London Calling: Alexander Zverev, il ragazzo già grande

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London Calling: Alexander Zverev, il ragazzo già grande

A vent’anni, numero 3 del mondo. Alle spalle dei mostri sacri. Ed è pronto a dire la sua da protagonista

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Giacca firmata, cravatta, occhiali, sguardo adulto: l’Alexander Zverev che si è concesso per qualche ora al pubblico di Milano sembrava il cugino grande degli otto finalisti Next Gen. E questo nonostante oltre metà di loro siano nati un anno prima del russo-tedesco, la cui carta d’identità porta la data del 20 aprile 1997. La stagione dei vent’anni ha proiettato Sascha ai vertici dello sport in cui la sua famiglia è immersa ormai da due generazioni, e lui non ha potuto fare altro che iniziare a comportarsi di conseguenza. Abbandonando la visione da buon prospetto, scaduta più in fretta del latte, in favore di quella di qualcuno che ad ogni sorteggio ha la testa di serie giusta per andare in fondo. Di chi non è “next” ma “now”.

A riavvolgere il nastro, in effetti, il minore degli Zverev ha sempre dato l’impressione di sapere che sarebbe stato presto una star. A cavallo tra 2015 e 2016 gli ATP 250 erano la sua dimensione naturale, e le ultime posizioni della top 100 la sua zona di ranking, eppure per lui si trattava soltanto di stazioni intermedie, da guardare dal finestrino mentre sfrecciava in avanti. Certo di essere destinato a cose migliori, aveva iniziato a comportarsi di conseguenza con un anticipo tale da risultare talvolta persino arrogante. Specialmente nell’approccio con le interviste, affrontate con l’aria di chi non è troppo convinto che quella roba faccia parte del suo lavoro: la frase tipica di una conferenza stampa con il ragazzo di Amburgo, potrà confermarlo chiunque abbia preso parte almeno a una di esse, è “ho già risposto a questa domanda”, pronunciata con tono scocciato (che poi abbia effettivamente già risposto, ma cinque mesi prima e in russo, non pare interessarlo). Ma non si tratta di cattiveria, quanto di avere le idee chiare: Zverev vuole diventare un campione, e tuttora non crede che la comparsata quotidiana davanti ai microfoni possa aiutarlo in alcun modo a raggiungere il suo obiettivo.

Meglio passare quella mezz’ora sul campo, piuttosto. Dei tempi in cui girava il tour come “il fratellino di Mischa”, molti tennisti ricordano come Sascha cercasse di arraffare ogni possibilità di palleggiare con un professionista. Un campo temporaneamente vuoto, qualcuno in ritardo per l’allenamento? Lui era lì ad alzare il braccio e chiedere di giocare. Se il principio delle 10.000 ore di Malcolm Gladwell è corretto, e se ad esso aggiungiamo che quasi tutti i campioni degli ultimi vent’anni sono cresciuti in un ambiente, se non tennistico, almeno sportivo professionistico, tutte quelle ore passate tra i pro non potevano che rendere Alexander Zverev un predestinato. In effetti, tra i tanti giovani venuti su negli ultimi anni, nessuno più di lui ha messo d’accordo coach e opinionisti nel pronosticarlo come futuro numero 1. Non lo è ancora, ma è a due sole posizioni da quella vetta, per giunta in piena controtendenza in un’era in cui la maturità di un tennista giunge quando questo si avvia verso i trenta. Mettere di fianco i suoi risultati e la sua età fa tornare con la mente a un paio di decenni fa, quando la Masters Cup di fine anno era colonizzata da suoi (all’epoca) coetanei.

Qualcuno dirà: con Djokovic, Murray, Wawrinka, Nishikori e chi più ne ha più ne metta al meglio della forma, Zverev sarebbe ugualmente terzo nella classifica mondiale dietro la coppia da 35 Slam? Probabilmente no. Ma, ancora probabilmente, non lo troveremmo molto più in basso di dov’è ora. In una stagione strana, che ha distribuito warholiani quarti d’ora di gloria a tutta la top 50, Zverev è stato quello che si è preso quelli che valevano di più, anche in termini di immagine. Basti pensare alla domenica del Foro Italico, dove sconfiggendo Djokovic in finale ha messo fine a più di una striscia statistica dei Fab Four. Di fatto l’unica cosa che manca ancora a Sascha è arrivare in fondo negli Slam. E allora per lui che non è ancora un mago dei piazzamenti remunerativi alla Cilic o alla Goffin, l’unica alternativa è vincere titoli ogni volta che può. Nel 2017 ci è riuscito cinque volte, chiudendo la Race terzo per numero di coppe sollevate dietro i soliti due. Ha migliorato il proprio rendimento su ogni superficie, vincendo indoor (Montpellier), su cemento nordamericano (Washington e Montreal), su terra (Monaco di Baviera e Roma). E si è ripetuto come runner-up a Halle, su erba, l’unico terreno su cui non si è ancora “diplomato”.

Anche se forse non ai ritmi degli ultimi anni, Zverev può – e deve – crescere ancora tantissimo. Se Juan Carlos Ferrero ha rinunciato alla panchina di Coppa Davis per sedere sulla sua è stato proprio per questo motivo. Dal punto di vista tecnico Zverev è il prototipo di giocatore contemporaneo, e tutti gli aggettivi del caso gli calzano alla perfezione: alto, potente, atletico, offensivo, concreto. Completo. Il colpo migliore rimane di gran lunga il rovescio, giocato spesso come prima scelta a seguire il servizio, ma persino il gioco a rete, agghiacciante lo scorso anno nonostante il fratello volleatore (qualcuno ricorderà il match point contro Nadal a Indian Wells), è ormai di qualità più che accettabile per i tornei nei quali lo esprime. Le esibizioni mostrano come sia anche in grado di divertire, però quando c’è in palio qualcosa Zverev non scherza mai. Cresciuto al fianco di Andrey Rublev e ottimo amico anche di Frances Tiafoe, Zverev li ha presto seminati. Ora i loro successi impallidiscono al confronto con i suoi, allo stesso modo di quelli dei tanti venuti prima di lui e sui quali erano state poste simili speranze. I risultati che ottenne da junior sembrano provenire da un mondo preistorico, tanto che da tempo nessuno spende più una riga per menzionarli (ha comunque vinto un Australian Open ed è stato n.1).

Alexander Zverev ormai non è più un campione futuribile, è un campione punto e basta, per quanto possa essere banale ripeterlo. Se l’anno prossimo non dovesse confermarsi tra i primi 8 potrebbe rischiare ancora una retrocessione da Londra a Milano, a cui in ogni caso ha promesso che parteciperà, ma è più teoria che altro. Per la pratica, basta ricordare le sue ultime primavere: nel maggio 2014, diciassettenne, raggiungeva la semifinale dell’ATP 500 di Amburgo; nel maggio 2016 perdeva la prima finale nel circuito maggiore a Nizza, tradito da un naso sanguinante; nel maggio 2017 ha conquistato gli Internazionali d’Italia. Pensando a maggio 2018, è bene non porre limiti all’immaginazione. Pensando alle ATP Finals della prossima settimana, neppure.

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