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09/02/2012 12:52 CEST - ATP

Là dove piatto
non è il colpo

TENNIS - Le riflessioni aperte dal primo Slam della stagione non vedono placamento: epoca d'oro o sopravvalutata? La finale di Melbourne è il risultato di un processo che ha probabilmente portato ad un appiattimento, sia sul campo che fuori. La qualità c'è, ma un tennis che sta arrivando allo zenit dell'omologazione e un entusiasmo spesso acritico sono segnali che qualcosa va cambiato. Riccardo Nuziale

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CAPITOLO I – LE GIOVANI MARMOTTE MI SPIEGANO IL TENNIS
La prima volta non si scorda mai. E chi l’ha detto? Ad esempio io, appassionato di cinema, non ricordo assolutamente il primo film visto in sala, tantomeno in assoluto. Io, appassionato di musica, non ricordo il primo album ascoltato. Per quanto riguarda invece il tennis qualche certezza in più ce l’ho. La prima partita vista integralmente è stata la finale del Roland Garros 1993, Bruguera-Courier. Naturalmente tifai Big Jim (americano, numero 1 del mondo, cappellino…il perfetto stereotipo che attecchisce su un bimbo di 10 anni) e naturalmente vinse Bruguera al quinto, presagio di quanti problemi mi avrebbero dato gli spagnoli nella vita (tifosi di Rafa, giù le molotov: non sto parlando di lui, bensì della filosofia tennistica iberica).
Ma ancor prima di quella partita, il primissimo approccio avuto col tennis lo devo ad un libro. La bibbia clericiana “500 anni di tennis”? No, il quarto manuale delle Giovani Marmotte, quello dedicato allo sport. Libro che in questi giorni ho cercato disperatamente, giungendo alla resa di chi sa di aver perso qualcosa per sempre. Non l’ho più, probabilmente è stato vittima di una delle periodiche cernite che la casa mi impone: o rimani tu, o i tuoi libri-cd-dvd. Sono scelte dolorosissime, credetemi.
In realtà di quel manuale ricordo nitidamente solo un’immagine, un disegno, tre palline che rimbalzano sulle tre superfici classiche: alta e lenta sulla terra battuta, campo per il gioco regolare e fisico; bassa e veloce sul cemento, campo per un gioco offensivo e basato sull’uno-due; irregolare e soggetta ad effetti imprevedibili sull’erba, campo in cui il gioco a rete non è solo consigliato, ma fortemente incoraggiato.
Che bello, avere certezze! Semplici, lineari, cristalline. Spiegazione degna dell’educazione sessuale del Libro dei Perché, il crollo dell’assioma delle cicogne.

CAPITOLO II – MONET DIPINGE SEMPRE LO STESSO LUOGO, BASINSKI FISSA L’ISTANTE IN SUONO

Tra il 1892 e il 1894 Claude Monet ebbe una fissazione, un’infatuazione ossessivo-compulsiva: dipingere più e più volte lo stesso soggetto, vale a dire la facciata della Cattedrale di Rouen, una delle più grandi meraviglie del gotico architettonico. Interesse di Monet non era tanto l’edificio in sé, quanto il fissare su tela la diversa percezione della cattedrale a seconda del cambio di orario, condizioni di luce e atmosferiche. In anticipo sul cinema (nato ufficialmente a fine 1895), Monet ha intuito quindi il movimento seriale, fissare su tela/pellicola minime variazioni per dare l’illusione, una volta accostate l’un l’altra tutte le tele, di movimento e cambiamento. Ma tratta(va)si appunto di illusione.
11 settembre 2001. Il musicista ambient William Basinski stava terminando di trasporre in formato digitale vecchi suoi lavori (risalenti a vent’anni prima) ancora fissati su nastro magnetico, quando avvennero gli attacchi terroristici alle Torri Gemelle. Basinski si precipitò con alcuni amici sul tetto del proprio appartamento per assistere allo “spettacolo”, ascoltando in sottofondo proprio quei nastri, serie di loop che si avvolgevano su sé stessi potenzialmente all’infinito. Nacque così (uscita su cd tra il 2002 e il 2003) la tetralogia The Disintegration Loops, suoni che si ripetono per tutta la durata dei brani e che, per un difetto del trasferimento al digitale, pian piano si sgretolano, si accartocciano, si fanno ruvidi, penetranti, appunto si disintegrano. Ideale requiem di ogni tragedia umana, la tetralogia è uno dei capolavori più osannati del decennio, in campo ambient ma non solo (lo scorso 11 settembre, in occasione del decennale, il lavoro è stato proposto live da un’orchestra al Metropolitan Museum of Art). Quel giorno Basinski girò anche un video, che riprendeva semplicemente la novella Cattedrale (del dolore) di Rouen durante l’ultima ora di luce: le quattro copertine degli album sono appunto istantanee di quel video. Ancora una volta illusione di movimento dove invece c’è solo fissità.

CAPITOLO III – LA TERRA TREMA. MA NESSUNO SI MUOVE
Lo scorso 27 gennaio c’è stata nel nostro territorio la seconda scossa di terremoto in pochi giorni, come ben sapete. Dov’ero io? In palestra, impegnato con la mia abituale safiniana dedizione al modellamento del corpo. Ero concentrato tra una pausa e l’altra quando vidi che lo specchio davanti a me cominciò a vibrare vistosamente. Con nonchalance mi guardai attorno per vedere se era veramente quello che pensavo e in effetti le vibrazioni erano ben percettibili, soprattutto se si guardava il ventilatore del soffitto. Ma nessuno – e sottolineo nessuno – si agitò, si guardò attorno, diede un minimo segno di nervosismo. Nessuno se n’era accorto. Attimi grotteschi, in cui i dubbi sulla mia instabilità mentale cominciavano a farsi minacciosi, quando finalmente vidi arrivare dal corridoio un uomo piuttosto preoccupato che parlava al telefonino, chiedendo delucidazioni sulla scossa appena passata. Ero salvo, non mi ero sognato tutto: “l’unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo”.

CAPITOLO IV – TRUMAN BURBANK VEDE BICI, FIORI E MAGGIOLINI E CAPISCE TUTTO
A proposito di chi probabilmente si è creduto pazzo. La scena che probabilmente preferisco di The Truman Show, film che penso tutti voi avete visto, è quella in cui Truman, quasi in stato di trance, fa notare in macchina alla moglie una strana "coincidenza", ovvero che presenze (una donna su una bici rossa, un uomo con dei fiori e un maggiolino col paraurti ammaccato) si manifestano ciclicamente sempre allo stesso posto, nello stesso ordine; è il momento della presa di coscienza da parte di Truman di essere nient'altro che un prodotto, dove l'autenticità, anche la più basilare (come l'affetto dei suoi cari), è plastificata, essa stessa prodotto di consumo. Tale consapevolezza culminerà con la fuga contro le colonne d'Ercole del cielo dipinto. Il cielo in una stanza, e se non dovessimo rivederci buon pomeriggio, buona sera e buona notte.

CAPITOLO V – «PER OSIRIDE E PER API, ADESSO TU SEI UN CINGHIALE» ASTERIX NON LA BEVE
Ci sono (pochi) film dell’infanzia che non hanno minimamente temuto la presunta consapevolezza critica assunta negli anni dal sottoscritto. Asterix e le 12 fatiche è uno di questi, non solo perché autentico mitra di battute strepitose, ma anche perché pieno di carica satirica tutt’altro che banale. L’episodio in questo più elogiato è quello della casa che rende folli (ancora con sti pazzi…), ferocissima accusa alla burocrazia e alle istituzioni, mentre è molto meno considerata (seppur amatissima per alcune battute) la fatica riguardante Iris, il mago egiziano assunto da Cesare per ipnotizzare e far uscire di senno Asterix. Una tecnica ipnotica da far invidia alla cura Ludovico, con gli occhi del mago che s’illuminano minacciosi e fissi su quelli di Asterix mentre snocciola riti strampalati. Quale metafora più forte del potere mediatico sulle nostre coscienze? Media che ci ammaliano, controllano, imboccano. Asterix, ometto dall’intelligenza superiore, ebbe la forza di ribellarsi, facendo impazzire a sua volta Iris. Ma tra di noi ci sono più Asterix od Obelix?

CAPITOLO VI – TUTTE LE VITTORIE SONO UGUALI, MA ALCUNE VITTORIE SONO PIÙ UGUALI DI ALTRE
Torniamo alla finale di Melbourne. Basta, direte voi giustamente, non se ne può più. Avete ragione, ma concedetemi solo un paio di minuti. Innanzitutto per ringraziare tutti i lettori che hanno commentato il mio pezzo del giorno dopo la finale, sia chi l’ha elogiato sia chi l’ha criticato (guai se un articolo dovesse solo piacere). Temo però ci sia stato un malinteso di fondo: non si parlava di Nadal e Federer, bensì della percezione mediatica delle loro figure e gesta. Ho voluto specificare questo perché spero che tale malinteso non si riproponga ora.
Quel lunedì infatti guardai solo la sera l’articolo di Alberto Giorni che sintetizzava l’accoglienza della stampa internazionale verso quella finale. E tra elogi ed iperboli su Nole, mi sfuggì in un primo momento la copertina di Marca.
Sottolineo nuovamente: lasciamo stare Nadal. Non è lui il soggetto, non è lui il bersaglio della mia critica. Ma capirete bene che quando vidi la copertina del quotidiano più letto in Spagna (non un giornaletto scolastico), tornai allo sbigottimento del terremoto: sogno o son desto? I beg your pardon? Excusez moi? Va…vamos Rafa (con tanto di gigantografia manco avesse completato il Grande Slam e con tanto di quadretto per Djokovic come dire “ah sì, scusate, ha vinto lui”)?
Andai preoccupato sul sito dell’ATP: magari ero stato vittima di uno scherzo, avevo visto 6 ore di un’altra partita. E invece no, aveva vinto Djokovic. Però qui diceva “Vamos Rafa”. I dualismi che fanno male alla coscienza, i dubbi che ti divorano l’anima: le Giovani Marmotte mi avevano insegnato che nel tennis non c’è pareggio, uno degli aforismi più gettonati in telecronaca da Rino Tommasi (aforisma non suo, ma che ormai collego a lui) era “il pareggio è come baciare tua sorella”. E io la sorella manco ce l’ho.

CAPITOLO VII - «I HAVE A DREAM» DISSE L’UOMO CON LA LANTERNA IN PIENO GIORNO
E arrivo quindi al punto. Perché questo lunghissimo, estenuante giro di parole? Per dire che se c’è una cosa che non sopporto, da amante ventennale (aiuto) di questo sport, della scena tennistica attuale è la sua terribile piattezza. Non mediocrità, piattezza. E questo a livello globale: tecnico, umano, di pensiero, mediatico. Vado a spiegarmi meglio.
TECNICO: A differenza di molti lettori e appassionati, non considero il panorama odierno tecnicamente basso, anzi, così come non credo che la finale tra Djokovic e Nadal non sia stata di primissimo livello (è stata a mio gusto personale soporiferamente noiosa, ma comunque a suo modo perfetta). Il problema a mio avviso è un altro: non è contemplata alcuna variazione a questo tipo di tennis. In altre parole è l’unico tennis che si può vedere e godere ad altissimi livelli, l’unico con cui si può vincere. Mi trovo fortemente in disaccordo con chi sostiene che le superfici siano state rallentate; le superfici sono state standardizzate, omologate, depauperate delle loro intime caratteristiche. Diciamolo senza remora: oggigiorno parlare di passaggio di superficie fa ridere, si gioca 12 mesi all’anno sullo stesso campo, cambia solo il colore (ciao, Monet). Una superficie mediamente veloce, dove si può mediamente attaccare e mediamente difendere e dove si può vincere mediamente solo con il tennis ammirato nella finale di Melbourne. Che è un tennis a suo modo straordinario, ripeto, ma che non è – che non deve essere – l’unico. L’anno tennistico deve tornare ad essere ben definito da filosofie e stili di gioco antitetici (perché se è vero che l’erba di Wimbledon è terra verde, come fa comodo ricordare agli amanti del serve & volley, è altrettanto vero che il rosso di Parigi è veloce da far spavento). E sarei anche più radicale di chi vorrebbe nuovamente superfici differenziate. Non mi limiterei a questo, ma abbinerei a determinate superfici un certo tipo di palla e indicazioni tassative sulle misure dell’ovale delle racchette per avvantaggiare il tipo di gioco che quella superficie incoraggia.
UMANO E MEDIATICO: Ora, probabilmente non sono la persona più indicata per giudicare, essendo di natura introverso e critico, ma quando sento nell’aria (anche nei miei riguardi) troppi complimenti, pacche sulle spalle, sorrisi a 360 gradi, ho sempre la sensazione che l’intenzione sia quella di colpire là dove non batte il sole. E non c’è dubbio che di entusiasmo, nell’ambiente tennistico di oggi, se ne sente fin troppo. Abbiamo tre candidati al GOAT, le stagioni più grandi di tutti i tempi sono tutte racchiuse nell’ultimo decennio, la partita più grande mai giocata sarà la prossima finale Slam (a Parigi giocheranno – chiunque giocherà - 42 ore e si riscriverà lo sport, a Wimbledon 97 e sarà la partita che porterà la pace nel mondo. E non vi anticipo nulla su quella di New York); le dichiarazioni dei giocatori sono puro revisionismo Disney e siamo costretti ad aggrapparci a qualsiasi cosa – tipo qualche parola un attimo più piccante in spagnolo di Nadal su Federer, o il “litigio di beneficenza” dei vecchietti Agassi e Sampras a Miami, che vera e autentica diversità hanno sempre palesato in tutto – per un pizzico di brivido che ci desti dalla quotidiana noia. Sembra la famiglia del Mulino Bianco. Ve lo dico già, quando si ritirerà Roddick (l’ultimo superstite della superba dinastia dei sarcastici) cadrò in forte depressione.
Perché a lasciarmi perplesso (per non dire inquietarmi), ancor più dell’omologazione sul campo, è la linea piatta che sta fuori, lo straripante, contagioso entusiasmo che bacia il panorama ATP da qualche anno a questa parte. Ma siamo sicuri che questa (in)globalizzazione sia la strada da seguire? “Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: ‘Cerco Dio! Cerco Dio!’?” (perdonate il mio improvviso citare continuamente Nietzsche, ma temo che la recente rilettura della sua biografia – una delle letture più agghiaccianti mai fatte in vita mia, ve la consiglio – mi stia contagiando).
Beh, io non sto cercando Dio con questo misero articoluncolo, figuriamoci. Ma con quella lanterna in pieno giorno, a costo di esser preso per matto, voglio esprimere piuttosto una speranza. Una speranza che alcuni di voi condividerà, che qualcun altro disprezzerà, com’è giusto che sia. La speranza di rivedere un tennis profondamente eclettico, stratificato, variegato, che permetta ai vari modi di concepire il gioco le stesse possibilità (in periodi diversi dell’anno) di esprimersi ai massimi livelli e conseguire i massimi risultati. La speranza di vedere più sana “cattiveria”, malizia, senso critico. I pensieri uguali e standardizzati non sono dell’essere umano, tantomeno una bontà onnipresente e quasi stucchevole.

Sogno? Utopia bella e buona, direi. Ci sono più possibilità che Winona Ryder ceda alle mie avances dopo 21 anni e diventi mia moglie (siamo ancora nell’imbarazzante fase in cui lei non sa che stiamo insieme). Ma tentar non nuoce. Anche se, sarò onesto, potessi scegliere non avrei un attimo di esitazione.

Winona, Winona, Nole e Rafa per Winona (non mi chiamo Riccardo per niente, cribbio).

Riccardo Nuziale

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I grandi eventi si identificano nel luogo in cui si svolgono. Wimbledon si identifica con l’All England Club. Se spostassero lo stesso torneo in un altro luogo, non sarebbe Wimbledon. Il successo di un evento è legato a quei luoghi nei quali la gente vuole andare, perché sa che lì accadono cose “magiche”.

Jerry Solomon

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