Williams, l'erba è proprietà privata (Crivelli). Intramontabili Williams, icone di uno stile (Clerici). Riecco le Williams a fare la storia (Giua). Serena e Venus, le Ladies di Wimbledon meritano un inchino (Merli)

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Williams, l’erba è proprietà privata (Crivelli). Intramontabili Williams, icone di uno stile (Clerici). Riecco le Williams a fare la storia (Giua). Serena e Venus, le Ladies di Wimbledon meritano un inchino (Merli)

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Williams, l’erba è proprietà privata (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)

Cambia il tempo ma loro no. Come una canzone che non passa mai di moda o un abito elegante che non invecchia con gli anni, scorrono le epoche e mutano le generazioni, però l’erba delle Williams è sempre più verde. Una saga familiare eterna, infinita, che a Wimbledon si è sublimata in quattro finali una contro l’altra (tre vinte da Serena nel 2002, 2003 e 2009, una da Venus nel 2008) e addirittura in 11 trionfi in 16 anni marchiati dal loro cognome, sei per l’attuale numero uno, che è pure campionessa in carica, e cinque per la sorella Maggiore. Insomma, con la Sharapova in altre faccende di meldonium affaccendata, la miracolosa Bar-toli divisa tra diete e gioielli e la Kvitova alla continua ricerca di se stessa, la storia dei Championships dal 2000 ad oggi è tutta racchiusa nelle inimitabili e perpetue carriere delle figlie di Richard e Oracene, mai così vicine a un altro appuntamento con la storia, cioè la nona finale Slam tra di loro. Cui il dio di Church Road certamente si affida per ridare aria e brividi a un torneo massacrato dalla pioggia e, fin qui, da brutte partite.

Intanto, gli annali raccontano che le Williams non arrivavano in semifinale insieme proprio dal 2009, la stagione dell’ultimo incrocio di casa per giocarsi il titolo nel Major più prestigioso. E quella fu anche l’ultima occasione in cui Venere approdò così lontano, prima che l’usura e la malattia, la sindrome di Sjogren diagnosticata un paio d’anni dopo, facessero temere l’addio dopo un decennio da regina. E così, se può essere sorprendente ammirare Serena giocare tre partite solidissime in tre giorni consecutivi, fino a salire di livello quando conta, come nei due break decisivi alla Pavlyuchenkova, è emozionante riscoprire il talento pieno di Venus contro la kazaka (ovviamente russa di nascita) Shvedova. Perché questa figlia si era persa e ora è ritrovata: «II mio è stato un viaggio lungo, ma mi ha reso più forte. Sono benedetta, perché mi è stata data ancora l’opportunità di fare la cosa che amo di più. Ho imparato che bisogna sempre credere in se stessi, ad ogni costo, e che non bisogna avere paura. La paura deve rimanere fuori dalla porta». E a chi deve aver pensato che, nelle tenebre di una carriera in pericolo, sia più consono abbandonarsi, arriva un messaggio scolpito nella roccia: «Il ritiro è il modo più facile per scappare. Io non ho tempo per le cose facili. Il tennis è una cosa dura».

Anche per questo rappresentano un’icona, sicuramente le giocatrici simbolo di questo inizio millennio, e le altre se ne facciano una ragione. A Serena, a volte, basta solo alzare il tono di voce, come nel quarto di lunedì contro la Kuznetsova: un ball boy scivola sull’erba umida e anche se non piove, lei chiede la chiusura del tetto minacciando di fare causa al torneo. E il tetto, ovviamente, viene chiuso, nonostante alla fine minimizzi: «Ma quale causa, non mi sarebbe mai passato per la mente». Dalla casa in Florida, dove vive con la terza moglie Lakeisha che ha solo un anno in più di Venus, papà Richard sarà orgoglioso una volta di più di quelle ragazzine terribili che fece sponsorizzare da una nota casa di abbigliamento prima ancora che passassero professioniste. A dicembre, in un’intervista, rivelò che non avrebbe più seguito un torneo dal vivo, ma dietro le quinte è ancora il Grande Manovratore, come conferma Mouratoglou, coach della numero uno del mondo: «Si sentono cinque o sei volte al giorno, chiama sempre lui». E Venus non nega: «E’ mio padre, certo che ci telefoniamo e gli chiedo consigli. Ma non sono più questioni tattiche, piuttosto mi dice di rimanere rilassata (…)

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Intramontabili Williams, icone di uno stile (Gianni Clerici, La Repubblica)

«Ho capito perché mi hanno rivenduto il biglietto allo stesso prezzo», ho sentito mormorare un bello spettatore, sicuramente un aficionado, a giudicare dalla cravatta con i colori del Club verde e viola. «Perché, scusi?» mi sono incuriosito. «Giocano tutte allo stesso modo, sembrano prodotti industriali di una catena di montaggio. Specie quelle dell’Est». »Per fortuna ci sono ancora le Williams, tutte e due in semifinale» ho osservato. «Chissà se non hanno cominciato proprio loro?» ha affermato lui e, mentre scrivo, ancora me lo sto chiedendo. Cominciarono infatti loro, con il rovescio bimane, e con un gioco nel quale la forza, l’atletismo, contava di più che una mano sapiente, un tocco simile a una pennellata, cose da Maureen Connolly o Maria Ester Bueno. Mi viene in mente la prima volta che vidi Venus. Non sono pedofilo, ma nella mia esperienza di critico d’arte fui subito spinto ad ammirare quella ragazzina, ancora ignota se non al mio carissimo amico Bud Collins, del Boston Globe, il miglior scriba americano. «Andiamo a vedere la futura numero uno mondiale» mi disse e, dall’aeroporto di Logan volammo a Los Angeles, poi in taxi nel sobborgo di Compton, dove su un campaccio di cemento incrinato un signore che sapeva a stento palleggiare ci mostrò le qualità della sua bambina assistita, come raccattapalle, da una sorellina più piccola. La visita terminò quando l’omone chiese alcune centinaia di dollari al mio amico, e questi giustamente li rifiutò, affermando che la sua column avrebbe offerto sufficiente pubblicità alla «futura number one del mondo» come affermò quella specie di Trump nero.

Cominciò da quell’ignoto pomeriggio la storia che sarebbe divenuta l’Epopea delle Williams, una storia che ha ora raggiunto 27 match (16-11 per Serena) , anche se il regista non è più presente insieme all’autrice, la mamma Oracene detta Brandy, quella a cui Richard nascose gli antifecondativi. Cinque Slam a Wimbledon per Venus, su un totale di 7, e 6 per Serena, su un totale di 21. Due semifinali da superare, per Serena contro la Vesnina ( 50 ), per Venus di fronte alla Kerber (4 ). Non è che quel loro stile fosse divenuto quello oggi imperante, lo stile prodotto da famiglie di professione sportive, miranti al guadagno, molto più facilmente raggiungibile nella socieà occidentale. Lo stile delle loro avversarie odierne, la Shvedova, battezzata col predestinato nome di Jaroslava (Drobny), mamma mondiale di maratona, papà allenatore atletico. E la Pavlyuchenkova, prodotta da una famiglia con nonna cestista, padre canoista, mamma nuotatrice. Era però una trovata importante, qualcosa che atteneva maggiormente ai muscoli, all’atletismo, alle nuove racchette che avrebbero trasformato il gioco del tennis nello sport del tennis.

Mi domando ora se sia il caso di ricordare dettagli già ascoltati dai lettori aficionados sui siti che, anche qui, sono ormai rappresentati dalla maggioranza dei presenti sui banchi. Mi domando se sia il caso di ricordare che Venus sia ritornata su nel secondo set da 2-5, anche per l’emotività che ancora è parte determinante di uno sport individuale. Mi domando se sia il caso di ricordare che la Serena vista nella storica partita contro Robertina Vinci soffre ancora di improvvisi offuscamenti, non so se mentali o muscolari, ai quali il suo ormai famoso coach Mouratoglou l’ha consigliata di ovviare con scambi che chiamerei uno-due, come quelli della boxe. Non so nemmeno come si possa azzardare un pronostico per la il possibile futuro incontro sorellicida, la cui somma di 27 indica finora una prevalenza di 16-11 per Serena (…)

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Riecco le Williams a fare la storia (Claudio Giua, repubblica.it)

Diciassette anni fa Serena si prendeva il suo primo Slam a Flushing Meadows battendo in finale la numero 1 al mondo Martina Hingis. Tre anni dopo trionfava a Wimbledon, dove poi avrebbe alzato altre cinque volte l’eccessivo piatto dorato e intarsiato che va alla vincitrice, battendo per 7-6 6-3 Venus, sorella amatissima. L’ultimo suo successo sull’erba dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club è dell’anno scorso. Da allora non ha più vinto uno dei grandi tornei. Avesse trionfato in settembre agli UsOpen, come tutto il mondo s’attendeva, avrebbe conquistato uno storico Grande Slam.

Uscire di scena in semifinale davanti al pubblico newyorkese è stato per Serena uno shock fortissimo. Il suo coach Patrick Mouratoglou lavora da allora per convincerla che le sconfitte subite per mano di Roberta Vinci a Flushing Meadows, Angelique Kerber in finale a Melbourne e Garbine Muguruza in quella di Parigi non sono affatto la prova che prima o poi una qualsiasi avversaria fermerà puntualmente la sua rincorsa al ventiduesimo Slam. Cosa fa il tecnico francese? Ce lo spiega, indirettamente, a pagina 153 del suo libro “Impara a vincere” (2016, Piemme, 27 euro) dove racconta come nel 2012 riportò Serena al successo a Wimbledon dopo la lunga sosta per l’infortunio al piede e, soprattutto, per la drammatica embolia polmonare subita nel 2010: “Il bisogno imperioso che ha di vincere per sentirsi sicura è malsano. E addirittura controproducente in questo momento della sua carriera. Decido quindi, per alleggerire il suo fardello, di porla in una prospettiva a medio termine. Lo scopo è di allentare la sua ansia. Proponendole degli obiettivi più lontani nel tempo, le concedo di perdere nel breve termine. (…) Questo diritto di perdere le permette di rilassarsi, mentalmente e fisicamente. Si concede di rischiare e di esprimersi sul campo. Accettare l’idea della sconfitta in modo provvisorio la libera dall’angoscia”.

A mio giudizio, anche stavolta l’obiettivo di Mouratoglou è a portata di mano. Ieri ho visto Serena affrontare e battere nettamente (7-5 6-1) l’espertissima Svetlana Kuznetsova, classe 1985, WTA 14. Oggi, nei quarti di finale, ha replicato la prova di forza con un’altra russa, Anastasia Pavlyuchenkova, 25 anni compiuti l’altro ieri, 23 WTA. La mia impressione è che la qualità del suo gioco sia al top in una stagione per lei non sempre all’altezza delle sue aspettative. E che psicologicamente sia pronta a riprendersi lo scettro di Wimbledon.

Nel primo set la tennista di Samara si gioca subito le carte migliori, aggredendo l’avversaria soprattutto nei suoi turni di servizio. Serena si difende con attenzione e senza affanni, è incontenibile quando serve, ottiene il break al momento più opportuno, il nono game, e poi, al servizio, chiude senza concedere un solo punto ad Anastasia. Il secondo set è la fotocopia del precedente, con l’americana che si limita ad attendere, ancora sul 4 pari, l’occasione per prendere il largo e mettere fine al match (6-4 6-4).

Il problema prossimo futuro di Mouratoglou è che Serena non sopporterebbe di lasciarsi alle spalle Wimbledon o Flushing Meadows senza almeno un titolo in tasca. Vero è che nel 2004, nel 2007 e nel 2011 la più giovane delle sorelle Willliams finì la stagione senza nemmeno uno Slam in più nel curriculum. Ma in quei frangenti la sua prospettiva agonistica era lunga, quasi infinita. Adesso non è così.

Sta molto bene anche Venus, tredici Slam vinti, WTA 8, che oggi ha affrontato con il piglio degli anni migliori (lei è del giugno 1980, Serena del settembre 1981) la moscovita naturalizzata kazaka Yaroslava Shvedova, 28 anni, già 25 al mondo, attualmente numero 96 del ranking WTA. L’ha controllata nel primo set (7-6) e dominata nel secondo (6-2). In semifinale troverà la tedesca Kerber, che a sua volta ha eliminato a fatica la romena Simona Halep (7-5 7-6).

Se entrambe sorelle passassero il prossimo turno, s’affronterebbero in finale replicando per la tredicesima volta in uno Slam il confronto che entrambe odiano di più. L’ultima occasione che le vide l’una contro l’altra schierate in uno Slam fu sempre a Wimbledon, edizione 2009 (…)

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Serena e Venus, le Ladies di Wimbledon meritano un inchino (Alessandro Merli, Il Sole 24 Ore)

Ci sono due Ladies’ Days, le giornate riservate alle signore, nel calendario della season, la stagione che in Inghilterra mescola sport e mondanità fra l’effimera primavera e l’incerta estate. Il primo è a Royal Ascot, la settimana più importante per le corse dei cavalli, ma i protagonisti sono, appunto, i cavalli, e le signore si distinguono più che altro per gli assurdi cappellini. A Wimbledon, le signore sono al centro della scena, sul Centre Court e sul campo numero 1, nel martedì della seconda settimana del torneo, a loro dedicato, pioggia permettendo. In questa giornata i maschi si riposano e le signore giocano tutti e quattro i quarti di finale del singolare.

Da quasi vent’anni, le ladies di Wimbledon sono le sorelle Williams, le ex ragazze di Compton, un sobborgo di Los Angeles così malfamato che, narra la leggenda, dovevano evitare le pallottole vaganti delle sparatorie fra gang rivali mentre si allenavano su campi disastrati sotto l’occhio vigile del padre-padrone Richard. Il contrasto non potrebbe essere più stridente con gli immacolati prati dell’All England Club, che le sorelle Williams hanno trasformato in casa loro.

La prima a riaffermare la sua sovranità sul territorio di Church Road è stata la maggiore, Venus, a 36 anni la tennista più vecchia ad avanzare fino ai quarti dai tempi di Martina Navratilova. Venus, che qui ha messo piede per la prima volta addirittura nel 1997, e che poi ha vinto cinque volte, l’ultima delle quali contro sua sorella Serena nel 2008, e in altre tre occasioni è arrivata in finale, sempre contro la sorella, in quegli strani incontri che per un pezzo si diceva fossero pilotati da Papà Richard. Dopo un blackout che durava ormai da tempo, anche a causa di malanni di origine diversa (il più recente quarto di finale a Wimbledon risale al 2010), sembra avere ritrovato se stessa. Nel suo quarto di finale, ha messo sotto con grande facilità la kazaka Yaroslava Shvedova (7-6, 6-2), forse intimidita, lei numero 96 del mondo dall’occasione e dal pedigree dell’avversaria, che comunque sembra aver ritrovato il piacer di giocare a tennis smarrito da anni. In semifinale, Venus dovrà vedersela con la tedesca Angelique Kerber, che si è liberata di Simona Halep, nella sagra dei break e contro-break. Kerber quest’anno ha già al suo attivo l’Open di Australia, avendo battuto in finale proprio Serena. È lei oggi il vero ostacolo alla riaffermazione del dominio Williams.

Serena, che di anni ne ha 34, ma resta la numero uno del mondo, è troppa roba per la povera russa Anastasia Pavlyuchenkova, che ha liquidato con un doppio 6-4, finendo con un ace. Difficile pronosticare una sorte diversa per la connazionale Elena Vesnina, che la minore delle sorelle Williams affronta giovedì in semifinale. Vesnina ha battuto Dominika Cibulkova, che era così poco convinta di fare tanta strada a Wimbledon da aver già fissato per sabato prossimo, giorno della finale femminile, la data del proprio matrimonio. Ora può concentrarsi sugli ultimi preparativi delle nozze.

Come si usa dire, solo Serena può battere Serena. È più facile ricordare oggi che i Championships li ha già vinti sei volte, compreso l’anno scorso, che non il suo esordio a Wimbledon contro l’italiana Laura Golarsa nel 1998. Un’altra italiana, Roberta Vinci, le ha annichilito l’anno scorso allo Us Open il sogno del Grande Slam. Di tornei dello Slam ne ha già vinti 21. Con un successo nella finale di sabato, raggiungerebbe Steffi Graf. Dopo il suo match, sembrava contenta soprattutto della vittoria della sorella. Il tennis visto in campo non sarà stato della miglior qualità, ma le Ladies di Wimbledon meritano un inchino.

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