2019, un anno di tennis: Andy Murray, rifiorire ad agosto

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2019, un anno di tennis: Andy Murray, rifiorire ad agosto

Il topic dell’ottavo mese dell’anno è il campione scozzese. Contro ogni logica e previsione, Murray torna a giocare in singolare a sette mesi dall’installazione di una protesi all’anca

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Andy Murray - Pechino 2019 (via Instagram, @atptour)
 

Il ritorno di Andy Murray in singolare, con una protesi all’anca, ha rappresentato un successo senza precedenti. Certamente della medicina. Soprattutto della voglia di un atleta straordinario di rimanere attaccato al suo sogno. Per questi giorni di festa vi lasciamo un consiglio: date un’occhiata su Amazon al docufilm Resurfacing. Racconta gli ultimi due anni di un campione di cui, poco più di 12 mesi fa, avevamo celebrato il ritiro. E che invece, a 32 anni, spera di poter iniziare proprio dall’Australia una nuova stagione da protagonista.

UN ANNO DA INCUBO – Il 2018 in una parola: dolore. A gennaio finisce sotto i ferri a Melbourne, per intervenire sulla lesione del labbro acetabolara dell’anca. Non c’erano le condizioni minime per affrontare il primo Slam dell’anno. L’ultima volta era sceso in campo da numero uno, a Wimbledon, prima di uscire zoppicando dopo il ko nei quarti con Querrey. Allo US Open 2017 nemmeno ci aveva pensato. L’infortunio risulta invalidante anche nel quotidiano: l’auspicio della moglie Kim, nei primi giorni della riabilitazione, è di rivedere il marito almeno in grado di camminare correttamente. Di infilarsi i calzini senza tormenti, di potersi tuffare sul tappeto del salotto di casa per giocare con i due bambini. Chiaramente non gli fanno difetto l’applicazione metodica, insieme alla forza mentale. Ci ha costruito su una carriera penalizzata dalla coesistenza con i fenomeni dell’epoca contemporanea, ma comunque caratterizzata da tre titoli Slam, due ori olimpici e una Davis. La stessa ossessività con cui ha sempre tratto il massimo dagli allenamenti, Murray l’ha messa nei momenti in cui ha dovuto pensare a rimettersi in piedi. Con un punto di riferimento fisso, lì ad orientare la sua agenda da un anno all’altro: Wimbledon.

ERBA AMARA – Per un britannico, sono le settimane intorno a cui gira tutto. Quelle in cui ci si sente davvero tennisti. Mamma Judy racconta: “Ciò che l’ha sempre spronato è quando gli si diceva che non avrebbe potuto fare qualcosa“. Murray ci prova. Le sconfitte con Kyrgios al Queen’s e con Edmund a Eastbourne minano le già poche certezze. “Dopo ogni match mi sentivo peggio – racconta – più che sul gioco dovevo concentrarmi sul camminare bene per non zoppicare”. La rinuncia a Wimbledon matura il giorno prima dell’inizio. E sembra spezzargli le gambe.

SENZA FINE – La costante di questa storia è però veder stoppare i titoli di coda quando sembrano pronti a scorrere. Il timore di non farcela a riprendere è evidente, anche se Murray ripete a se stesso “è troppo presto”. La trasferta negli Stati Uniti ad agosto è il ruggito di chi non ha voglia di mollare, dopo essersi sottoposto a una seconda ablazione al nervo per ridurre l’impatto del dolore. A Washington, tre partite e tre battaglie. Movimenti arruginiti, colpi belli come nei giorni migliori, urla liberatorie, sofferenza evidente. Battuti Mc Donald, Edmund e Copil, arriva il ritiro poggiato sulla consapevolezza che giocare sul dolore stava solo aggravando i problemi. Dopo quella sconfitta, è ancora una volta un video notturno dal letto (come già dopo l’operazione di gennaio) a fotografare il momento. “Sono esausto, il corpo non ne vuole più sapere, la testa non vuole oltrepassare il limite del dolore. Pensavo mi sarei sentito meglio dopo 16/17 mesi dall’intervento. È stata una serata di grande emozione perché vedo avvicinarsi la fine, anche se vorrei ancora continuare“.

VIA D’USCITA – Ecco che la finestra, ancora una volta, non è stata chiusa del tutto. Passa uno spiffero di speranza. A ottobre 2018 Murray vola insieme a coach Delgado e al suo staff a Filadelfia per mettersi nelle mani di Bill Knowles, esperto di recupero da infortuni che lavora anche molto sul morale. Nasce qui l’ipotesi di giocare in Australia a gennaio 2019 e poi a Wimbledon, per ritirarsi nel giardino di casa. La macchina del tempo si accende, come sempre accade quando si immagina di chiudere un cerchio. “Sento che il tennis sia come una via d’uscita per me“, racconta. Uscita da ciò che c’è stato e ha lasciato segni indelebili. Il massacro di Dumblane vissuto a 9 anni, la separazione dei genitori, le crisi d’ansia. Riemerge tutto, ferite probabilmente mai del tutto rimarginate.

ANCORA MELBOURNE – La conferenza stampa alla vigilia dell’Australian Open 2019 è preceduta da un momento di incertezza. “Proprio lì avrei voluto sentire un dolore forte, lancinante – racconta – per essere sicuro di dire la cosa giusta“. Poi l’annuncio: “Non mi sento bene, ho detto al mio team che spero di continuare fino a Wimbledon, ed è lì che voglio ritirarmi. Ma non sono nemmeno sicuro di farcela“. Lacrime. Murray ammette anche di pensare alla protesi, ma solo come soluzione per migliorare la qualità della vita. Non per il tennis. La priorità diventa godersi a tutta quei giorni a Melbourne. Il match d’esordio contro Bautista è un concentrato di emozioni. Da 0-2 a 2-2 in un’atmosfera pazzesca, con il pubblico trascinato dalla sua parte. Rimonta estenuante che lo porta allo sfinimento e alla sconfitta nel terzo set, quando il pubblico si alza in piedi sul suo ultimo suo turno di servizio. Per applaudirlo. Il momento sembra senza ritorno. Poi arriva però l’ennesimo contropiede. “Spero di rivedervi, farò il possibile“. Così, a caldo, nell’intervista sul campo.

MODELLO BRYAN – Quelle ore dal fortissimo impatto emotivo avevano sbloccato un’idea già in cantiere. L’interesse per la vicenda di Bob Bryan si fa concreto. I due ne parlano. Il campione statunitense è rientrato in campo con un pezzo di ferro nell’anca, vero. Ma in doppio. Tutt’altra storia per le sollecitazioni richieste. Per Murray sarebbe già un traguardo. “Gli è stato spiegato come operarsi sarebbe significato ragionevolmente rinunciare al ritiro a Wimbledon, ma in quel momento – racconta la moglie – lui pensava che a Wimbledon ci sarebbe potuto essere, con la protesi“. L’operazione, a cui Andy si sottopone nello stesso mese di gennaio, va a buon fine nelle mani del chirurgo Sarah Muirhead-Allwood. L’immediato decorso è duro almeno quanto la prima riabilitazione. Dallo staff più di qualcuno gli aveva suggerito di chiudere i conti col tennis: meglio una terapia conservativa che sottoporsi a un tale strazio. Consiglio chiaramente ignorato.

NUOVA PRIORITA’ – La riabilitazione avviene in gran parte godendosi la famiglia, con una nuova consapevolezza. “Ho sempre pensato che il tennis mi rendesse felice, adesso sono felice se non provo dolore“. I primi palleggi sono contro il muro. Allo stesso tempo, però, Andy si informa su tutte le prospettive. La stessa dottoressa Muirhead-Alwood gli parla di un rischio del 15% di distruggere completamente l’anca con un ritorno costante alle sollecitazioni del tennis professionistico. Tutto però procede bene. A maggio, alla visita di controllo, Murray comunica di non sentire più dolore dopo gli allenamenti e di aver recuperato una buona velocità sul campo. Si sente rispondere: “Continua così”. Non aspettava altro.

LACRIME DI GIOIA – Il ritorno in doppio è al Queen’s, erba di casa anche quella. Insieme a Feliciano Lopez finisce in trionfo. L’atteso passaggio da Wimbledon non sarà memorabile alla resa dei conti, se non per il doppio misto assai mediatico con Serena Williams. Il vero sogno si realizza il 12 agosto, a Cincinnati. Andy Murray torna in campo in singolare. Tutto vero. Perde con Gasquet, ma non se ne fa un cruccio. Da lì ai mesi successivi ripasserà da un Challenger (quello di Nadal a Mallorca) ma tornerà anche a sollevare un trofeo, ad Anversa. Il resto è storia ancora da raccontare, a partire da gennaio. Nella notte di agosto a Cincinnati, quella che precedeva il ritorno in campo, il solito video notturno aveva captato queste parole: “Vediamo cosa ci riserverà il futuro, penso che andrà tutto bene”.

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