C’è qualcosa di magico in quella che è stata la chiusura di una delle carriere più brillanti, e che più di tutte forse lascerà un vuoto incolmabile, degli ultimi anni di tennis. Qualcosa di romantico che ha portato Andy Murray a finire nella cornice olimpica, lì dove ha iscritto ancor di più nella leggenda il suo nome, quale unico tennista capace di vincere due ori nel singolare, per di più consecutivi. Parigi non è Londra, né la Melbourne dove ha perso cinque finali perché gli dei del tennis alle volte chiudono gli occhi. Ma Parigi è anche il luogo in cui, in una fosca domenica del novembre 2016, piazzò la zampata decisiva che gli avrebbe permesso di superare in volata Novak Djokovic e diventare n.1 al mondo.
Sono passati 8 anni, un’anca di ferro in più e della top 10 di allora il solo superstite è l’amico ed eterno rivale Nole. Ma, se la mettiamo su un piano di lascito, di sentimenti, di emozioni in eredità a chi per anni si è emozionato nel vedere lob, scambi interminabili e continui “come on“, non c’è partita. Andy Murray, sforzandosi all’estremo, è stato un “umano nella terra degli dei“, per anni ha saputo porsi alla pari dei Big Three, battendoli 29 volte ma soprattutto regalando momenti indimenticabili anche nelle sconfitte. Come d’altronde è successo alle Olimpiadi di Parigi 2024, dove l’ennesimo scherzo del fisico lo ha costretto a salutarci in doppio, in coppia con Dan Evans.
“Anche se sono sinceramente dispiaciuto del risultato finale, sono contento di essere riuscito a partecipare alle Olimpiadi e di aver chiuso la mia carriera alle mie condizioni, perché a volte negli ultimi anni non era scontato“, ha sottolineato nelle dichiarazioni post gara, un ultimo incontro con la stampa da professionista quasi commovente, durato un quarto d’ora. Ma con la possibilità di lasciare anche un ultimo sorriso: “Voi giornalisti siete davvero un bel gruppo. Non so cosa farò. Voglio dire, non ero particolarmente bravo in inglese a scuola, quindi non credo che scrivere e cose del genere sarebbero nelle mie corde. Non so cosa farò dopo“.
La domanda era riferita ad un eventuale futuro da giornalista per Andy, da cinico gladiatore a giudice più clemente. Clemenza che, giustamente, non c’è stata da parte di Taylor Fritz e Tommy Paul, superiori al duo britannico dall’inizio alla fine. Una vittoria che è passata in secondo piano, tutti erano troppo presi, troppo impegnati, a guardare un’ultima volta ancora Sir Andy Murray. L’uomo del popolo, il più vicino a tutti noi, che ha saputo ergere fatica immane e sforzi sovrumani a eccellenze in uno sport che tante volte lascia l’amaro in bocca…ma quando premia, fa entrare nella leggenda.
Come il 7 luglio 2013. Qualsiasi scozzese, qualsiasi appassionato di tennis, saprà dirvi esattamente dov’era alle 18.22 (17.22 londinesi) di quella calda domenica di luglio. 28127 giorni dal 4 luglio 1936 e la vittoria di Fred Perry, ultimo giocatore britannico a trionfare ai Championships. Fino a Murray, si intende, che un anno prima aveva fornito un altro pomeriggio sportivo da leggenda, battendo Federer per l’oro olimpico di Londra 2012 sui sacri prati di Wimbledon. Anche se in fin dei conti britannico rende giustizia fino ad un certo punto, visto che Sir Andy mai si è nascosto dietro la Union Flag, dichiarandosi prettamente scozzese. Un ennesimo punto a favore di una carriera umana di un tennista che la stampa ha per anni ha spesso provato a rinchiudere nella bolla di “normale”, ma che di normale aveva forse il taglio di capelli, con la barba arruffata ben distante dall’elegante polo di Tim Henman.
E ora che la musica è finita e le luci sono spente, più che ricordare tutte le sue imprese, le vittorie più celebri e le infinite sfide con i più grandi, a noi tutti cosa rimarrà di Andy Murray? Perché la vera grandezza rimane nel ricordo anche quando qualcosa è finito, e sai benissimo che non tornerà. Oltre che in trofei, ranking e onorificenze. Nel cuore porto una partita speciale giocata dallo scozzese, una semifinale, l’antipasto del giorno più bello della sua carriera. E, guarda caso, la città era la stessa delle opere più belle, la città che aveva erto lui, uno scozzese, a proprio simbolo. Londra, O2 Arena, sabato 19 novembre 2016, 15.15 italiane, 14.15 in Gran Bretagna: scendono in campo il n.2 al mondo Andy Murray e il n.3 Milos Raonic, già protagonisti delle finali di Wimbledon e Queen’s qualche mese prima. Ma ciò che successe in quelle 3 ore e 37 di un sabato autunnale, che ingiallisce come le foglie nell’album dei ricordi, è qualcosa che esula dal tennis in senso stretto.
Il canadese giocò probabilmente la miglior partita della sua miglior stagione, certo con tanti errori, che ci furono da ambo le parti, ma con un immenso cuore, tanto da arrivare anche a match point nel tie-break del terzo. Ma il Sir scozzese era un uomo in missione, a un passo dall’obiettivo di una vita, al quale aveva sacrificato sé stesso, i suoi sogni, e anche il suo fisico come sarebbe poi emerso nei mesi successivi. Ma quel sabato, quando vinse 11-9 il tie-break del terzo chiudendo il match per 5-7 7-6 7-6, c’era solo gioia, gloria, orgoglio. E l’ansia, l’ansia di essere a un passo da tutto ciò che hai sempre voluto.
La storia è nota, il giorno successivo Murray piegò in due set Djokovic confermandosi n.1 del mondo a fine anno. E poco importa se quello fu in effetti il canto del cigno della carriera ad alti livelli di Andy. Fu un canto bellissimo, dolcissimo, di rivalsa dell’eterno secondo, del brutto anatroccolo sempre oscurato dal più bello ed elegante (Roger), dal più tenace e indomito (Rafa) e dal più cattivo e insaziabile (Nole). Il 20 novembre 2016, domenica come poche di un novembre come tanti, il mondo si inchinò ad Andy Murray. Ed Andy Murray si inchinò al destino, che venne a prendersi con gli interessi tutto ciò che aveva concesso.
Da quel giorno ne sono passati 2811, 401 domeniche…e una vita. Ma per chi ha visto la morte in faccia da bambino, che ha dovuto rinunciare ad una parte del corpo pur di continuare a giocare a tennis, anche trascinandosi e abbassandosi a risultati indegni per un giocatore del suo calibro, il tempo è solo un numero. I sette match point che lui e Evans hanno annullato per arrivare ai quarti di finale fotografano lo spirito e la voglia di non arrendersi mai, di voler andare via senza perdere (“Stasera, dal punto di vista delle prestazioni, la sensazione era che se avessimo giocato davvero bene, avremmo avuto la possibilità di vincere una medaglia. C’è più delusione rispetto a Wimbledon dal punto di vista delle prestazioni“). Ma i carneadi americani Fritz e Paul (toh, come Tiafoe e Sock con Roger) non erano dello stesso parere il primo agosto 2024. Qualche minuto dopo la qualificazione di Djokovic alla sua quarta semifinale olimpica.
Nole, che lo ha battuto 25 volte su 36, 5 delle quali in finale Slam. La rivalità più grande della sua carriera: “È davvero irreale, incredibile quello che Nole ha ottenuto in quest’ultima parte della sua carriera. Ora ha una grande chance di vincere l’oro, che è un suo grande obiettivo. Posso dire che è stato lui il mio più grande rivale, anche se sono consapevole che ha avuto due rivali più grandi di me durante la sua carriera”. Anche nell’ora della fine, quando tutti guardano lui e soltanto lui, Andy Murray ha avuto la capacità di rimanere umile, di rimanere quel ragazzaccio di Edimburgo che ha sgomitato dilaniando sé stesso e il suo fisico per accarezzare le vette dei tre alieni e guardarli da pari a pari, non come irraggiungibili dei. Nell’epoca del tennis che molti coniano come quella dei Big Three…ma che in realtà, per essere precisi, è stata quella dei Fab 4.
Un’epoca che corre verso il tramonto: il belloccio salutò per primo in una cornice particolare, una sorta di festa; l’uomo del popolo in un agosto parigino da gladiatore olimpico, come gli si addice, quasi cercando però di passare inosservato; il torero spagnolo ancora ci prova, ma anche lui è prossimo all’ultimo tango; rimane lui, il cannibale serbo, a un passo dal sogno più grande, l’unico obiettivo che gli manca. L’unico obiettivo che Andy, più anziano precisamente di una settimana, ha conquistato prima di lui.
In Scozia, la patria del più grande tennista britannico di tutti i tempi, al quale verrà intitolato il Campo Centrale del Queen’s, che rifiutò il nome “Murray Mount” per la collinetta di fronte il Centrale di Wimbledon opinando che sarebbe appartenuta sempre a Henman come “Henman Hill”, c’è un detto ritagliato per l’occasione. “Many a mickle maks a muckle”, cioè “tante piccole cose ne fanno una grande”. Andy Murray ci ha lasciato migliaia di ricordi, cose piccole sul momento, enormi in un disegno generale che lo rende immortale. Per chi nel tennis vede la vita, e crede ancora nel destino. Per chi, soprattutto, il destino non lo fugge ma lo insegue per acciuffarlo e modellarlo a piacimento. Semmai con un lob che si perde nel sole che illumina un campo d’erba spelacchiato in una domenica di luglio. Then, now, forever.