Australian Open 2021, più soldi per chi esce prima dei quarti: trend o fenomeno passeggero?

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Australian Open 2021, più soldi per chi esce prima dei quarti: trend o fenomeno passeggero?

La scelta è chiaramente dettata dai danni inferti dalla pandemia, ma non significa che una volta finita debba tornare tutto come prima

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Lo scorso anno Djokovic ha vinto oltre 4 milioni di dollari australiani: il vincitore dell'edizione 2021 non arriva a 3
 

Seguendo la linea dettata dai pochi grandi tornei che si sono disputati nel 2020, l’Australian Open ha optato per una redistribuzione del prize money che favorirà gli sconfitti dei primi quattro turni del singolare (sia maschile che femminile, anche se nella tabella sottostante c’è scritto “men’s singles“):

Come si può vedere, i vincitori perderanno un terzo dei guadagni, e i finalisti oltre un quarto, un fenomeno decisamente comune dalla ripresa dei circuiti. Al Roland Garros, gli sconfitti al primo turno hanno visto un incremento del 30 percento dei propri guadagni, grosso modo la stessa perdita dei vincitori (Nadal e il suo plus one di quest’anno Iga Swiatek) – il torneo parigino non è peraltro nuovo a un ethos redistributivo, visto che già nel 2018 gli aumenti del montepremi avevano favorito soprattutto gli sconfitti ai primi turni.

Andando avanti, a New York, dove il montepremi totale è rimasto quasi invariato, gli eliminati all’esordio hanno visto aumentare l’assegno del cinque percento; al Masters 1000 di Cincinnati/New York, a fronte di un drastico calo generale, gli sconfitti al primo e al secondo turno hanno potuto contare su dei moderati aumenti (11 percento), mentre i tennisti battuti nelle qualificazioni sono stati più fortunati (+50 per chi ha perso al secondo, più un terzo per chi ha perso al primo); infine a Bercy, dove pure l’erogazione totale si è contratta nel momento in cui si è dovuto giocare a porte chiuse, i guadagni sono aumentati per gli sconfitti dei primi due turni.

Ora, il sostegno ai giocatori dalla classifica più bassa fa sicuramente parte di un disegno imposto collettivamente alle associazioni giocatori, all’ITF e agli Slam dall’interruzione dei tour che ha privato la categoria della principale fonte di reddito per cinque mesi, come si può dedurre dalla creazione del Relief Fund ecc e del fondo integrativo ITF, nonché dalla donazione dell’All England, ma il tema esiste da tempo.

Quando è stato creato il fondo, Nick Kyrgios si era scagliato contro gli scettici (Thiem in particolare) sostenendo che i top guadagnino troppo; prima ancora dell’interruzione, il coach di Simona Halep, Darren Cahill, aveva parlato dei guadagni eccessivi dei semifinalisti dei tornei più importanti; e infine, pur con tutte le sue indecisioni programmatiche, la PTPA è stata fondata da Djokovic e Pospisil, gli stessi che avevano guidato la richiesta per una redistribuzione più equa dei montepremi negli Slam – il canadese ha paventato scenari di boicottaggio qualora le loro richieste non venissero accolte dai tornei in futuro (ammesso e non concesso che la PTPA ottenga un potere contrattuale sufficiente). In sostanza, quindi, la domanda che ci si deve porre è: una volta usciti dalla pandemia, queste proporzioni verranno mantenute o si tornerà alla decantata “normalità”?

Negli ultimi anni si è spesso (sovra)utilizzato il sostantivo “assistenzialismo”, termine dispregiativo che la Treccani definisce come “accentuazione delle attività assistenziali della pubblica amministrazione, ritenuta dispersiva di risorse e atta a deprimere lo spirito di intraprendenza, di rischio, di cambiamento, che dovrebbe caratterizzare i cittadini e i soggetti economici di un sistema dinamico e moderno“. A prima vista, la redistribuzione del prize money potrebbe essere letta proprio in questa chiave: è giusto che chi ha vinto guadagni (molto) di più, non solo per quanto fatto ma anche perché cifre elevate saranno più allettanti per tutti, spingendoli a lavorare più duramente per raggiungere le medesime vette. Il corollario di questo ragionamento è che dare più soldi a chi perde presto non è solo ingiusto, ma anche negativo nei loro confronti, perché potrebbe portarli a sedersi sulla propria mediocrità in virtù di un gettone di presenza sempre consistente.

Senza voler incollare etichette ideologiche a questo ethos (anche se sarebbe semplice farlo), ci si limiterà a segnalare alcune falle nel ragionamento. Innanzitutto, gli atleti professionisti vivono di competizione, perciò dipingerli come dei mangiapane a tradimento che si accontentano di un terzo turno sembra quantomeno bizzarro – pochi fanno la volpe e l’uva negli sport individuali. Questo si ricollega ad una delle illusioni più grandi dello sport (soprattutto europeo), la stessa che porta ad avere campionati aperti con club che fatturano 10 volte più di altri facenti parte della stessa lega e a doversi sorbire tanti ex-atleti come opinionisti in TV, e cioè quella del ruolo esclusivo e gerarchizzante del duro lavoro.

Spesso si dice che chi è arrivato al top ha lavorato più di tutti, ma questo è un assunto che nell’epoca dell’iper-professionismo non ha senso nel mondo dello sport. Nel momento in cui diciamo che Bautista ha spremuto ogni oncia di talento che ha in corpo e Bautista non ha vinto degli Slam, stiamo implicitamente ammettendo che vincere Slam non è affare per tutti, perché ovviamente gli atleti non nascono tutti uguali. Quasi ogni giocatore dà il massimo, ma pochi raggiungono la Hall of Fame; la giusta collocazione logica sarebbe quindi che il duro lavoro sia una condizione necessaria ma non sufficiente per vincere uno Slam. Se non lavori duro non vinci uno Slam, ma non è detto che se lavori duro (o più di tutti) vinci uno Slam.

Dominic Thiem – US Open 2020 (via Twitter, @usopen)

Inoltre, la sproporzione del prize money potrebbe avere senso se i giocatori vivessero esclusivamente di quello, perché allora sì che sarebbe giusto differenziare fra chi performa e chi no, ma è pacifico che i guadagni nello sport siano sostanzialmente esponenziali, e chi guadagna in campo tende a farlo, e in misura molto maggiore, anche fuori. Questa è generalmente l’argomentazione più utilizzata da chi ha sostenuto il Relief Fund e più in generale da chi ha sempre invocato una più equa redistribuzione dei montepremi: i tennisti con la classifica più alta non vivono di quello che guadagnano nei tornei, tutti gli altri (la maggior parte) sì, ed è quindi paradossale che chi non ha bisogno di quei soldi ne riceva in tale misura.

Nel 2020, però, questa non è più nemmeno l’antinomia principale. Come spiegato per esempio nella breve campagna per le presidenziali americane di Andrew Yang (ora candidato alle comunali di New York), viviamo in un’era di automazione incalzante e Ubitennis sta raccontando come strumenti e dati sempre più raffinati stiano cambiando il gioco; all’interno di questa narrazione, però, ne sta incastonando un’altra indissolubilmente correlata, e cioè che i suddetti strumenti e dati non siano accessibili a tutti ma solo a chi può pagarli, aumentando il divario pre-esistente fra i migliori e gli altri.

Ora, si potrebbe anche sostenere che sia giusto mettere le tecnologie migliori a disposizione di chi se le può permettere, ma questo dà adito ad almeno due contro-argomentazioni.

  1. Se i mezzi a disposizione sono tanto ineguali non si può più parlare di inadeguatezza professionale di chi non può averli, perché si profila un disequilibrio competitivo che non è più dovuto a differenze ontologiche o di impegno ma (anche) ad altri fattori.
  2. Il business del gioco è a rischio perché un’accumulazione dei mezzi fra i più forti amplia la loro finestra al vertice e rende il gioco de facto dipendente da loro, rischiando di creare un baratro di popolarità e guadagni al loro ritiro, mettendo i vertici nella non invidiabile posizione di dover rendere popolari a tutti i costi le nuove leve per fidelizzare il pubblico ai loro nomi, caricando peraltro ulteriore pressione sulle loro spalle; una situazione decisamente familiare non solo nel tennis, che con questo scopo ha lanciato l’idea, fra le altre, delle Next Gen Finals.

Il corollario del secondo punto è che, negli sport che se lo possono permettere, una ripartizione dei premi proporzionale a quello che i giocatori fanno guadagnare a stakeholders/sponsor/tornei non ha molto senso, perché beneficia solo chi sta vincendo nel presente a scapito del gioco nel suo complesso, e i singoli atleti hanno purtroppo una data di scadenza, mentre il business di uno sport, se possibile, vuole durare nel tempo senza legarsi troppo a questo o a quel nome. Per questo motivo, soprattutto nelle discipline individuali, bisognerebbe sempre fare degli investimenti (apparentemente) “a perdere”, che in questo momento vorrebbe dire aumentare i guadagni dei giocatori di media e bassa classifica per tenere viva la competizione.

Questi punti non rispondono alla domanda iniziale, vale a dire se la redistribuzione rimarrà in atto nei prossimi anni, ma quantomeno sembrano indicare che sarebbe meglio proseguire su questa strada. Che poi succeda è un altro paio di maniche, ma va anche sottolineato che i più forti non farebbero bella figura a cercare di sottrarre alla moltitudine dei guadagni che per loro non fanno la differenza, senza considerare che una volta garantito un diritto è difficile rescinderlo senza passare per autoritari – per questo motivo e per quelli già discussi, sembra che le condizioni per una continuazione di questo trend ci siano.

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