Djokovic-Murray: i gemelli diversi si giocano anche Parigi (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)
Verrà il tempo dei nuovi eroi. Per adesso, il pianeta è al sicuro con quel che resta dei Fantastici Quattro, forzatamente menomati dalla decadenza fisica di Federer e Nadal. I più resistenti sono anche i più forti, e dopo l’Australia pure la sacra terra del Roland Garros si piega ai super-poteri di Djokovic e Murray, cioè il primo e il secondo giocatore del mondo. E’ la loro stagione, i gemelli diversi nati a una settimana di distanza e rivali fin quasi dalla culla tennistica si stanno dividendo la scena in attesa che i compagni di ventura Roger e Rafa (forse) risolvano i guai dell’età e il logorio della vita moderna, mentre dietro di loro qualche ragazzo ambizioso spinge, promette, ma ancora non sfonda. CHE SPAREGGIO Un filo rosso lega adesso il Djoker e Muzza, che per la settima volta si contenderanno un Major nel confronto diretto (4-2 per il serbo, 23-10 per lui in totale nelle sfide incrociate) e si ritrovano all’epilogo per la terza volta consecutiva nell’anno sulla superficie più lenta e faticosa, qui a Parigi resa ancor più spacca-gambe da due settimane gonfie di umidità: a Madrid vinse Nole, a Roma lo scozzese. Che fantastica bella, dunque. Carica di valore e significato, e perciò dal pathos esasperato. Perché Djokovic, indubbio signore di questa epoca, come certificano le 18 finali raggiunte negli ultimi 23 Slam, quando ne aveva giocate solo due nei primi 23, al Roland Garros non ha mai alzato la Coppa, una maledizione che sembra perseguitarlo e che vorrebbe finalmente esorcizzare: significherebbe realizzare, insieme a quello personale, il non calendar Slam (quattro successi consecutivi non nella stessa stagione) e gettarsi all’inseguimento di Budge e Laver per quello vero. Da leggenda. Mentre Murray, fino a due anni fa testardamente convinto che la terra, sulla quale si abbeverò da giovincello per trasformarsi in giocatore finito (a Barcellona), non esaltasse le sue doti di gambe e difesa, diventa il primo britannico così avanti in Francia dal 1937 (Bunny Austin) e raggiunge la sola finale Slam che gli mancasse. IL SEGNO DEL COMANDO Insomma, poteva toccare solo a loro. E non s’abbatta Thiem, così caricato di pressione dalle attese della vigilia e subito riportato alla realtà da Nole, che gioca cinque game iniziali fantascientifici in cui mette in ogni colpo il segno del comando. L’austriaco si farà, ma si accorge, soprattutto quando finalmente ottiene un break e si allontana fino al 3-1 nel 3 set provocando la reazione della belva, che questo livello ancora non gli appartiene: «Ho giocato bene, ma lui è semplicemente troppo più forte». Un Djokovic senza pietà, che a ogni fine match coinvolge i raccattapalle nel piccolo show di saluto al pubblico per attirarsi i favori di una folla che sicuramente lo ama meno di Federer e Nadal e di cui vorrebbe finalmente i cuori grazie al trionfo più cercato e voluto: «La mia miglior partita del torneo, mi sono messo nella posizione in cui avrei voluto essere all’inizio. Ma con Andy sarà un massacro fisico». Muzza è uscito indenne da una prima settimana carica di polemiche per l’abbandono della Mauresmo e di paure perle difficoltà con Stepanek e Bourgue, e adesso può permettersi di dominare, a parte il piccolo passaggio a vuoto di fine terzo set, il campione uscente Wawrinka con un match solido al servizio e sempre in spinta, quasi avesse alla fine capito che sulla terra ride chi osa, non chi si ritrae: «Una finale che significa tantissimo per entrambi, perché nessuno di noi sa quante chance avrà di vincere qui nei prossimi anni. Sarà una cavalcata durissima». Prepara e le alabarde
Numeri 1 uguali e diversi (Valentina Clemente, Il corriere dello Sport)
Dei quattro finalisti, tra il tabellone degli uomini e delle donne in questo Roland Garros, c’è un solo un volto nuovo e forse neanche troppo inatteso, ovvero quello di Garbine Muguruza, mentre per il resto il ranking si è imposto sul campo. Saranno quindi Serena Williams, che sfiderà ovviamente la spagnola, Andy Murray e Novak Djokovic i protagonisti degli ultimi due incontri di singolare del torneo parigino. Quella femminile è una sfida che in molti vedono già decisa, soprattutto perché la numero 1 del mondo, nonostante le difficoltà (e non sono poche, visti i set che si è lasciata portare via) che ha incontrato fin’ora, sa sempre come risolvere le sue partite e anche di fronte a una Muguruza più che volenterosa, rischia davvero di raggiungere questa volta il record di ben 22 Slam nell’Era Open appartenuto finora solamente a Steffi Graf. 3 VITTORIE In carriera Serena Williams ha già conquistato per tre volte il Roland Garras: ovvero tutte le volte che è riuscita ad arrivare in finale (nel 2002, nel 2013 e nel 2015). La statunitense in carriera è a quota 21 Slam: meglio di lei solo Court (24) e Graf (22). Un titolo che varrebbe doppio, visti gli alti e bassi vissuti dopo la sconfitta a New York, e che rilancerebbe ulteriormente la sua carriera. Sarebbe fantastico raggiungere questo nuovo record. Non posso far altro che concentrarmi e vincere il torneo per farlo mio». A tentare d’impedirle quest’impresa la numero 4 del ranking mondiale, che nei confronti precedenti è riuscita a battere l’americana proprio a Parigi nel 2014. «Non cambierò tattica – ha precisato la Williams, che ieri ha faticato non poco per venire a capo di Kiki Bertens in due set – ma devo dire che sta giocando davvero bene, con aggressività e precisione nei colpi. Penso sarà davvero un bell’incontro, anche perché l’ultima volta che ci siamo affrontate qui è stata lei ad imporsi. Ho imparato tante cose da quella sfida e io odio perdere, ma spero che quella sconfitta oggi mi possa dare qualcosa di più in campo. Quello è stato comunque un match “necessario” e ora spero di poterne approfittare per ribaltarne il risultato». La numero 1 ha chiaramente lanciato il suo proclama e la Muguruza da parte sua sa che l’attende una sfida durissima. «Le finali le giocano i tennisti migliori e Serena ne fa parte, ma non devo far troppa attenzione a chi mi trovo di fronte, quanto concentrarmi sul mio gioco. Ho imparato tanto in queste due settimane parigine, soprattutto a controllare le mie emozioni, fuori e dentro il campo. A volte non fa bene mostrarle troppo. Sto cercando di mettere insieme tutte le esperienze e finora i risultati sono stati positivi». IL CLASSICO. Nel tabellone maschile si sfideranno quindi i primi due del ranking mondiale in un confronto, il 34° della saga, diventato ormai un punto di riferimento di questi ultimi anni e mesi. Basta pensare che dall’inizio della stagione siamo giunti alla quarta finale del 2016 e la seconda in chiave Slam: in vantaggio ovviamente Djokovic, ma l’ultimo risultato utile è stato quello di Murray sulla terra rossa del Foro Italico. Si prospetta una sfida lunga e interessante perché, se da una parte il serbo sembra aver ritrovato lo smalto nella sua vittoria in tre set contro Dominic Thiem, dall’altra lo scozzese contro Stan Wawrinka ha dimostrato ancora una volta la sua completezza nel gioco su terra. «E un combattente – ha affermato Djokovic riferendosi al suo prossimo avversario – ed è migliorato tanto su questa superficie e la sua stagione lo prova. Abbiamo uno stile simile e sarà una grande finale». Giunto ad un passo dal sogno Murray, dopo aver estromesso Wawrinka, vuole arrivare in fondo: «Nessuno di noi sa quante chance ha di vincere, ma molti, come Federer, hanno lottato tanto per conquistare questo torneo senza riuscirci. Ho fatto una bella partita contro Stan e spero di ripetermi anche in finale».
Serena-Garbine: finale da…maschi (Daniele Azzolini, Tuttosport)
Giocheranno la finale ognuna per conto loro. Tireranno a più non posso, come sempre, del tutto indifferenti a una qualsiasi trama possa garantire il match. Come facciano, se lo chiedono spesso anche le altre, le avversarie. «Dev’essere una specie a parte», fu la conclusione cui giunse Flavia Pennetta. Serena, Garbine, altre come loro, nel suo piccolo persino la Giorgi, giocano a prescindere da chi hanno di fronte, senza chiedersi che cosa stiano facendo le oppositrici, o pensando, o architettando. Non importa Serena Williams è la capostipite del Gruppo delle Noncuranti. La Muguruza una delle epigone. Ma è la finale migliore che questo torneo potesse offrire. «Non so quando giocherò ancora una finale dello Slam, né se la giocherò ancora. Ma non smetterò di cercarla, in ogni torneo». La Storia, quando la sfiori, quando l’accarezzi solo per un attimo, ti entra dentro e non ti lascia più. Garbine Muguruza lo capì fra i lucciconi di una finale persa, l’anno scorso a Wimbledon. Sempre con Serena. Se ne sentì respinta, forse non era ancora pronta, e fini per ripiegare, quasi una forza misteriosa, respingente, l’avesse fatta rimbalzare all’indietro. Era l’invitata a corte, in quella occasione, ma qui a Parigi il quadro d’assieme è diverso, altre considerazioni hanno fatto irruzione nello scenario di un tennis al femminile prossimo al cambiamento. Serena viene da due sconfitte nei tornei dello Slam, entrambe dolorose oltre che strettamente collegate fra loro. L’addio al Grande Slam a cui la costrinse Roberta vinci a New York segnò il contrappasso dl una lunga stagione in cui sembrava esistere lei soltanto, prima in tutto, spavalda in modo quasi caustico per le altre. Ma quella sconfitta aprì una ferita che non ha ancora smesso di sanguinare, resa ancora più dolorosa dalla finale di Melbourne, per via dei colpi inferti dalla tedesca Kerber. E un fatto, negli ultimi nove mesi Serena vinto solo Roma. Garbine anche meno (Pechino), ma è riuscita a mantenersi nel gruppo delle pretendenti. Lei, la Halep, la Kvitova, la Kerber, forse la Radwanska, certo la Azarenka. La fortuna di Serena è che nessuna delle inseguitrici abbia preso il comando delle operazioni. A turno, qualcosa vincono e molto perdono, rivelano intenzioni bellicose, poi deflettono, qualche volta spariscono senza un perché, come la Kvitova, la stessa Kerber. In classifica il dominio di Serena è certificato, ma non più inattaccabile. Oggi Garbine proverà ad avvicinarla, memore di una vittoria di due anni fa (62 62) proprio su queste terre rosse ora gonfie di umido. «Se gioca sempre così, non ce n’è per nessuna», disse allora Serena, legandosela al dito, e impegnandosi poi a stropicciarla ben bene le due volte successive (Australian Open e Wimbledon 2015). «Ho imparato a gestire le mie emozioni», dice Garbine, «non sono più quella di un anno fa». «Mi ha già battuto», le risponde Serena, «e io odio perdere». Sarà una finale abbondante, di muscoli e di centimetri. Abbondante di smanie, di atteggiamenti guerreschi. Ognuna per conto loro, Serena e Garbine se le daranno di santa ragione, così come hanno fatto ieri, nella prova ufficiale della loro sfida, cancellando due delle più belle storie di questo tennis. Storie di resurrezioni, belle a prescindere. Quella di Kiki Bertens, più forte di un tumore alla tiroide, e quella di Sammy Stosur, vittoriosa sul terribile Morbo di Lyme. Donne coraggiose, ma non basta esserlo per frenare due indemoniate come Williams e Muguruza. Loro fanno parte di un altro girone, inferno o paradiso a voi la scelta.
Djokovic maltratta Thiem: tra lui e il trono di Parigi resta solo l’ostacolo Murray (Gaia Piccardi, Il Corriere della Sera)
Dopo Fred Perry, voilà Bunny Austin. L’uomo condannato a commemorare le ricorrenze storiche, sfata un altro tabù: Andy Murray è il primo britannico a sbucare in finale al Roland Garros da quando Walt Disney presentava al mondo il primo lungometraggio animato della storia, Biancaneve e i sette nani. Correva l’anno 1937. Djokovic contro Murray è la finale prevista dalla nomenklatura del tennis, n.1 contro n.2, la settima sfida tra colossi nell’ultimo atto di uno Slam. È già un classico, nel suo genere, regolarità al potere, che porta in dote un bilancio complessivo impietoso: 23-10 per il serbo. E non tragga in inganno la finale di Roma vinta da quel magnifico pendente di Murray tre settimane fa: il Djoker era stanco e nervoso, infastidito dalla pioggia, litigioso al punto giusto. Ha puntato tutto su Parigi, l’unico Slam che gli manca, il solo che gli consentirebbe di continuare a sperare nel Grande Slam doc, quello vero, aperto e chiuso nell’anno solare. In semifinale ha dato una sonora lezione al torello austriaco Dominic Thiem, classe ’93, sgretolatosi sotto i colpi di un campione che non sa più cosa inventarsi per meritarsi l’amore del pubblico. Le scenette a fine match con i raccattapalle, il tentativo di parlare francese in pubblico. La verità è che nei corridoi del Roland Garros si dibatte con più partecipazione del recupero di Federer (atteso in forma smagliante a Wimbledon), del polso spezzato di Nadal (colleghi spagnoli molto scettici sul ritorno ad alto livello di Rafa, che ieri ha compiuto 3o anni tristi, solitari e forse finali) e della Sharapova assente per cause di meldonio maggiore che del possibile record (12 Slam vincesse Parigi) di Djokovic lanciato verso l’immortalità, magari con i pedalini bagnati se nel frattempo esondasse la Senna. Andy Murray, è vero, sta giocando un ottimo tennis sul rosso, dove è emigrato (in Spagna) e cresciuto. Le sue qualità sono uscite esaltate dalla semifinale con il campione uscente, quel Wawrinka che l’anno scorso, in bermuda da spiaggia, sfilò al Djoker la terra da sotto le suole ma che ieri, zavorrato da 43 errori gratuiti e abbandonato dal dritto (23), ha offerto allo scozzese l’ennesimo appuntamento con i libri. Le migliori finali, Djokovic-Murray e Williams-Muguruza (occhio a Garbine, che tenta il colpo contro Serenona lanciata verso i 22 Slam), meteo permettendo. Terra pesante, gocce di umidità e di storia nell’aria. Ultimo fango a Parigi
Murray, il destino in terra rossa (Gianni Clerici, La Repubblica)
MURRAY gioca come a Roma. “È più europeo che inglese” osserva il mio amico aficionado, appena arrivato al Roland Garros da Milano. ‘Hai ragione» rispondo. E gli ricordo che la mamma non lo trattenne sui verdi praticelli dell’asilo di Glasgow, ma lo mandò a costruire castelli di sabbia sulle rosse spiagge di Barcellona. E cosi – riprende l’amico – ha migliorato i suoi risultati al Roland Garros, che sono quattro semifinali, delle quali tre negli ultimi tre anni. Come l’hai visto, in questo torneo sulle sabbie mobili ?». »In crescendo. Maluccio all’inizio, capace addirittura di lasciare i primi due set al vecchio seduttore Stepanek, e due dei primi tre a quel battitore di Karlovic. Poi si è messo a sbagliare sempre meno, e allungare sempre più. Tre set a zero a Isner, il primo set a Gasquet, ma dodici games a due nel terzo e nel quarto set. »E oggi?.. »Oggi speravano in molti nell’affermazione di Thiem. Thiem avrebbe rappresentato la novità che tutti aspettano dopo anni dei Fab Four, come li aveva denominati un mio collega inglese. Avrebbe, anche, rappresentato un tennista in grado di colpire la palla con grandi gesti a una mano, un tennis violento simile a certi nonni americani, Jack Kramer e Dick Savitt». E cosa gli è successo? Emotività, poca abitudine ?». »Anche questo. A frustrarlo è stata soprattutto la lentezza del campo, e il peso delle palle zuppe. Il mio collega Enrico Milani, buon tennista di Club, ha provato a pesarne una, che dai 56 grammi regolamentari era giunta addirittura a 84». »Ma questo non dovrebbe infastidire uno che picchia come lui». »Picchia, ma sta con la schiena vicino ai teloni. Per consentirsi gesti tanto ampi». »Un po’ come Wawrinka?. »Un po’ come Wawrinka, ma ancor di più» ho acconsentito, e con questa duplice affermazione, sono uscito dal dialogo che vi offro, per andare a inginocchiarmi davanti a Rod Laver, premiato dal cosiddetto Presidente francese, l’ex rugbista e impiegato comunale Gachassin. Mi pare manchi, a proposito di simile chiacchiera, qualsiasi previsione riguardo alla finale. La vittoria di Murray lo assocerebbe ai diciotto tennisti capaci di realizzare il binomio Roma-Parigi, un record che inizia nel 1951, col mio povero amico e avversario Jaroslav Drobny. Mi sbilancio, ricordando Gioan Brera e la sua affermazione. I pronostici li sbaglia chi osa farli». E dico Djokovic, anche contro questo scozzese in gran forma