sette mesi di 30 vittorie ed una sola sconfitta (la finale del Masters 1000 di Bercy contro Rune) in match ufficiali. Ne dovrebbe derivare un serbatoio dell’autostima bello pieno, e sappiamo quanto conti per il belgradese poter approcciare un grande evento con la miglior attitudine mentale. Considerazione, quest’ultima, rafforzata dalle prestazioni della scorsa settimana ad Adelaide, che hanno evidenziato come anche tecnicamente e fisicamente la condizione del tennista serbo sia ottimale. Aggiungiamo il fatto che il lotto dei suoi principali competitors non è che invece se la passi benissimo: se ci focalizziamo sui più recenti campioni Slam, Alcaraz è fuori dai giochi, Nadal non ha brillato alla United Cup e le recenti dichiarazioni ottimistiche non possono dissipare i dubbi sul suo stato di forma, Medvedev in queste non ha dato segnali di essere tornato quello del biennio 2020-2021 e non la copia un po’ sbiadita vista all’opera lo scorso anno.

Anche il sorteggio pare sia stato benevolo con Nole. Non si vedono infatti grossi ostacoli sino ai quarti di finale, anche se la sfida a Carreño Busta a livello di ottavi evoca spiacevoli ricordi newyorchesi. Nei quarti invece qualche problemino – e ci mancherebbe altro, potrebbe dire qualcuno, dato che è uno Slam e siamo a livello di top ten – potrebbe arrivare. A rigor di classifica a procuraglieli dovrebbe essere il n. 6 del mondo Rublev, ma forse potrebbe averne qualcuno in più se dall’altra parte della rete trovasse quel Rune che è l’unico che può dire di averlo battuto da giugno a questa parte in un torneo ufficiale. E probabilmente sarebbero anche maggiori se invece ci fosse quel Kyrgios che il primo set della finale di Wimbledon glielo aveva portato via e che di fronte ai suoi connazionali trova sempre energie e soprattutto motivazioni extra. Ma un Nole che arriva alla seconda settimana senza aver speso troppe energie sotto il sole dell’estate australiana, e i suoi potenziali primi tre turni rendono l’ipotesi parecchio plausibile, dovrebbe essere nelle condizioni psicofisiche ottimali per tenere a bada tutti i nomi fatti, compreso il suo nuovo amico di Canberra. Anche i possibili incroci in semifinale non paiono ostacoli insormontabili: per quanto entrambi siano in evidente crescita, affrontare uno tra Ruud (anche se noi speriamo che da quello spicchio di tabellone salti fuori Berrettini) e Fritz – anche qui qualche doloroso ricordo, anche se tutto è bene quel che finisce bene – per arrivare alla trentatreesima finale Slam non è la peggiore delle combinazioni possibili.

 

In finale dovrebbe trovare uno tra – in ordine di ranking – Nadal, Tsitsipas (qui per Sinner vale ovviamente la stessa speranza espressa prima per Berrettini) o Medvedev. Con il maiorchino, al netto delle considerazioni precedenti sul suo stato di forma, al di fuori della terra battuta non perde da quasi 10 anni (finale US Open 2013) e nell’ultima sfida a Melbourne, la finale 2019, dominò. Con il greco non perde dal 2019 ed ha vinto gli ultimi sette head to head, comprese le due sfide Slam finite al quinto a Parigi. Con il russo c’è sicuramente la ferita della sconfitta subita nella finale dello US Open 2021 che ha fatto svanire il sogno del Grande Slam proprio sul traguardo, ma all’inizio di quell’anno un Nole non a corto di energie come a New York aveva vinto in tre set la finale australiana e abbiamo già detto che Daniil non sembra ancora uscito dal tunnel 2022, stagione che lo ha visto perdere tre sfide su tre contro Nole. Insomma, a questo punto, per mettere un po’ di pepe forse vale la pena inserire anche il nome di Auger-Aliassime tra quelli dei possibili finalisti, dato che prima o dopo ci arriverà e considerato il fatto che tra tutti i giocatori citati è l’unico insieme a Rune che è in parità negli scontri diretti con il fenomeno serbo, anche se solo grazie al fatto che la vittoria nella Laver Cup su un Djokovic acciaccato è calcolata nelle statistiche. Ma con FAA o senza, la sensazione è che la sostanza non cambi: chiunque si troverà di fronte in finale, il campione serbo partirà favorito.

I punti di attenzione

Insomma, tutto sta filando liscio e non ci sono dubbi che Nole metta nella bacheca del suo Novak Tennis Center di Belgrado l’ennesima riproduzione della coppa del vincitore dell’Australian Open? Keep calm, per dirla come gli australiani (a meno che nel loro tipico slang non abbiano un modo diverso per dirlo, ma non risultava). Al netto dell’ovvia considerazione che nello sport non è mai finita finché non è finita e che di clamorose eliminazioni dei grandi favoriti sono pieni gli annali, non è che proprio tutto stia filando liscio come l’olio in casa serba. Ci sono infatti dei segnali che possono dare un po’ di coraggio ai suoi avversari e che probabilmente si possono ricondurre tutti ad un’unica considerazione: nonostante in campo cerchi di non darlo a vedere (e gli riesce benissimo), Nole veleggia verso le 36 primavere. E per quanto appunto non abbia niente dell’agonista over 35, si può notare come qualche acciacco ogni tanto inizi a saltar fuori anche per lui. È successo sia la scorsa settimana durante il torneo di Adelaide, sia in questi giorni di allenamento a Melbourne. Niente di preoccupante, a suo dire. Ma come sappiamo che quando sente girare tutti gli ingranaggi alla perfezione Djokovic è in grado di trasformarsi in RoboNole e diventare pressoché imbattibile, dall’altra parte abbiamo anche visto che quando invece percepisce che qualcosa non va nel verso giusto la cosa può impattare sul suo approccio in campo e far intravedere qualche crepa nel suo gioco, in cui gli avversari più accorti possono infilarsi (ed è logico pensare a Nadal, anche solo ricordando la rimonta da 2-5 nel quarto set dei quarti dell’ultimo Roland Garros). Il nervosismo dimostrato nella finale di Adelaide ne è l’esempio più recente.

E non si può inoltre non osservare il fatto che comunque, anche se alla fine la vittoria la porta poi a casa praticamente sempre lui, Nole nell’arco di un match non appare più così dominante come in passato. Giocoforza, infatti, dopo vent’anni dalla prima partita da professionista – era il 6 gennaio 2003, perse al primo turno di un ITF in Germania – e oltre 1200 partite a livello ATP, l’intensità in campo non può più essere sempre quella di una volta: i momenti di pausa durante i match sono un pochino più frequenti, le chance non vengono sfruttate con la chirurgica lucidità di qualche anno fa. E anche se, soprattutto al meglio dei cinque set, la classe, l’esperienza e la forza mentale gli permettono di alzare il livello e fare ancora la differenza nei momenti decisivi di un match, far rimanere in partita avversari che spesso hanno dieci e più anni di meno e soprattutto non hanno telaio e motore usurati da centinaia di partite in più, può diventare estremamente pericoloso se la partita si allunga e il fisico diventa il fattore più rilevante, specie sotto il cocente sole australiano.

Conclusioni

Diciamo che se il fisico non lo tradisce, tutto fa pensare che sia l’ora del D10KO, se ci consentite di sintetizzare così, a mo’ di hashtag, l’obiettivo del fuoriclasse belgradese: la conquista della decima vittoria a Melbourne. L’unico appiglio per gli avversari è appunto il fatto che il tempo, citando Jovanotti, “comunque vadano le cose lui passa” e quindi ad un trentacinquenne può presentare il conto quando meno se lo aspetta. A proposito, com’è la statistica dei vincitori Slam over 35? Ah, già: Federer e Rosewall a quota tre vittorie, Nadal a due e Djokovic a una. Lo ammettiamo, non l’avevamo considerata nel fare le nostre riflessioni. Ma, tutto sommato, che rilevanza volete che abbia? Nole mica è il tipo che si pone sempre nuove sfide e trae energia dai nuovi obiettivi, come diventare non solo il giocatore con più vittorie Slam in assoluto ma anche da over 35, no?

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Nei Dintorni di Djokovic: Bedene, un addio senza rimpianti. Ma con un sogno

Si ritira Aljaz Bedene, miglior tennista sloveno di sempre. Senza rimpianti, ma con un piccolo rammarico (“Il Covid è arrivato quando potevo fare un ulteriore salto di livello”). Nel suo futuro, ancora spazio per il tennis: “Vorrei aiutare i giovani sloveni. Io ho fatto da solo, non vorrei fosse così anche per loro”

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Aljaz Bedene (fonte: Instagram)

Al termine del match perso contro Musetti al primo turno del Croatia Open di qualche settimana fa, lo speaker ha chiesto al pubblico di salutare con particolare affetto Aljaz Bedene, dato che quello era stato il suo ultimo match ad Umago: a settembre, infatti, il tennista sloveno si ritirerà dal tennis agonistico. Undici partecipazioni ad Umago (solo il cinque volte campione del torneo, Carlos Moya ha fatto meglio), di cui nove nel tabellone principale: dal 2011 ad oggi il tennista di Lubiana è stato presente a tutte le edizioni del Croatia Open. Miglior risultato i quarti di finale raggiunti nel 2013 e nel 2019: sconfitto in entrambe le occasioni dal futuro vincitore del torneo, rispettivamente Tommy Robredo e Dusan Lajovic. “Non ho mai voluto rinunciare ad Umago. Neanche lo scorso anno dopo che avevo appena avuto il Covid. È il mio torneo di casa, è quello più vicino a casa. Per me qui è diverso rispetto a qualsiasi altro torneo. E oggi c’era un’atmosfera particolare” ha commentato Bedene, che la prossima settimana giocherà lo US Open e poi chiuderà davanti al suo pubblico, in Slovenia, nel playoff del World Group II di Coppa Davis contro l’Estonia.

Che Bedene fosse ai titoli di coda lo aveva “spoilerato” ufficialmente in maggio Novak Djokovic (in Slovenia la notizia, in realtà, girava da un po’) nella conferenza stampa prima del loro match di terzo turno del Roland Garros. E proprio dopo quel match, insieme ad un collega sloveno avevamo chiesto di intervistarlo per saperne di più sulla sua decisione e per ripercorrere insieme a lui la sua carriera. Ma la prima domanda, la più ovvia, ci veniva rubata da una giornalista serba. Che si materializzava all’improvviso nel salottino e sfruttando il classico momento di attesa prima dell’inizio – quando il giocatore si sta ancora sedendo, per capirci – coglieva l’attimo per chiedere al tennista di Lubiana se ci fossero margini per un ripensamento. “No, credo proprio di no. Sto già pensando ad altre cose” la risposta decisa di Bedene, che alla successiva domanda su cosa intendesse fare una volta appesa la racchetta al fatidico chiodo aggiungeva un vago “Ho alcuni progetti”.

Sparita la collega (che, ad onor del vero, aveva poi chiesto scusa per il blitz) abbiamo potuto iniziare a riavvolgere con il 33enne tennista sloveno il nastro della sua carriera. Quando lo si fa, nel guardare indietro un giocatore magari scopre di avere qualche rimpianto. Per Bedene, ad esempio, poteva essere il non aver vinto nessun titolo del circuito maggiore, pur arrivando per quattro volte in finale (ben diverso lo score a livello Challenger, dove ha vinto 16 delle 18 finali disputate: l’ultima proprio nel torneo di Casa, l’Open di Slovenia a Portorose, nel 2019). Ma per Aljaz non è così.  “Sinceramente, non ho rimpianti. Forse l’unica cosa che mi dispiace è che nel momento in cui volevo e sentivo che potevo fare quel passo per salire di livello, è arrivato il Covid. In quel momento stavo giocando veramente bene: non dico da top 20, ma sicuramente da top 30.” Andando a vedere i risultati in quell’inizio di 2020 prima che la pandemia stravolgesse la vita di tutti, effettivamente Bedene si stava veramente esprimendo bene sul campo da gioco: in quel mese e mezzo era arrivato due volte nei quarti, tornando dopo quasi due anni nella top 50. E arrivava da un ottimo finale di stagione 2019, con una finale e due quarti. “Però, come dire, non ho rimpianti perché ho sempre dato il massimo di quello che potevo e anche questo è un qualcosa che non è dipeso da me. Dopo, tra la pandemia prima e l’infortunio poi, ho perso molta motivazione.”

 

Continuando a riavvolgere il nastro, su una nostra specifica domanda sulla questione, ecco che però un piccolo, piccolissimo rimpianto salta fuori. Bedene, infatti, condivide il primato della miglior classifica ATP di un tennista sloveno in campo maschile con Grega Zemlja, entrambi saliti sino alla posizione n. 43. E ritenendosi, per i risultati raggiunti, il miglior tennista sloveno di sempre, c’è un piccolo rammarico per il fatto che il best ranking non ne sia una ulteriore prova. “Ecco, forse quella posizione n. 43 in coabitazione. Però ho giocato così tanto nel circuito ATP, nei tornei del Grande Slam, che credo di poter dire di essere comunque, di gran lunga, il miglior giocatore sloveno.”

In effetti i numeri danno ragione al 33enne nativo di Lubiana. Per Bedene lo US Open d’addio sarà il trentacinquesimo torneo del Grande Slam. Miglior risultato – sinora – il terzo turno, raggiunto in ben sei occasioni: tre volte a Parigi, l’ultima proprio nel 2022, due a Wimbledon e una allo US Open. Piccola curiosità (dato il nome della rubrica, è doveroso riportarla): a stopparlo al suo primo e al suo ultimo terzo turno Slam, entrambi giocati a Parigi, è stato sempre Novak Djokovic e sempre lasciandogli otto giochi (distribuiti praticamente in modo quasi identico: 62 63 63 nel 2016, 63 63 62 lo scorso maggio). Tornando ai numeri di Bedene, tra Slam, circuito ATP e Davis, arriva a sfiorare quota 300 match giocati (quella con Musetti ad Umago è stata la partita n. 296). Nel confronto con l’altro n. 43 ATP della storia del tennis sloveno, Zemlja, non c’è storia: il 35enne di Jesenice non arriva a cento match ai massimi livelli, ha disputato solo una finale ATP e ha giocato in tutto 11 Major (miglior risultato gli ottavi anche per lui, però in due sole occasioni: una a Wimbledon e una a New York). Per dirla tutta, ci sarebbe da aggiungere che Zemlja è nettamente in vantaggio negli scontri diretti: 6-1. In realtà, però, dato che parlavamo di circuito ATP e Slam va specificato che nessuno di questi si è giocato a quel livello. Se non l’ultimo, proprio quello vinto da Bedene, nel primo turno delle qualificazioni – e quindi l’ATP non lo conta nelle statistiche del circuito – dell’ATP 250 di Zagabria del 2015. Gli altri sono tutti match a livello Challenger e Future, dove i quasi tre anni di età e i quattro di professionismo in più di Zemlja hanno avuto indubbiamente il loro peso contro il più giovane e meno esperto connazionale.

Tornando al rewind della sua carriera ed alle quattro finali ATP perse, è stato logico anche chiedergli in quale occasione si è sentito di essere andato vicino ad alzare la coppa del vincitore. “A Metz nel 2019, contro Tsonga. Ero sopra 7-6 4-3 e palla break. Ma ripenso anche quella contro Pouille. Stavo giocando veramente bene (ATP 250 di Budapest, nel 2017: da qualificato, arrivò in finale senza perdere un set, ndr), e al mattino prima della finale mi si aprì una vescica sulla mano. Giocai la finale, ma senza poter essere competitivo, veramente un peccato.”

Confidando nel fatto che immerso nei ricordi del passato potesse essere un pochino più facile che ci rivelasse qualcosa del suo futuro, abbiamo provato ad avere più fortuna della collega serba, ributtando lì la domanda su cosa pensa di fare da ottobre prossimo in poi. Bedene è rimasto ermetico su quella che probabilmente è la sua “business idea” principale (“Un grande progetto di cui non posso parlare perché è ancora in fase di definizione“, che i rumors in Slovenia dicono sia la creazione, insieme al fratello, di un’agenzia di management per sportivi), ma qualcosa – e anche di interessante – del suo futuro alla fine ce lo ha detto. “Posso dire che vorrei comunque rimanere anche nel tennis, vorrei aiutare i giovani tennisti sloveni. In Slovenia non abbia strutture adeguate che possono aiutare a crescere quelli con maggiori prospettive. Quindi mi sto concentrando anche su quello.

Ecco allora un nuovo tuffo nei ricordi, stavolta più lontani nel tempo: quelli degli inizi, dei primi passi per diventare un tennista. E dalle parole di Bedene traspare un po’ di rammarico. “Se ripenso a com’ero io da ragazzo… Se sedici anni fa avessi saputo quello che so oggi o se avessi avuto vicino qualcuno che aveva le competenze necessarie, avrei fatto le cose diversamente. Di fatto noi eravamo soli, i genitori hanno fatto ciò che potevano e sapevano, sono stati fantastici… Ma partivamo tutti da zero. Proprio per questo vorrei aiutare i giovani sloveni. Se ci sono giovani come me ai tempi, con del talento, vorrei aiutarli. In questo momento abbiamo Bor Arntak, che è tra i primi dieci al mondo a livello juniores, ma dove può allenarsi? Chi può avere come sparring partner per crescere ulteriormente? Sì, ci siamo noi “vecchi” (lui ed il 31enne Blaz Rola, altro giocatore sloveno ancora in attività, che è stato top 100, ndr), ma, onestamente, siamo in ritardo di una decina di anni rispetto ai paesi più avanzati dal punto di vista tennistico. In primis in termini di strutture, ma anche di competenze e conoscenze. Certo, dovrebbe essere qualcun altro a farlo, ma proverò a farlo io”.

Queste parole di Bedene ci fanno fare un salto in avanti, ad un altro momento molto significativo della sua carriera. Con il pensiero però, senza andare a tirar fuori nuovamente la storia direttamente con Aljaz, dopo tutto questo tempo. Un salto al 2015, quando chiese di poter difendere i colori della Gran Bretagna in Coppa Davis dopo aver ottenuto la cittadinanza britannica. A quei tempi disse in più occasioni che si trattava anche un gesto di gratitudine verso una nazione (e la sua federazione) che gli aveva permesso di realizzare il suo sogno di diventare un giocatore professionista: Bedene si era infatti trasferito in Inghilterra nel 2008, a 19 anni. Implicitamente, con le sue parole, ha ricordato quanto sia stata fondamentale per il suo futuro agonistico la scelta di lasciare la Slovenia. Anche quella del 2015 avrebbe potuto rivelarsi fondamentale per la sua carriera, dato che se la sua richiesta fosse stata accolta (ricordiamo che fu respinta perché Bedene aveva già giocato per la Slovenia in Davis e una regola inserita proprio all’inizio di quell’anno vieta ad un tennista di giocare per due nazionali di Davis diverse) sarebbe stato schierato come secondo singolarista. E proprio alla fine di quel 2015 Andy Murray – con cui in quegli anni si allenava – trascinò la Gran Bretagna alla conquista dell’insalatiera.

Ne è passata di acqua sotto i ponti, da allora. Vistosi respinta definitivamente la richiesta nel 2017, dall’anno successivo Bedene tornò a difendere i colori sloveni in Coppa Davis, anche per tentare di coronare il sogno di partecipare alle Olimpiadi di Tokyo. Sogno purtroppo sfumato, tra Covid, rinvio dei Giochi e infortunio. Ma Aljaz non ha dimenticato il suo percorso. E da quella gratitudine che non è riuscito a dimostrare a chi lo accolse ragazzino di belle speranze e lo fece diventare un tennista di alto livello. è passato a voler provare ad essere lui a dare, in Slovenia, quell’aiuto che non ha mai potuto avere.  L’ex top 50 infatti prosegue nel suo discorso. “Quello che manca è un sistema. Quando ho visto cosa hanno iniziato a fare gli italiani qualche anno fa ho pensato “Wow, fantastico” e guarda adesso dove sono i giocatori italiani. Certo, avevano più risorse ed hanno potuto investire di più, ma comunque quello che è stato fatto è creare un sistema. Noi in Slovenia non abbiamo un sistema, bisogna crearlo e da qualche parte bisogna pur iniziare. Lo ripeto servono strutture e bravi professionisti, poi arriveranno i giocatori.”

Chissà, forse tra qualche anno quel piccolissimo rimpianto per Aljaz Bedene non avrà più ragione di esistere, perché grazie al suo impegno arriverà un altro giocatore sloveno che farà meglio di quella posizione n. 43.  E ci sarà riuscito senza dover andare in un altro paese. Allora buona fortuna, Aljaz. Anzi, glielo diciamo in sloveno: srečno, Aljaž!

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