Ivan Lendl e Andy Murray: il binomio perfetto?

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Ivan Lendl e Andy Murray: il binomio perfetto?

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TENNIS – Ripercorriamo i due anni (e qualche mese) della collaborazione tra Ivan Lendl e Andy Murray. L’avvento del ceco è stato decisivo per il salto di qualità dello scozzese o è stato soltanto un caso? Daniele Vallotto

31 dicembre 2011. Si sta per chiudere un anno particolare per il tennis. Per la prima volta dopo sei anni i nomi dei primi due della classifica non sono Roger Federer e Rafael Nadal. Federer chiude infatti al terzo posto del ranking – pur vincendo Basilea, Bercy e Masters a fine anno – e Nadal scende al secondo dopo un 2010 da dominatore. Il nome nuovo, che tanto nuovo non è, è quello di Novak Djokovic. Per spiegare quell’anno bastano i numeri: tre Slam, cinque Master 1000, quarantadue vittorie consecutive da inizio anno al Roland Garros. Una prima parte di stagione perfetta, con l’unico incidente di percorso provocato dal miglior Federer mai visto su terra battuta. E Murray? Che ne è del gemello di Djokovic, nato appena una settimana dopo?

Il 2011 di Murray è un anno che differisce poco dai precedenti. Gioca un’altra finale Slam, la seconda a Melbourne e la terza in carriera, e la perde proprio contro il nuovo cannibale del tennis racimolando nove game. Su terra, paradossalmente e in proporzione, lo scozzese raggiunge risultati migliori: una splendida semifinale persa al fotofinish ancora con Novak Djokovic e un identico risultato, ma senza set vinti, al Roland Garros, dove perde contro Rafael Nadal senza troppi rimpianti. Ma è ancora Wimbledon, il Center Court, a segnare in negativo l’anno: Murray arriva ancora in semifinale e trova ancora Nadal. Gioca un primo set coraggioso, supportato da un pubblico poco british, e brekka lo spagnolo sul 6-5. Una zampata inaspettata. Ma che ben presto si rivela il solito fuoco di paglia quando Nadal rimette a posto le cose. Altra delusione, altra sconfitta e un resto di stagione dove Muzza brilla ben poco. Batte sì un Djokovic malconcio a Cincinnati ma agli US Open ma perde ancora in semifinale contro Nadal e al Masters gioca un solo match, perdendolo, prima di ritirarsi e lasciar spazio a Tisparevic. Il bilancio del 2011 è negativo, fatto solo di piazzamenti. E certamente l’esplosione dell’altro incompiuto deve aver innescato una reazione nella testa di Murray.

E così, l’ultimo giorno di quell’anno, Murray decide che quello dev’essere il giorno della “svolta buona”. Lo scozzese annuncia a sorpresa che il suo nuovo allenatore è Ivan Lendl. Un assoluto novellino per quanto riguarda l’esperienza da coach ma è uno che sulle sconfitte dolorose ha più di qualcosa da insegnare. Il fascino di una collaborazione così prestigiosa ammanta i commenti di quei giorni. Lendl non ha mai allenato nessuno, vero. Ma allo stesso tempo non può sfuggire che Murray, per sconfiggere l’incubo Slam, si affida alle cure di colui che meglio di chiunque altro ha sconfitto un tabù simile.
Quattro finali Slam, quattro sconfitte. Ivan Lendl poteva diventare uno dei più grandi perdenti della storia del tennis. Invece, un giorno di fine primavera, ha sovvertito il destino, rimontato un avversario nel suo anno migliore e posto fine a una maledizione. Viene notato un altro punto in comune tra le carriere dei due: una presenza ingombrante, quella della madre. Olga Lendlova, che costringeva il figlio a mangiare le verdure con un cronometro sul tavolo, e Judy Murray, quasi sempre presente nell’angolo di Andy e colei alla quale lo sguardo smarrito dello scozzese si rivolge sempre nei momenti di difficoltà nei match più delicati. Non sono due figure del tutto paragonabili, ma l’accostamento è istantaneo.

L’inizio del binomio è incoraggiante. Murray arriva in semifinale e perde contro Novak Djokovic. Ma è una sconfitta più che onorevole. Anzi, lo scozzese per poco non estromette Nole dal torneo andando a servire per il match nel quinto set. Dopo la partita c’è chi dice che Lendl non riuscirà mai a lavar via quell’anima da choker che sembra intrappolare Murray nei propri incubi. Ma è evidente che qualcosa è cambiato nel gioco dello scozzese. Il dritto, tanto per iniziare, è più solido. Murray pare aver recepito la lezione di RoboNole 2011. Quel che colpisce di più, ed è certamente il risultato più evidente della gestione Lendl, è la capacità di restare nel match. Murray ha perso una partita che poteva vincere contro Djokovic, ancora una volta. Eppure non si è fatto travolgere dal destino, ha lottato coi denti fino alla fine per poi cedere contro un avversario che in quel momento era più forte di lui. “In passato” commenta Wilander “abbiamo visto Andy lamentarsi della fascetta per il sudore o di un’informazione sbagliata dal suo angolo. Ma contro Novak, per la prima volta, ha mostrato che è un giocatore alla pari coi primi tre. A livello di tennis, non c’è differenza”.
E il segnale che quella non è una sconfitta come le altre arriva dai tornei successivi allo Slam australiano. Subisce tre sconfitte che sembrano le solite sconfitte. Ma le cose non stanno esattamente così. Arriva in finale a Dubai dove perde da un Federer eccezionale, perde al primo turno di Indian Wells contro Garcia-Lopez ma raggiunge la finale a Miami dove perde ancora Djokovic. Nel tie-break finale Murray commette un doppio fallo. Lendl non ci vede nulla di negativo, anzi: “è stato un buon doppio fallo, non è stata una di quelle seconde che finiscono a metà rete”. Un ottimismo forse ingenuo che fa intravedere la volontà di far cambiare marcia nella mentalità di Andy. I risultati stentano ad arrivare ma il cambiamento si sente. Murray sta diventando un giocatore sempre più coriaceo, che non si fa intimorire dagli avversari e riesce a fare quello che non gli riusciva fino a poco tempo prima: cancellare il punto precedente e giocare il successivo con la mente sgombra.

A Londra arriva il primo vero banco di prova per la strana coppia: Wimbledon. Quel torneo che Ivan non è mai riuscito a prendersi e che Murray tenta invano di regalare al suo Paese. Murray ha un’occasione d’oro. Nadal è uscito al secondo turno e non dovrà giocarci per l’ennesima volta in semifinale. Tsonga, che pure su erba non è un avversario semplice, prova lo scherzetto fatto a Federer l’anno prima ma la rimonta non riesce. Murray, per la prima volta in carriera, raggiunge la finale a Wimbledon. Di là c’è un avversario con le motivazioni a mille. No, non è un Novak Djokovic spremuto dalle mille battaglie, ma un trentunenne che di nome fa Roger Federer e che se vincesse il titolo tornerebbe numero uno del mondo.
Capire chi tra Murray e Federer avesse più motivazioni, quell’8 luglio del 2012, è impossibile. L’età premierebbe Murray ma la fame di Federer non è mai sembrata così insaziabile come quel giorno. La finale è bellissima. Murray gioca alla perfezione il primo set, rispondendo colpo su colpo all’esperienza di Federer. Il primo set è britannico e la nuova solidità portata da Lendl porta ad un secondo set equilibratissimo. È Federer a dare la svolta al match: sul 6-5 30-30 trova due colpi irreali e gira la partita. Murray, al contrario di Djokovic due giorni prima, non si fa tramortire. Ma Federer non può più perdere una volta girato il match e nonostante un Murray pugnace diventa Re di Wimbledon per la settima volta. Durante la premiazione Murray scoppia in lacrime e riesce appena a dire: “Getting closer“. Una disperata speranza o una lucida profezia?

È difficile dire come avrebbe reagito il Murray pre-Lend dopo quella finale perché la quarta batosta è forse la più dura da digerire. Murray non ha giocato in maniera rinunciataria. Però ha perso di nuovo. Per la quarta volta in una finale di Slam, proprio come il suo allenatore. C’è di buono che il tennis offre sempre la possibilità di riscatto. L’occasione arriva poco più tardi, un mese dopo, sempre sul Centre Court. Murray affronta di nuovo Federer nella finale di Wimbledon-bis. Questa volta non c’è in palio il trofeo che aspetta da anni, ma una medaglia d’oro. Federer è reduce da una semifinale che lo ha fiaccato mentre Andy ha faticato solo agli ottavi con Baghdatis. L’occasione è troppo invitante e Federer non può nulla: raccoglie appena sette game e si deve accontentare di un argento mentre Murray bacia il metallo più prezioso.

Secondo Lendl, raggiungere l’immortalità nel tennis è un programma in sei passi. Prima in allenamento, poi in una partita, poi in una grande partita, poi in uno Slam, poi in una finale di Slam, poi sul 5-5 del quinto set nella finale degli US Open. Il quinto – e se vogliamo anche il sesto – passo vengono raggiunti da Murray in una sola notte, quella dell’11 settembre 2012. L’oro di Londra non è sufficiente a far svoltare la sua carriera. Gli serve il titolo dello Slam mai acciuffato e gli serve una vittoria epica. A New York il neo-numero 1 del mondo, Federer, è stato sconfitto nei quarti mentre Nadal è stato messo fuori gioco da un ginocchio che si è rimesso a scricchiolare. Logico che siano ancora i nati dell’87 a giocarsi il titolo. La finale si gioca ancora di lunedì. Non piove ma c’è un vento fortissimo che per poco non faceva lo sgambetto a Djokovic in semifinale. Andy gioca due set amministrando bene il vento e vince entrambi i parziali: il primo con un tie-break mozzafiato, il secondo piazzando il break decisivo nel finale di set. È incredibile che un giocatore così fragile riesca a gestire con tanta maturità un momento tanto difficile. Dall’altra parte Djokovic pare rassegnato alla sconfitta, la terza in finale agli US Open. Novak, però, non è un tipo che si fa battere facilmente in tre set. Il serbo reagisce con quell’immenso orgoglio che l’ha sempre contraddistinto e recupera il gap. Due set pari dopo quasi quattro ore di gioco.

Chi avrebbe più scommesso su Murray? Il destino sembrava aver voluto mandare un segnale inequivocabile: il tuo mentore, alla quinta opportunità, ha rimontato da 0-2 mentre tu sei condannato a perdere nella maniera più crudele, due set avanti. Ed è qui che succede quello che non ti aspetti. Murray brekka praticamente subito e conduce fino alla fine un set perfetto. Non è il 5-5 del quinto, non è esattamente il teorema Lendl sull’immortalità, ma è una situazione altrettanto delicata. Alla fine New York è il palcoscenico che incorona Murray, ancor più di Londra 2012 e forse ancor più di Wimbledon 2013.
A Church Road, l’anno successivo, Murray si presenta dopo aver saltato il Roland Garros proprio come fece il suo allenatore nel 1990. Ma la storia è differente: è ancora Djokovic a mettersi da parte e lo fa in una maniera sorprendente, arrendevole, perdendo in tre set. Murray, che nei quarti ha dovuto rimontare Verdasco da 0-2, vince il secondo titolo Slam e riporta nel Regno Unito un titolo che mancava da 76 anni. Lo fa perché il suo status di campione non è più messo in dubbio (soprattutto da se stesso) e perché Lendl lo ha aiutato a limare le incertezze che lo bloccavano nei momenti più importanti della carriera.

Si potrà discutere a lungo sull’impatto di Ivan Lendl nella carriera di Murray. C’è chi sostiene che il tempo di Murray fosse arrivato a prescindere dal nuovo coach e che il gioco dello scozzese non ha subìto modifiche rilevanti rispetto al biennio 2010-2011. A parlare restano i numeri: con Lendl, Murray ha vinto due Slam, un oro olimpico ed un Master 1000. È divertente notare che Murray ha vinto in questo biennio di collaborazione lo stesso numero di tornei vinto nei due anni precedenti: sette. Ma la differenza la fa il peso specifico di tali tornei. Tre Master 1000 in meno ma due Slam in più è un’operazione che Murray forse non avrebbe mai sperato di fare dopo la bruciante sconfitta di Melbourne nel 2011.
Tecnicamente hanno ragione i detrattori del binomio: Ivan Lendl non ha portato miglioramenti tangibili al gioco di Murray che differisce poco da quello che ha contraddistinto lo scozzese da quando ha preferito affidarsi ad un gioco meno rischioso e più difensivo. Il quoziente Lendl ha però fatto sentire tutto il suo peso sulla mentalità. La chiave sta nei dettagli: è nel giocare un doppio fallo nel tie-break di una finale ed analizzarlo in maniera positiva, è perdere la finale più importante della tua vita e prenderti la rivincita appena un mese dopo, è resettare la mente dopo che il tuo avversario ti ha rimontato due set, è un singolo, asettico applauso dopo che il tuo giocatore ha brekkato per la seconda volta nel quinto set di una finale dello Slam. Trovata la strada, ora che Ivan Lendl non è più il suo allenatore, ad Andy resta il compito difficilissimo di non smarrirla.

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