Riccardo Piatti tra anti-statalismo, ricordi e ambizione: "Con Sinner voglio vincere uno Slam"

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Riccardo Piatti tra anti-statalismo, ricordi e ambizione: “Con Sinner voglio vincere uno Slam”

L’allenatore dell’azzurro numero 10 del mondo è stato intervistato dal Corriere della Sera, ripercorrendo le origini della sua carriera e i momenti significativi delle altre collaborazioni più importanti

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Riccardo Piatti (foto Gabriele Lupo)
 

“Lavoro in proprio, non sono uno statalista”. Riccardo Piatti si definisce così nella lunga intervista concessa a Il Corriere della Sera, a firma dell’inviato a Parigi Marco Imarisio. E offre una prospettiva socio-economica sul dietro le quinte della realizzazione del suo sogno: diventare un coach di tennis privato, quando in Italia questa figura non esisteva ancora. “Ero un tecnico federale – racconta – seguivo un gruppo di ragazzi tra i quali Renzo Furlan, Cristiano Caratti e Christian Brandi. I risultati non arrivavano ma io credevo in loro. La Federazione mi disse che dovevo lasciarli andare, non sarebbero mai diventati professionisti. Reagii con le parole di mio padre: se sei a capo di un progetto e quel progetto fallisce, non è colpa di chi ci lavora ma tua. Mi alzai e me ne andai, decisi di mettermi in proprio con i miei ragazzi trovando una casa tutta nostra a Moncalieri, diventando una specie di eretico. Hanno avuto quasi tutti una buona carriera e ne sono orgoglioso. I miei genitori vengono da una terra di lavoro, che rifugge dagli aiuti statali. Mi hanno sempre insegnato a contare su me stesso. A casa nostra statalismo era una brutta parola“.

IL TENNIS PIU’ FORTE DEI SINGOLI – In mezzo tra l’elogio del rischio di impresa associato al tennis e il fenomeno Sinner c’è stato un lungo percorso di formazione e collaborazioni importanti, che Piatti ha raccontato nel libro “Il mio tennis” (Rizzoli), scritto con Federico Ferrero. “La prima estate con Jannik, aveva 13 anni, lo portai al mio stage all’Isola d’Elba. Bambino di montagna che sapeva a malapena nuotare, al primo tentativo di tuffo dagli scogli fece subito un salto mortale e tutti gli chiesero come ci era riuscito. Rispose che quando era in aria aveva pensato di fare due capriole consecutive, così almeno una l’avrebbe fatta per forza. Aveva già la testa del vero sportivo. (…) Oggi ai ragazzi che vogliono imitare il dritto di Jannik va detto che devono guardare solo le mani e dove va la testa della racchetta, quella è l’unica cosa da fare“.

Spiegazioni da “meccanico dei campioni”, come viene chiamato nell’ambiente il 63enne tecnico nato a Como, artefice della crescita impetuosa dell’attuale numero 10 del mondo. E a proposito di campioni: “Dopo l’era di Federer, Nadal e Djokovic ce ne saranno altri – profetizza -, basta salvaguardare lo spirito del gioco senza assurdi cambiamenti di regole. Abbiamo già vissuto momenti come questi, quando finirono McEnroe e Borg, quando finì Sampras, non fasciamoci la testa. Il tennis è più forte di ogni singolo giocatore“.

DA NOLE A JANNIK – Piatti si dice fortunato ad avere, nel tennis, “una passione capace di riempire una vita intera“. Manifesta da moderato il suo apprezzamento politico per Mario Draghi, vede nella sfera di cristallo che la moda del padel passerà e riavvolge il nastro anche a ricordare due delle sue collaborazioni più significative. “Quando Maria Sharapova mi chiamò da Londra le dissi che sarebbe dovuta venire all’Elba, dove facevo il campo estivo. Arrivò in elicottero. Avevo prenotato l’unico campo disponibile a quell’ora, come in qualunque circolo. Era un terreno in cemento, spelacchiato, con qualche buco. Si guardò intorno e disse che se avesse giocato bene qui l’avrebbe fatto in qualunque posto del mondo. E cominciammo. Così ragionano i campioni”.

Piatti racconta al Corriere anche di quando ha deciso di mollare il giovane Djokovic, seguito dal 2005 per un anno e mezzo: “Ma nessun rimpianto, consigliai alla famiglia di mandarlo dall’oculista e si scoprì che aveva due diottrie in meno, suo padre esigeva da me dedizione assoluta e non potevo sdoppiarmi, io sono fedele ai miei ragazzi. In più c’era il problema di avere con me Ivan Ljubicic, croato di origine bosniaca, Djokovic è serbo. In quel momento la guerra nei Balcani era finita da poco e certe cose in quei due Paesi pesano ancora. Fu giusto lasciarsi andare, ma vincere uno Slam rimane un sogno che oggi condivido con Jannik. La ricerca del Sacro Graal continua“.

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