Pennetta: “Ok, è finita. Il tennis mi mancherà” (Semeraro). Perché Pennetta resterà unica (Arturi). Flavia, ci hai fatto godere (Valesio).

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Pennetta: “Ok, è finita. Il tennis mi mancherà” (Semeraro). Perché Pennetta resterà unica (Arturi). Flavia, ci hai fatto godere (Valesio).

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Pennetta: “Ok, è finita. Il tennis mi mancherà” (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport).

L’ultimo rovescio in rete a Singapore poi l’abbraccio con Maria Sharapova e la fuga precipitosa negli spogliatoi, con l’addetto della Wta che le chiedeva di fermarsi per una piccola cerimonia, il mazzo di fiori già pronto. «No, no», ripeteva Flavia Pennetta. Non ora, non qui, c’è il rischio concreto che sfugga qualche lacrima. Questo probabilmente sarà ricordato come il suo ultimo match da professionista, per i saluti ci sarà tempo. «La verità è che in campo stavo per scoppiare in lacrime – ammette – ma odio i drammi, non voglio farne neppure in questo momento. In ogni caso ringrazio tutti, dal pubblico al circuito, per l’affetto che mi è stato dimostrato in questi anni. E complimenti a Maria per la vittoria e per la qualificazione». E dire che a Flavia ieri sarebbe bastato vincere un set contro la n. 4 del mondo per passare alle semifinali del Masters e aggiungere un altro record alla sua splendida carriera: prima italiana nella top-ten, prima a diventare n.1 di doppio, prima a vincere agli US Open. In quel caso Masha si sarebbe qualificata come n.1 nel girone e Flavia come seconda, ma le due campionesse scese in campo non hanno lasciato spazio a malignità su accordi di vario genere e hanno onorato l’impegno fino alla fine. A vincere quel benedetto primo set c’è anche arrivata vicina, sul 3-1 e palla del doppio break nel primo, poi sul 4-2. Da li in poi però la Sharapova ha iniziato a giocare un tennis stellare persino per i suoi livelli. Sette ace, 67% di prime palle, la solita personalità granitica e in più una varietà di colpi inedita persino per lei. «Non ricordo di averla mai vista giocare e servire così bene», sostiene Flavia. «Nel secondo set è stata perfetta. Le riusciva tutto, anche i dropshot e le volée». Una semifinale da Maestra stavolta sarebbe stata la ciliegina sulla torta di una carriera magnifica decorata da 11 titoli Wta, 1 Us Open, 4 Fed Cup, un Masters, gli Australian Open e il n.1 in doppio, il n.6 in singolare. «E’ la cosa che mi rende più orgogliosa. Ho avuto tanti infortuni e ho dovuto ricominciare da zero, penso sia una cosa molto importante. Oggi mi sentivo normale, se avessi vinto un set avrei rigiocato sabato, solo sul match point mi sono detta: ok, è finita. Giocare la mia ultima partita contro una campionessa come Maria è stato un gran bel modo di dire addio al tennis. Mi mancheranno le altre giocatrici, che in un certo senso sono state la mia famiglia in questi anni, e mi mancherà la competizione: quando entri in campo, specie su un centrale, l’emozione è davvero speciale. Non credo che proverò mai più qualcosa del genere. Però sono contenta di ricominciare un’altra parte della mia vita». Accanto a Fabio Fognini, con cui si sposerà a giugno. L’addio del cuore Flavia ha sempre detto che le piacerebbe darlo a Roma, il torneo che ha sempre sognato di vincere. «Ma solo per salutare, non per giocare», tiene a precisare. II presidente del Coni Malagò e quello della Fit Binaghi sperano di farle cambiare idea. Dal ranking – dove oggi è n.7 – non uscirà: ha la classifica per partecipare ai Giochi di Rio, le basterebbe avviare l’Itf tre mesi prima per sottoporsi all’antidoping. Intanto fra poche settimane si concederà una vacanza in India, per le ricche esibizioni della IPTL. Chissà.

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Perché Pennetta resterà unica (Franco Arturi, La Gazzetta dello Sport).

Flavia Pennetta esce dall’inquadratura. Titoli di coda e qualche lacrima, degli spettatori soprattutto. La sconfitta con Sharapova al Masters di Singapore è la scena finale di uno di quei soggetti da film che a volte propone lo sport, quello vero. Giochiamoci subito un forse, per il quale non facciamo il tifo: siamo abituati ai più impensabili ritorni, ma il suo eventuale non sarebbe in linea con la sua storia. Non cambia nulla, comunque, in relazione al passo d’addio e all’apprezzamento per il personaggio. Anche lei, a suo modo è stata una «prescelta»: la sua vittoria di New York al crepuscolo della carriera, avendo di fronte un’amica d’infanzia, Roberta Vinci, appartiene quasi a un soggetto da cinema. Hollywood ci ha proposto molte storie commoventi, spesso tratte da vicende realmente accadute: da «Imbattibile», la vicenda di un nessuno, Vincent Papale, che diventa un eroe del football, a «Il più bel gioco della mia vita», favola del golf; dal basket sociale di «Glory Road» e di «Hoosiers – Colpo vincente» al ghiaccio fatato di «Miracle» e ai grandi soggetti sulla boxe. Ma niente è paragonabile alla traiettoria di Flavia Pennetta e al colpo di scena finale: quel titolo dello Slam che premia i sogni e una carriera in una trama quasi inverosimile. Mi auguro che qualche regista americano (dubito purtroppo che la nostra cinematografia possa porsi davanti a un soggetto tanto ambizioso) non si faccia scoraggiare dalla nazionalità di Flavia e di Roberta. Ci priverebbe di un intreccio che ha quasi l’urgenza di essere raccontato in termini artistici oltre che di cronaca. Il suo dritto un po’ così non l’ha mai fermata perché il resto del suo importante bagaglio tecnico e la capacità di rialzarsi dopo ogni sconfitta l’hanno resa migliore anno dopo anno. In un ambiente di leonesse e di picchiatrici ansimanti, Pennetta s’è fatta rispettare ed è ora salutata con affetto da tutto il mondo del tennis. Dai tempi di Chris Evert non si vedeva ad alto livello una grintosa compostezza come la sua. Una tennista da applaudire anche quando usciva battuta dal court. Flavia non è stata una Pellegrini o una Vezzali salvo che in questo strepitoso finale. Per questo non ha monopolizzato le attenzioni nazionali, pur prendendosi tutto quello che spetta a una tennista che abita non lontano dalle prime 10 del mondo, vince qualche decina di tornei fra singolare e doppio e ha una presenza scenica da predestinata. Flavia è stata comunque campionessa vera in uno sport spietato e universale e ha saputo ricostruirsi tante volte dai colpi bassi della vita, che fossero un fidanzato inaffidabile o gli infortuni. Una ragazza, e poi una donna, che ha attraversato la nostra ammirazione con il sorriso sulle labbra di chi dà il massimo e non vuole perdere il contatto con la realtà. Lei è un’ambasciatrice dell’Italia migliore. Flavia va ora all’incasso della sua quota nella vita di ogni giorno, quella che l’avvicinerà di più alla nostra. Ma anche entrando in un supermercato o spingendo una carrozzina, conserverà sul viso, ne siamo certi, le tracce di una magia che solo per lei è stata sprigionata. In questo resterà unica.

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Flavia, ci hai fatto godere (Piero Valesio, Tuttosport).

Per capire quale è stata la grandezza di Flavia Pennetta avreste dovuto essere presenti in un palazzetto russo semideserto nell’autunno del 2007; quando L’Italia di Fed Cup aveva appena perso la finale, gli spettatori se n’erano andati da un pezzo e in zona restava solo un manipolo di giornalisti che tentavano di raccontare i motivi di quella sconfitta. Flavia, convocata ma non giocante, si aggirava per i corridoi del palazzetto con un telefono in mano. Quando si soffre per amore non è mai un bel vedere. Quando a soffrire è una che fa sport e che dunque, per sua natura, è simbolo di combattimento, di ricerca del risultato migliore, la visione è ancora meno piacevole. Flavia era magrissima: aveva perso parecchio peso dopo la rottura con Moya; quasi si perdeva nella tuta che indossava. Tutto si poteva prevedere in quel momento, meno che sarebbe stata protagonista di tutto quanto è successo dopo. Quando una sportiva sa uscire da una situazione di sofferenza così profonda e lo fa accettando di restare sotto i riflettori ma senza cercarli, allora compie veramente l’impresa. Altro che riprendersi dopo un intervento al polso o addirittura a due: questa è una sciocchezza, al confronto. Quando in uno sport capace di coinvolgere le nostre corde più profonde si è capaci di rimettere insieme i pezzi dopo un crac del genere e diventare più vincenti di prima, vuol dire che si è grandi. Flavia, che ieri ha giocato l’ultima partita della sua carriera pendendo contro una Sharapova debordante è un prodotto perfetto della piccola impresa italiana a base familiare. Certo ha avuto fior di maestri e guide che l’hanno cresciuta: e da quella famiglia ad un certo punto ha deciso di mettere (tennisticamente) un po’ di chilometri e andare a vivere e allenarsi in Spagna. Ma è da quelle radici che Flavia ha tratto l’energia per diventare ciò che è stata, e tutto nel suo comportamento è frutto della linfa che ha assorbito da quel terreno. Non è mai stata una macchina da punti, Flavia; anche se quel rovescio lungo linea con cui anche ieri ha fatto vedere a Masha, finché è stato possibile, i sorci verdi è un marchio di fabbrica difficilmente dimenticabile. E’ stata un misto di genialità e determinazione. Con buona pace di tutti quelli convinti che sulla determinazione si faccia difetto per definizione, dalle nostre parti. Flavia col sombrero ad Acapulco, dove vinceva perché lì c’è il mare e perché nessuno le chiedeva di vincere. Flavia che ha dovuto lottare tutta la vita per allontanare da se la nomea di quella che se la fa sotto nei momenti importanti. Flavia che vuole vincere Roma (dove festeggerà la sua carriera l’anno prossimo) e non vincerà mai. Flavia che non va d’accordo con la Schiavone, forse si, forse sono amiche ma poi in fondo chissenefrega. Flavia che vomita in campo, che piange negli spogliatoi, che si mette col modello ma poi non è cosa, che vince New York e poi saluta. Flavia è stata tutti noi più di chiunque altra. Ecco perché non si può non volerle bene.

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