Parigi, 5 giugno 2010: Francesca Schiavone entra nella storia del tennis. Superando l’australiana Sam Stosur nella finale del singolare femminile del Roland Garros diventa la prima tennista italiana a vincere un torneo del Grande Slam. Dopo l’ultimo errore di rovescio della sua avversaria che le consegna il titolo, Francesca si lascia cadere a terra, incurante della terra rossa che sporca il suo candido completo bianco. Poi, dopo essersi rialzata ed aver ricevuto il meritato applauso del pubblico del Philippe Chatrier, la “Leonessa” corre sulle tribune ad abbracciare il suo team ed i suoi amici, alcuni venuti dall’Italia appositamente per la finale facendole una sorpresa, che per l’occasione hanno indossato una maglietta con la scritta: “Schiavo, nothing is impossible”.
Sì, nulla era impossibile per la Francesca Schiavone di quei giorni. La tennista milanese era in un assoluto stato di grazia, giocava un tennis fantastico, come ben ricorderanno coloro che seguirono la sua vittoriosa cavalcata parigina. Un dato può far capire il livello delle sue prestazioni in quel Roland Garros 2010: dopo aver perso il primo set del match d’esordio contro la russa Kulikova, non ne perse più nemmeno uno in tutto il torneo. Francesca in quelle due settimane a Porte d’Auteuil era entrata nel “flow”.
Probabilmente molti di noi hanno provato almeno una volta nella loro carriera tennistica, indipendentemente dal proprio livello di gioco, l’esperienza del flow, in italiano “flusso di coscienza”, conosciuto anche come “the zone” o “trance agonistica” o “esperienza ottimale”. Hanno vissuto in prima persona quella incredibile condizione psicofisica in cui in campo tutto fluisce senza sforzo apparente, il nostro gioco funziona alla perfezione. Sembra quasi magia: la pallina colpita dall’avversario che arriva piano, così piano da darci tutto il tempo per posizionarci correttamente e colpirla, in assoluta scioltezza e senza il minimo sforzo, avendo la certezza che finirà lì, nel punto più difficile per la ribattuta del nostro avversario. E chi non l’ha provato giocando a tennis, avrà sperimentato in qualche altro ambito della propria vita – nella realizzazione di un progetto o nell’esecuzione di una attività particolarmente impegnativa sul lavoro, durante un allenamento o una gara di un altro sport o mentre si stava dedicando ad un proprio hobby – quello stato di coscienza in cui si è completamente immersi nell’attività che si sta facendo, totalmente coinvolti da essa, focalizzati sull’obiettivo, assolutamente positivi sul raggiungimento del risultato, intrinsecamente motivati e gratificati dallo svolgimento stesso del compito.
Ma cos’è esattamente lo stato di flow?
Il concetto del flow è stato teorizzato negli anni Settanta dallo psicologo americano di origine ungherese Mihaly Csikszentmihalyi (off topic, una piccola curiosità sulla sue origini: nacque nel 1934 a Fiume, al tempo facente parte del Regno d’Italia, per poi emigrare dall’Europa negli Stati Uniti a ventidue anni), che osservò come persone impegnate in attività molto diverse fra loro – l’atleta che migliora il proprio record, il medico che porta a termine una difficile operazione, l’artista che crea una nuova opera, l’architetto che realizza un progetto – descrivevano in modo simile il loro stato mentale in determinate situazioni: ciò che provavano era simile sotto molti aspetti. Definì questo stato mentale flow – flusso, in italiano – in quanto molte di quelle persone paragonavano l’esperienza vissuta ad una corrente d’acqua che li trascinava mentre svolgevano l’attività. Dai suoi studi risulta inoltre che questo stato è caratterizzato da determinate condizioni, nove in tutto, definite da Csikszentmihalyi “le nove dimensioni del flow”:
- Equilibrio tra sfida e abilità – Nello stato di flow le persone percepiscono la situazione come stimolante e sfidante e la sfida è bilanciata dalle risorse individuali.
- Unione tra azione e coscienza – Le persone sono completamente coinvolte nell’azione e ciò le porta a performare in maniera più fluida, evitando la percezione dello sforzo o l’emergere di pensieri esterni.
- Obiettivi chiari – Per vivere lo stato di flow è necessario avere obiettivi chiari, definiti e misurabili, al fine di aumentare la motivazione e il significato dell’esperienza, che porta all’ottimizzazione della performance.
- Feedback diretti e immediati – Durante la performance, la situazione fornisce alle persone un feedback chiaro e immediato utile a monitorare la correttezza del compito in corso al fine di raggiungere gli obiettivi attesi.
- Concentrazione sul compito – La concentrazione è focalizzata sul compito che si sta svolgendo, sul “qui e ora”, non c’è spazio nella mente per elaborare informazioni non necessarie allo svolgimento dell’attività.
- Senso di controllo – Questa dimensione fa riferimento alla percezione delle persone di un senso di controllo automatico e spontaneo.
- Perdita della autoconsapevolezza – Le persone si percepiscono come parte di quello che stanno svolgendo. La loro energia è completamente focalizzata sull’azione, senza preoccuparsi del giudizio degli altri.
- Distorsione del senso del tempo – Il senso del tempo è alterato: in alcuni casi rallentato, in altri velocizzato. Questa dimensione può essere una conseguenza della concentrazione intensa richiesta per affrontare il compito o può essere una determinante della qualità positiva dell’esperienza.
- Esperienza autotelica – Fa riferimento alla soddisfazione intrinseca legata allo svolgimento dell’attività, indipendentemente dalla motivazione originale, dai risultati attesi e senza il bisogno di alcuna ricompensa esterna.
Lo stato di flow ha anche una spiegazione fisiologica. Si è scoperto infatti che in tali situazioni la persona utilizza in modo completo e simultaneo le potenzialità di entrambi gli emisferi cerebrali. I due emisferi presentano infatti un certo grado di specializzazione, seppur non totale, per determinate funzioni: l’emisfero sinistro è la sede della razionalità da cui derivano, ad esempio, l’elaborazione del linguaggio, l’apprendimento motorio ed il perfezionamento del gesto tecnico, mentre l’emisfero destro è principalmente coinvolto con l’emotività, e per questo abilitato, ad esempio, nella elaborazione degli stimoli visivi, nella rappresentazione mentale dello spazio e nell’esecuzione di movimenti automatizzati. Parlando in termini tennistici, il giocatore deve imparare a riconoscere quando analizzare una situazione (ad esempio, che tipo di colpo giocare in funzione dell’andamento dello scambio) e quando invece è il momento di eseguire meccanicamente (ad esempio, nell’esecuzione del colpo), passando da una fase all’altra in modo rapido ed efficace (decido il tipo di colpo, lo eseguo, decido il tipo di colpo successivo, lo eseguo…). Nello stato di flow, non c’è passaggio da un emisfero all’altro, come avviene normalmente: i due emisferi operano in simbiosi (e a quel punto decisione ed esecuzione sono praticamente contemporanei: penso a come colpire, lo faccio).
Una delle caratteristiche fondamentali dello stato di flow è che la persona “in the zone” riesce a sfruttare al massimo le proprie potenzialità. Sempre parlando in ambito tennistico, significa che ciò può consentirgli di raggiungere traguardi mai raggiunti prima. Ad esempio, ai massimi livelli può arrivare a vincere uno Slam. Come appunto Francesca Schiavone nel 2010. O come Marin Cilic a New York nel 2014: la sua seconda settimana degli US Open di tre anni fa è un altro clamoroso esempio di “trance agonistica” prolungata. A partire dal vittorioso quinto set degli ottavi di finale contro il francese Simon il tennista croato divenne ingiocabile, infilando una serie di dieci set consecutivi in cui lasciò le briciole a tre top ten come Berdych, Federer e Nishikori e conquistando così il suo primo – e sinora unico – torneo del Grande Slam. Nello stato di flow l’atleta è perciò in grado di realizzare con più facilità quella che viene definita la “peak performance”, la prestazione eccellente, che lo psicologo statunitense Jean M. Willams descrisse come “una specie di momento magico nel quale tutto si svolge perfettamente, dal punto di vista sia mentale che fisico, e la qualità eccezionale della prestazione sembra oltrepassare gli ordinari livelli di rendimento”. Chi tra noi ha sperimentato lo stato di flow, nel ritornare con la memoria all’esperienza vissuta vi ritroverà le condizioni sopra descritte e molto probabilmente avrà anche il ricordo di una prestazione – per un periodo di tempo più o meno prolungato – ben superiore a quella normale. Una peak performance, appunto.
Proprio con riferimento alla peak performance merita soffermarsi un momento sulla prima dimensione del flow, l’equilibrio tra sfida e abilità. Il fatto che l’esperienza dello stato di flow si sviluppi quando sia la sfida che le abilità richieste per affrontarla sono elevate appare infatti perfettamente coerente con quanto avviene nel corso della peak performance, in cui vi è il pieno coinvolgimento delle abilità della persona, la sua attenzione è totale, il suo corpo e la sua mente sono impegnati al massimo. Quando invece questi due parametri non sono in equilibrio vi è la comparsa di stati d’animo negativi: noia, quando la sfida è poco stimolante rispetto alle abilità, ansia, quando invece accade il contrario e la sfida viene percepita come superiore alle proprie capacità, o apatia, quando non solo la sfida non è stimolante ma è sufficiente una minima parte delle proprie abilità per portarla a termine. Inutile aggiungere che uno stato d’animo di questo genere sia tutto fuorché propedeutico al flow e di conseguenza all’ottenimento di una prestazione di picco.
Quanto appena visto ci permette di dire – prima “pillola” di coaching dell’articolo – che il primo passo verso lo stato di flow e, di conseguenza, per ottenere performance eccellenti è quello di riconoscere ed evitare noia, ansia ed apatia quando giochiamo, in allenamento ed in partita. Se vogliamo entrare nel flusso o anche semplicemente essere in grado di esprimerci al nostro meglio dobbiamo prima di tutto evitare di trovarci in uno stato d’animo non funzionale (argomento che abbiamo trattato sotto un altro punto di vista in uno degli articoli precedenti). Attenzione perciò, ad esempio, ad allenarci costantemente con chi ha un livello di gioco significativamente inferiore al nostro. Magari è comodo perché quella persona è sempre disponibile, ben contenta di giocare con un avversario più forte, e non dobbiamo metterci a cercare e contattare ogni volta partner di gioco diversi. Spesso si tratta di un amico, così possiamo anche fare piacevolmente due chiacchiere prima e dopo l’allenamento. Tutto molto comodo, ma deleterio per il nostro tennis. All’inizio non ce ne rendiamo conto, perché il nostro maggior tasso tecnico ci permette di alzare il livello del nostro gioco quando vogliamo. Ma proprio perché la nostra superiorità è tale da rendere questi “cambi di marcia” superflui, va a finire che non quel pedale sull’accelleratore non lo mettiamo neanche più: perché subentra la noia per il fatto che sappiamo già come andrà a finire, dato che ogni volta che alziamo il livello non c’è praticamente più partita. Ed ecco che allora pian piano, spesso inconsciamente, ci accontentiamo, rimaniamo ancorati a quel livello di gioco che consente al nostro partner di tenere lo scambio. Finché un giorno, improvvisamente, lo proviamo ma il cambio di marcia non ci riesce più. Il livello del nostro tennis si è adeguato al livello (basso) della sfida. Perciò è importante fare attenzione e cogliere il momento in cui cominciamo a provare noia: prima che subentri l’accontentarsi, prima che – richiamando anche qui un argomento che abbiamo già trattato – cominciamo a chiuderci sempre di più nella nostra zona di comfort. È il momento in cui fermarsi un attimo e riflettere con sincerità su cosa vogliamo dal tennis: se per noi è un semplice passatempo per fare un po’ di movimento un paio d’ore la settimana, va bene così e non c’è nessun problema, se invece abbiamo ancora degli obiettivi di prestazione – che siano a livello agonistico o anche solo di qualità di gioco – dobbiamo intervenire, perché non siamo assolutamente sulla strada giusta.
Allo stesso modo dobbiamo fare attenzione e riconoscere anche quando proviamo una sensazione di ansia. Cosa che è possibile che accada, ad esempio, quando affrontiamo con una certa frequenza avversari nettamente più forti di noi in allenamento e/o in torneo. Anche in questo caso c’è da stare attenti: la crescita ed il miglioramento come giocatori passa necessariamente attraverso il confronto con giocatori più forti, ma se ci mettiamo ad affrontare solo e sempre avversari che ci sono superiori e ci battono sempre, se in campo siamo sempre in difficoltà perché il ritmo di gioco è troppo elevato per le nostre possibilità, quello non è il percorso di crescita giusto per noi. Perché c’è il tangibile rischio di perdere la fiducia in noi stessi ed allo stesso tempo di non migliorare la nostra tecnica, dato che va a finire che giochiamo costantemente contratti per cercare di fare bella figura o limitare i danni. Di conseguenza, se cominciamo a percepire ogni qualvolta entriamo in campo una spiacevole sensazione di apprensione è anche questo il momento in cui fare uno stop, per riflettere e riconsiderare il nostro approccio al tennis.
Arriviamo infine ad uno dei temi fondamentali quanto si parla dello stato di flusso. Dato che non è frequente e sembra accadere in maniera involontaria, il flow è replicabile volontariamente? Le opinioni sono discordanti: secondo alcuni questo stato di coscienza non può essere controllato consapevolmente, altri invece sostengono la tesi opposta. Con riferimento al contesto sportivo, questi ultimi ritengono che una delle caratteristiche dei grandi campioni sia proprio la capacità di di attivarsi al momento giusto, esattamente nell’istante in cui la loro prestazione agonistica sta per iniziare, avendo imparato – più o meno intenzionalmente – a riconoscere e a riprodurre lo stato psicofisico ideale precursore dello stato di flow. Ecco perciò che nel campo dello sport coaching uno dei modi per lavorare sull’incremento della performance è quello di identificare le condizioni che hanno portato l’atleta ad entrare nel flow e di individuare le percezioni avute durante l’esperienza. Ad esempio, uno strumento sviluppato in quest’ambito è la Flow State Scale (FSS), un questionario di auto-valutazione basato sulle nove dimensioni descritte sopra e costituito da 36 domande, quattro per ciascuna dimensione. Un aspetto importante da considerare nella valutazione dell’esperienza di flow è relativo al fatto che non è possibile farlo nel momento esatto in cui si sta svolgendo: la FSS è stata concepita proprio per essere sottoposta all’atleta al termine dell’attività. Avendo poi a disposizione tutte queste informazioni, il coach supporterà l’atleta nell’andare a ricreare le condizioni antecedenti lo stato di flow e le percezioni vissute, in modo che l’atleta sia poi in grado di applicare queste strategie mentali autonomamente e, con il passare del tempo, sempre più naturalmente. Sia in fase di approccio alla gara (ad esempio con l’utilizzo di tecniche come la visualizzazione o il self talk) che durante la prestazione, in particolare nei momenti di pausa (nel caso del tennis, pensiamo alle routine di riattivazione dopo il cambio campo).
Ciò ci porta alla seconda “pillola”. Quando – in qualsiasi campo – abbiamo l’opportunità di provare l’esperienza del flow, al termine fermiamoci un attimo. E dopo aver preso doverosamente fiato, nel rivivere la magia di quanto accaduto prendiamoci il tempo necessario ad annotare le sensazioni che abbiamo provato ed i ricordi di quanto successo prima che accadesse. Ci sono studi che fanno delle distinzioni tra le nove dimensioni: tra quelle considerate fattori predisponenti alla peak performance – l’equilibrio tra sfida e abilità, su cui ci siamo già soffermati, gli obiettivi chiari ed i feedback diretti e immediati – e quelle che rappresentano caratteristiche descrittive dell’esperienza. Ecco, con le informazioni raccolte possiamo andare a rilevare le caratteristiche comuni alle nostre esperienze di flow nell’ambito delle tre dimensioni predisponenti. Ad esempio, scoprire che lo stato di flusso si genera solo quando affrontiamo compiti altamente sfidanti, ci consente di dire che un fattore predisponente a noi necessario è quello di definire obiettivi particolarmente impegnativi. Già sapevamo, dato che ne avevamo parlato in uno dei primi articoli, che una delle caratteristiche degli obiettivi “ben formati” è quella di essere fattibili ma al contempo motivanti. In questo caso abbiamo un’informazione in più: che per noi è essenziale porre l’asticella della motivazione il più in alto possibile. E non è una cosa da poco.
Alla fine, se ci pensiamo, si tratta di “ritrovare” qualcosa che abbiamo già provato, di far riemergere qualcosa che è lì, in attesa solo di risvegliarsi. Perché il flow è dentro di noi. E possiamo farlo solo provando e sperimentando, senza timore di sbagliare. Perché se arriva, quello è il flow. Proprio come diceva il maestro Myagi a Daniel in The Karate Kid:
“Devi solo aver fiducia in quadro”.
“Come so se il mio quadro è quello giusto?”.
“Se lo senti nascere in te quadro è sempre giusto”.
Ilvio Vidovich è collaboratore dal 2014 di Ubitennis, per cui ha seguito da inviato tornei ATP e Coppa Davis. Personal coach certificato, ha conseguito un Master in Coaching, una specializzazione in Sport Coaching e tre livelli di specializzazione internazionale in NLP (Programmazione Neuro Linguistica), tra i quali quello di NLP Coach. Giornalista pubblicista, è anche istruttore FIT e PTR.