All’inizio di luglio Naomi Osaka ha scritto alla rivista Esquire, prendendo una posizione pubblica nel dibattito politico che si è sviluppato in seguito alla morte di George Floyd. A mio avviso costituisce una scelta interessante e non comune fra le tenniste di vertice degli ultimi anni; una scelta che merita qualche riflessione.
Innanzitutto devo sgombrare il campo da un possibile equivoco. Sono dell’idea che un sito di sport debba parlare di sport, evitando di abbandonare il proprio ambito di riferimento. E non credo che i lettori debbano aspettarsi da un articolo di tennis valutazioni e giudizi sulla questione del razzismo negli USA, o su “Black Lives Matter”; anche perchè sono convinto che per affrontare adeguatamente un tema così importante occorra un livello di competenza che non sento di possedere. Naturalmente ho le mie opinioni (penso che Osaka abbia ragione), ma non ho intenzione di entrare nel merito politico della questione.
Qui vorrei piuttosto ragionare su un argomento differente: su che cosa significhi per Osaka avere assunto posizioni politiche tanto nette in modo pubblico. Ricordo che, prima della pubblicazione del testo su Esquire, a fine maggio Naomi aveva già postato sui social un filmato che ritraeva la sua partecipazione a una delle manifestazioni tenute a Minneapolis successive alla morte di George Floyd. E anche se questo messaggio forse aveva avuto meno risonanza, si può dire fosse per certi aspetti anche più forte, visto che è insolito per una personaggio famoso decidere di spostarsi in un’altra città per unirsi da semplice cittadino alla folla dei manifestanti.
Forse sbaglio, ma per esempio non credo che Serena Williams si sia mai spinta tanto avanti. Anche il suo boicottaggio a Indian Wells è sempre stato focalizzato sul singolo torneo e sulle vicende personali che aveva vissuto, più che su una questione politica a vasto raggio, di carattere generale.
Scorrendo la pagina Twitter di Naomi Osaka, ci si rende conto che nelle ultime settimane sono diversi i tweet che si occupano di aspetti politici e sociali. Come dicevo sopra, non è molto frequente che una tennista di vertice come Naomi (già numero 1 del mondo e vincitrice di Slam) si schieri con tale evidenza all’interno del dibattito politico. Siamo più abituati a grandi sportivi che preferiscono evitare di definire inequivocabilmente le loro convinzioni ideologiche. Le ragioni di questo disimpegno possono essere personali: scarso interesse verso la situazione, o desiderio di riservatezza. Ma la prima motivazione che viene in mente, è quella economica, perché gli sportivi più popolari ricavano una quota significativa dei loro introiti dalle sponsorizzazioni.
Proprio qualche settimana fa abbiamo appreso da Forbes che Osaka a soli 22 anni costituisce la figura di riferimento di un piccolo impero commerciale. Con 37,4 milioni di dollari totali guadagnati nel 2019, Naomi è infatti risultata la sportiva donna più pagata della storia. E l’atleta (uomini e donne) numero 29 della classifica complessiva relativa ai guadagni.
Se però guardiamo dentro al suo bilancio, le cose si fanno ancora più interessanti. Di questi 37,4 milioni totali, infatti, ben 34 derivano dagli sponsor. Se consideriamo solo questa fonte di profitto, Osaka nella classifica sale addirittura al numero 8 a livello assoluto (uomini e donne). E nel tennis solo Federer guadagna dagli sponsor più di lei. Atleti come Djokovic, Nadal, Serena Williams, nel 2019 hanno ricavato meno di Naomi.
Credo di non sbagliare se sostengo che ogni agente di grandi sportivi suggerisce al proprio cliente di non esternare su argomenti che possono scontentare una parte del pubblico, e quindi del mercato. In un certo senso è insito nel concetto stesso di testimonial: al testimonial si chiede di piacere alle persone; anzi: di piacere al maggior numero di persone possibile. Ecco perché quando lo sportivo è un testimonial veramente importante, si preferisce che assuma atteggiamenti non divisivi.
Certo, si possono verificare anche casi opposti, cioè di atleti che non offrono una immagine unificante, e vengono scelti dalle aziende perché sono “contro”. Penso per esempio a giocatori come Dennis Rodman o più recentemente alla decisione di Nike di mettere sotto contratto Colin Kaepernick. Ma è molto improbabile che diventino i più pagati dagli sponsor.
E non è nemmeno così importante se oggi certe scelte politiche possono sembrare più mainstream (valutazione comunque tutta da dimostrare): in ogni caso per chi deve promuovere un prodotto sul mercato, non conta solo essere in linea con la maggioranza, ma anche non inimicarsi la minoranza.
Probabilmente il testimonial sportivo per eccellenza degli ultimi anni è stato Michael Jordan; e a lui si attribuisce una frase che spiega in poche parole la situazione: “Anche i repubblicani comprano le scarpe sportive”. Che questa famosa affermazione sia vera o no (Jordan forse non l’ha mai pronunciata, ma non l’ha nemmeno smentita prima che diventasse proverbiale), resta il fatto che sintetizza molto bene l’idea di un testimonial che deve maneggiare con estrema circospezione certi argomenti, perché possono diventare esplosivi.
La storia dello sport ci insegna anche che le prese di posizione politiche possono risultare devastanti per la carriera di un atleta. Uno dei casi più celebri riguarda i protagonisti della protesta sul podio dei 200 metri delle Olimpiadi di Città del Messico ’68 (Tommie Smith, John Carlos, ma anche l’australiano Peter Norman), che hanno pagato dure conseguenze per quella immagine diventata un simbolo mondiale.
Torniamo al tennis. Forse il caso di grande giocatrice che quando era ancora in attività si è più esposta su questioni extrasportive è stata Martina Navratilova. Nel momento in cui ha dichiarato pubblicamente la propria omosessualità, per la mentalità dell’epoca stava compiendo un atto politico, più di quanto forse possa apparire oggi. Un atto che non era stato privo di conseguenze.
Nel documentario che ESPN ha dedicato alla sua rivalità con Chris Evert (Unmatched, uscito nel 2013) Martina ricorda che quando ha cominciato a vincere molto, c’erano media statunitensi che presentavano le sue partite contro Chris come uno scontro tra bene e male: Evert impersonava il bene (la ragazza americana della porta accanto) e Navratilova il male (la giocatrice proveniente da un paese comunista e per di più lesbica):
Certo, se paragoniamo le conseguenze sulla carriera avute da Navratilova con quelle subite dagli sprinter di Città del Messico ci rendiamo conto che Martina ha avuto molti meno problemi. E questo varrà sicuramente anche per Osaka; non solo perchè sono cambiati i tempi, ma anche perché, al contrario di altre discipline, il tennista professionista è sostanzialmente una entità autonoma; e quando diventa un numero uno, non deve passare attraverso le maglie delle federazioni o dei club per poter svolgere la propria attività.
Però non sono in ogni caso tutte rose e fiori. Una tennista in attrito con la propria federazione potrebbe dover rinunciare alla Fed Cup e molto probabilmente anche alle Olimpiadi. A proposito di Olimpiadi: Osaka lo scorso anno era stata scelta dal comitato di Tokyo 2020 come testimonial dei Giochi (rinviati al 2021 a causa della pandemia); e chissà se gli organizzatori dell’evento hanno gradito le sue ultime mosse pubbliche.
Questo ci introduce a un altro aspetto che riguarda Naomi: il pronunciamento politico di una giocatrice giapponese su questioni che hanno avuto il loro fulcro negli Stati Uniti. Ricordo che Osaka è nata in Giappone (da madre giapponese e padre haitiano), ma la sua famiglia si è trasferita negli USA quando lei aveva tre anni, e dunque negli USA risiede da circa 20 anni.
Ecco, la scelta di Osaka è forse un po’ più coraggiosa se teniamo presente che Naomi è scesa in piazza negli Stati Uniti da “straniera”. Infatti per obblighi stabiliti dalla legge giapponese, lo scorso anno ha dovuto avviare la pratica di rinuncia al passaporto statunitense. Ma evidentemente in questo caso ha prevalso la sua storia personale, ricca di riferimenti transnazionali, che non si possono confinare dentro i vincoli di una cittadinanza. Lo ha sostenuto lei stessa in una parte dell’articolo su Esquire: “Una singola etichetta non è mai stata sufficiente per descrivermi, ma ci hanno provato lo stesso. È giapponese? Americana? Haitiana? Nera? Asiatica? Beh, sono tutte queste cose assieme”.
C’è un ulteriore elemento da non sottovalutare della decisione di Osaka: la scelta politica a favore di una società plurale, espressa in quanto giocatrice e cittadina giapponese. Non dimentichiamo che se Osaka ha guadagnato così tanto, molto lo deve agli sponsor del sol levante. E cultura e mentalità giapponese non sono quelle statunitensi.
Ha scritto Naomi a proposito del suo rapporto con il paese di nascita: “Il Giappone è una nazione molto omogenea, e per questo ho faticato a parlare di razzismo. Ho ricevuto commenti razzisti online e persino in TV, ma si tratta di una minoranza. In realtà, le persone di razza mista – e soprattutto gli atleti di razza mista – sono il futuro del Giappone. Io, Rui Hachimura [giocatore di basket NBA, ndr] e altri ancora, siamo stati accettati dalla maggior parte del pubblico, dei tifosi, degli sponsor e dei media”.
Sotto questo aspetto va ricordato come lo scorso anno ci furono polemiche per un cartone animato realizzato da uno sponsor giapponese di Naomi in cui era raffigurata come una giocatrice di pelle bianca. Allora si era espressa in modo piuttosto cauto, senza entrare nel merito (“Avrebbero dovuto parlarmene”); difficile dire se perché ritenesse la vicenda secondaria, o perché non desiderasse ancora esporsi in modo così deciso come ha fatto di recente. E questa evoluzione ci conduce agli aspetti più personali del suo impegno.
a pagina 2: L’aspetto personale della Osaka “politica”