Djokovic-Wawrinka, la classica dei canguri (Crivelli). Predestinata Madison, dal poster di Venus alla sfida vinta a 19 anni (Clerici). Panatta: “No alle coach donne nel tennis maschile” (Semeraro). Fognini e Bolelli a un passo dall’impresa dello Slam italiano (Giua)

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Djokovic-Wawrinka, la classica dei canguri (Crivelli). Predestinata Madison, dal poster di Venus alla sfida vinta a 19 anni (Clerici). Panatta: “No alle coach donne nel tennis maschile” (Semeraro). Fognini e Bolelli a un passo dall’impresa dello Slam italiano (Giua)

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Djokovic-Wawrinka, la classica dei canguri (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)

Lo aspettavano. Lo bramavano. Ce l’avranno. Come quei film che quando esci dal cinema sai già che vorrai rivedere, anelando a un seguito altrettanto coinvolgente o addirittura più emozionante. Dunque, sarà Djokovic-Wawrinka atto terzo, con palcoscenico l’Australia. Una sorta di titanica resa dei conti, il duello al calar del sole che conduce allo zenit di una rivalità che non avrebbe senso nei numeri (Nole è davanti 16-3) eppure si è fatta storia proprio agli antipodi. Per il terzo anno di fila, Djoker e Stanimal si giocano le sorti del torneo con una sfida diretta: erano gli ottavi nel 2013, si impose il serbo 12-10 al quinto e si involò verso il trionfo. Erano quarti 12 mesi fa, e toccò allo svizzero di scorta inchinarsi ebbro di gioia sul cemento della Rod Laver dopo il 9-7 sempre al quinto, viatico per il primo Slam in carriera.

BATTAGLIA Ora è semifinale, e incroceranno le lance i vincitori delle ultime quattro edizioni del torneo. Djokovic, muro di gomma, non concede palle break a Bum Bum Raonic e, sulle orme di mastro Becker, ottiene il 94% dei punti quando scende a rete; Stan The Man per due set annichilisce il samurai Nishikori, poi nel tie-break del terzo si addormenta sul 6-1 e si fa rimontare fino al 6 pari, quando una palla corta del giapponese che poteva cambiare le sorti del pomeriggio muore sul nastro. Era destino, dunque. Per un’altra favola epica, un’altra tenzone leggendaria da tramandare. Nole, che non ha ancora perso un set, è preparato: «Sarà una battaglia, e questa volta Wawrinka è anche il campione in carica, quindi con una motivazione in più. Ma io sono fiducioso, perché il livello del mio gioco è salito partita dopo partita».

AUTOSTIMA Anche Stanimal, dopo l’andamento lento della prima settimana, ha ripreso fuoco e sta servendo come forse non mai. Mister Gennaio è in serie positiva da 19 partite nel primo mese dell’anno: Chennai e Australian Open nel 2014, di nuovo Chennai e 5 match a Melbourne adesso. Con tanti saluti al fantasma di Thomas Johansson, lo svedese ballerino di una sola estate australe (nel 2002) cui qualcuno lo aveva incautamente paragonato. Perché la vita pub cominciare a trent’anni: «La differenza rispetto a un anno fa è che adesso ho la forza di reggere questi palcoscenici, so che a casa, a Losanna, c’è un trofeo dello Slam che mi aspetterà sempre e questo mi dà grande fiducia. Fu proprio il successo su Djokovic a far crescere la mia autostima e adesso sto anche giocando meglio, sono più aggressivo e credo di più nelle mie possibilità a rete».

CAMBIAMENTI In dodici mesi, Djokovic ha rivinto Wimbledon, è tornato numero uno ed è diventato papà di Stefan: «La famiglia e il matrimonio cambiano le prospettive, è bello pensare di poter dedicare una vittoria a tuo figlio, di chiamare a casa per sentirne la voce (…)

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Predestinata Madison, dal poster di Venus alla sfida vinta a 19 anni (Gianni Clerici, La Repubblica)

LA MIA amata Williams non è riuscita a ritornare la vera Venus, e ha perso il quarto di finale che avrebbe potuto offrire un nuovo incontro, il venticinquesimo dicono gli statistici, contro la sua sorellona Serena. Ha perso, Venus, con una ragazza chiamata Madison Keys, una bella diciannovenne che porta un nome predestinato, se è vero che per anni abbiamo identificato basket e tennis americano con lo storico Madison Square Garden, il palazzo dedicato allo sport. Di Madison, che ho ammirato in TV per un tennis atletico, aggressivo, insomma quello che hanno inventato le Williams, mi ha parlato per scritto il mio amico Chris Clarey, del New York Times, quello che ha l’arguzia di sostenere che, per occuparsi di tennis, è indispensabile possedere due prime consonanti quali CL. Chris è partito dalle sorelle, e ha ricordato due aspetti che hanno cambiato il tennis femminile. Il professionismo, e l’afro-americanità di molte giocatrici. Prima di Serena e Venus c’era stata sì, una bella mora, Althea Gibson, mia amica a vincitrice di Wimbledon nel ’57e ’58. Ma la società bianca americana non l’aveva accettata, tanto che, al suo primo ingresso negli spogliatoi di Forest Hills, allora sede degli Internazionali, le tenniste bianche se n’erano andate.

Dopo che le Williams furono uscite dal ghetto di Compton, vicino Los Angeles, e presero a razziare Slam ( 25 ), aprirono la strada ad altre donne colorate, Chanda Rubin, la finalista di Wimbledon Zina Garrison, Lori Mc Neil e Katrina Adams, tutte ragazze che, invece di cercare un’educazione tout court all’Università, preferirono la strada dei campi, quasi sempre in cemento. E ce ne sono altre, più nere di Keys, che è soltanto mulatta, come Sloane Stephens e Taylor Townsend. La curiosità; del confronto tra la vecchia Venus, trentacinquenne, e la diciannovenne Madison, è che quest’ultima ha dichiarato una venerazione per la Williams, l’inizio a 4 anni con una racchettina giocattolo per bambini, e l’immagine di Venus stampata su un poster appeso in camera.

Figlia di Rick e Christine, avvocati, Madison non è certo uscita da un ghetto com’era accaduto a Venus, e i suoi genitori hanno avuto il buon senso di non ergersi a coach improvvisati, come Papà Williams, un tipo presuntuosissimo che non sapeva impugnare una racchetta, e che pretendeva di spiegare a tutti, non ultimo allo Scriba, com’era fatto il tennis. I signori Keys si sono addirittura trasferiti in Florida, per affidare dapprima la loro bambina a Chris Evert nella sua Academy di Boca Raton, e ora a Lindsay Davenport, la più sportiva e saggia tra le campionesse dell’ultimo quindicennio. La Davenport, costretta ai suoi dì a una limitata deambulazione per eccesso di peso, ha migliorato molto la battuta di Keys, e Venus, dopo la sconfitta, ha spiegato alla turba degli scribi che le sue statistiche colme di errori erano massimamente dovute ai servizi della bambinona. Madison ha molto umanamente ringraziato il suo idolo d’infanzia per i complimenti (…)

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Panatta: “No alle coach donne nel tennis maschile” (Stefano Semeraro, La Stampa)

Adriano Panatta torna a commentare il tennis in tv. Ai microfoni di Eurosport «leggerà» da par suo semifinali e finali degli Australian Open, in programma a partire da oggi alle 9,15 fino a domenica. «È una cosa che mi diverte, così quando me l’hanno chiesto ho detto: perché no?», spiega.

Generazioni di italiani sono cresciuti prima ammirandola in campo, poi ascoltandola in tv: a Panatta cosa piace del tennis di oggi? «Quello che mi stupisce. Guardo Federer, perché nessuno ha mai giocato come lui. O Djokovic, un fisico ideale per il tennis. E Nadal: ti viene da abbracciarlo per come si impegna. Anche Murray mi piace, però con la Mauresmo…».

Non ama i coach donne? «Per carità: Amelie è brava e simpatica, ma il tennis maschile è uno sport troppo diverso da quello femminile». Edberg e Becker sono stati utili a Federere Djokovic? «Edberg sicuramente: ha consigliato a Roger di usare più il back, e di andare più a rete. Becker non so come lavora. In tv c’ha un po’ uno sguardo strano…».

Lei chi allenerebbe? «Dimitrov, il bulgaro. Gioca benissimo a tennis. Però potrei seguirlo per una settimana, due al massimo. Con tutta la corte che hanno oggi i giocatori, no, non fa per me».

Fra i giovani a Melbourne è esploso Nick Kyrgios, l’australiano… «Un po’ matto. Un istrione. Non sai mai cosa combinerà, ma in fondo ha solo 19 anni Ha qualità ma deve irrobustirsi nelle gambe».

Nadal e Federer sono usciti prima delle semifinali: è declino? «Quando ho visto che Federer contro Seppi stava un metro e mezzo dietro la linea di fondo, ho capito che Andreas poteva vincere. Perché è un ottimo giocatore, solido, che fa sempre il suo. Roger vincerà ancora a sprazzi, magari al meglio dei tre set, o sull’erba. Per Nadal bisogna capire come recupererà dagli infortuni».

Di Seppi ha stima. E di Fognini? «Fabio è un grande talento: avesse anche la testa sarebbe da primi 5. Peccato».

Kyrgios, Fognini, Monfils: le piacciono i giocatori imprevedibili? «Sì, ma dipende: a Monfils dare spettacolo aiuta. A Fabio no. Giocatori così mi divertono, però poi bisogna anche vincere».

Lei è stato capitano di Fed Cup, come vede le donne azzurre? «Flavia è sempre forte, anche se non giovanissima, la Schiavone è in parabola discendente, la Errani ora un po’ fatica. La Vinci è quella che gioca meglio. La più giovane è Camila Giorgi: nel tennis non si può tirare sempre tutto, è contro le leggi della fisica. Lei è convinta di potercela fare, per me ha torto».

Nadal sostiene che le racchette sono diventate troppo potenti e si rischia la noia: d’accordo? «E l’evoluzione, specie quella dei materiali. Le nostre racchette sembravano da ping pong, adesso sono pazzesche (…)

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Fognini e Bolelli a un passo dall’impresa dello Slam italiano (Claudio Giua, repubblica.it)

Americane contro, russe contro: preludi fratricidi di una finale da guerra fredda che trent’anni fa avrebbe infiammato patriottismi ideologici e arroventato le Olivetti 32. È accaduto oggi sul sintetico blu della Rod Laver Arena dove si sono affrontate le chiare venute dall’Est Ekaterina Makarova (testa di serie numero 10) e Maria Sharapova (2) e le scure dell’America profonda Serena Williams (1) e Madison Keys (la più bella sorpresa del primo Slam di quest’anno).

Prima però è toccato a noi italiani scaldarci sul centrale del Melbourne Park (dove fa parecchio freddo in questi giorni) per la semifinale del doppio maschile con Fabio Fognini e Simone Bolelli. Il ligure e il bolognese hanno affrontato gli specialisti Jean-Julien Rojer e Horia Tecau, olandese nato a Curaçao nelle Antille il primo, originario di Brasov in Romania il secondo. Due bravi ragazzi che, appurata la soggettiva irraggiungibilità dei Top 100 in singolare, hanno scelto di dedicarsi a tempo pieno alla disciplina più praticata nei circoli e meno seguita nei tornei. Con successo.

Il match vola via in meno di due ore nonostante i tre set. All’inizio Fabio e Simone impongono i propri ritmi da fondo campo, subendo raramente l’aggressività degli avversari in pressione avanzata. Ottengono Il primo break al terzo game grazie a un paio di splendide risposte ad uscire di Bolelli. Anche se Fognini non è altrettanto efficace del compagno quando tocca a lui servire, un secondo break garantisce agli italiani il successo parziale per 6-4.

Il muro eretto sotto rete da Rojer e Tecau dà i primi frutti nel secondo set. Basta una breve serie di errori e indecisioni nel gestire le risposte corte di Tecau e Rojer a mandare sotto per 1-4 gli azzurri, che non recuperano nonostante la tardiva temporanea decisione di guadagnare tre metri di campo al pari degli avversari. Il 3-6 arriva dopo 33 minuti di scambi serrati.

Il doppio è la curiosa disciplina dove solo talvolta accade che il risultato finale sia diretta conseguenza della somma delle qualità tecniche e tattiche dei singoli. Contano di più l’affiatamento, la sinergia, l’intuizione simultanea e la capacità di supplire alle carenze dell’altro. Conta anche la felicità di fare squadra. Se, in questo, Rojer e Tecau sono da manuale, l’altruista Bolelli non è da meno. Fognini no, capita che l’ego lo freni o, al contrario, lo scateni esageratamente. Il terzo game del terzo set, con il numero 1 d’Italia al servizio, potrebbe così rivelarsi la chiave di volta del match. In negativo: ricacciati più volte a difendersi due metri oltre la linea di fondo, gli azzurri alla fine perdono il punto. Provano a recuperare subito ma sprecano tre ghiotte occasioni. Ci riescono finalmente al sesto game. Poi salgono in cattedra. E’ ancora Fabio il protagonista: coglie il break point decisivo con un’eccezionale risposta lungolinea di rovescio: 5-3. Serve Bolelli, che al terzo match point piazza un servizio angolatissimo e incontrollabile. È fatta. Nell’era Open nessuna coppia maschile italiana era riuscita ad approdare alla finale di uno Slam. Sarà dunque, sabato, una prima assoluta.

La lunga giornata della Rod Laver Arena continua con il derby delle steppe tra Makarova, classe 1988, e Sharapova, 1987. Per l’allieva di Bollettieri è una pratica (6-3 6-2) sbrigata senza intoppi. Merito suo – mobile, aggressiva, concentrata – ma anche colpa di Ekaterina, in sofferenza sia alla risposta sia al servizio. Rare le discese a rete di entrambe, a fare la differenza è la sicurezza e l’anticipo con i quali Maria conduce il gioco da fondocampo.

Molto più godibile la seconda semifinale. Tra Serena, 1980, e Keys, 17 febbraio 1995, ci sono due generazioni tennistiche. Il presente che sta per finire e quello che comincia solo adesso. La più giovane delle Williams alla sesta semifinale degli Australian Open. Madison, WTA 35, per la prima volta sotto i riflettori delle fasi finali di uno Slam. La sua coach Lindsay Davenport nel 2001 perse contro Jennifer Capriati l’ultima semifinale all american a Melbourne.

Partita lineare. Il primo set (7-6) è equilibrato, sul campo e nei malanni: Williams ha il raffreddore, Keys lamenta un dolore alla coscia sinistra. Perfino il tie break si decide per un solo punto: ma è il viatico che dà a Serena le forze che le servono per chiudere il secondo set quasi in scioltezza (6-2), non prima comunque di vedersi annullati da Madison sette match point nel settimo game: la ragazzina vuole lasciare il segno della propria personalità.

Sabato, in finale, per Maria potrebbe essere la volta buona. Oggi m’è parsa in condizioni migliori e con motivazioni più forti rispetto a Serena. Nei confronti diretti l’americana è dilagante – 16 vittorie contro 2, l’ultima undici anni fa – ma quest’anno il mood mi sembra cambiato. Vedremo.

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