La Hingis ci crede: "Flavia, se servi bene puoi battere Serena" (Martucci). Salvate la pantera Serena Williams (Semeraro). La favola di Viti Estrella Burgos non finisce a Flushing Meadows (Giua)

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La Hingis ci crede: “Flavia, se servi bene puoi battere Serena” (Martucci). Salvate la pantera Serena Williams (Semeraro). La favola di Viti Estrella Burgos non finisce a Flushing Meadows (Giua)

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Hingis: “Flavia, se servi bene puoi battere Serena” (Vincenzo Martucci, Gazzetta dello Sport)

Numeri, numeri. Federer ha firmato 127 autografi in 8 minuti e mezzo, alla media di uno ogni 3.6 secondi, dopo il match con Granollers, ed è il numero 1, davanti a Djokovic, che ci impiega 2.6 secondi, come Raonic (!). Gli americani impazziscono per le statistiche che, però, nel tennis, valgono e non valgono, in uno sport fatto di attimi. Come sa Flavia Pennetta impegnata stasera contro Serena Williams nei quarti degli Us Open partendo da 0-5 nei precedenti: «Serena è Serena, ma nel tennis può accadere di tutto, nessuna partita è persa in partenza, e lei se va in tensione può regalare qualcosa». Serena ha anche una fasciatura rigida alla caviglia destra e ha perso il doppio con Venus. Un altro punto interrogativo sulla sua mobilità: secondo i dati, in campo corre meno di altre — quasi 5 chilometri a partita, la metà di Kerber, almeno uno in meno di Bouchard, Sharapova, Jankovic, Halep e Wozniacki — la numero 1 del mondo, in lotta per diventare la più forte di tutti i tempi e quindi a caccia di nuovi Slam (è a 17 Majors, come RogerExpress), tira fuori gli artigli, come da mise leopardata degli Us Open dov’è ancora la favorita per il tris consecutivo, il sesto in carriera. «Non ho l’età per correre tanto, posso, I quarti delle Italiane Per 11 voke le italiane nei quarti a New York: la Pennetta è a quota cinque devo e sono in grado di correre davvero veloce, in campo, dietro la palla». Così facendo, a Flavia ha concesso appena un set, a Miami 2008, e ha battuto le italiane 33 volte, con due ritiri per infortunio, una sola sconfitta, contro la maestria sulla terra rossa di Francesca Schiavone, a Roma 2005. I quarti negli Slam Nella storia, per 31 volte hanno ramiunto almeno i quarti dello Slam 12 azzurre.

«E’ più potente, da anni batte tutte le prime, non è un problema di Pennetta, che risponde bene e ha tante qualità, è il problema di palleggiare all’inizio dello scambio, come piace a Flavia, che Serena non le concede», sottolinea il coach-fidanzato, Patrick Mouratoglou. Pensando allo stile pulito della brindisina che solo con coach Navarro sta imparando a sporcare un po’, mantenendo alti ritmi di palleggio e di aggressività. Quando le chiedono di Flavia, la sua compagna di doppio, con cui ha appena raggiunto la semifinale battendo Peschke e Srebotinik, come tutti, s’illumina e sciorina complimenti. Eppure l’ex numero 1 del mondo, Martina Hingis, dolcissima non è mai stata: «Che ragazza! Che bella persona! Che fortuna ho ad averla accanto, c’è una bella chimica fra di noi, ci capiamo, lei sa cosa fare, ha esperienza, sa come si vince, l’ha già fatto negli Slam, è stata numero 1, erano anni che ci incrociavamo e non si presentava mai l’occasione, poi l’anno scorso ci ho giocato contro a Cincinnati, e mi è nata quest’idea». Anche con la prima Serena, giovanissima e inesperta, Martina ci ha perso 7 volte su 13: «Serena è Serena, e contro di lei il servizio sarà molto importante: con alte percentuali di prime, Flavia potrà dettare il gioco il più possibile, seguire il proprio stile, non quello di una avversaria tanto potente».

Serena s’è appena «ritirata su di spirito», chiosa Mouratoglou, «proprio sul cemento Usa, e a Cincinnati ha giocato benissimo. Non credo sia in fase discendente». Serena ha tutti i numeri dalla sua parte, ma avrà anche doppia pressione, costretta a vincere, senza più Sharapova e Kvitova, e a salvare la stagione Slam. Infatti sdrammatizza. «Spike Lee? Lo conosco da tanto, ha casa proprio davanti a me, a Palm Beach (…)

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Salvate la pantera Serena Williams (Stefano Semeraro, La Stampa)

Salvate la Pantera. Pregate che continui a vincere. Perché quando Serena Williams deciderà di ritirarsi, nel tennis americano – soprattutto quello maschile – rimarranno quasi solo gattini impauriti. È dal 2003, con Andy Roddick agli Us Open, che un tennista americano maschio non vince uno Slam. Il 9 maggio 2011 per la prima volta nell’era del computer il ranking mondiale non comprendeva nemmeno uno yankee, e da allora le cose non hanno fatto che peggiore. Oggi il migliore è il gigante John Isner, n.15, il più promettente Jack Sock (55), ma quest’anno la carestia di risultati è stata devastante anche nello Slam di casa, dove per la prima volta in 113 anni nessuno statunitense è riuscito a superare la prima settimana.

Nel femminile la Williams resiste, e benissimo visto che staziona al n.1 della classifica mondiale; ma ha ormai 33 anni e anche lei quest’anno nei primi tre “majors” ha toppato malamente. Nel femminile qualche ragazzina di talento si vede, nel maschile la situazione è parecchio scoraggiante. «Abbiamo commesso degli errori – ha spiegato di recente Patrick McEnroe, il fratello minore del grande John che è a capo del settore giovanile della federtennis a stelle e strisce e gestisce circa 17 milioni di dollari – e ora stiamo cercando di riparare, imparando da Spagna e Francia». Secondo McEnroe junior uno dei problemi è che i giovani americani viene insegnato a colpire la palla, non a vincere le partite come invece accade ai coetanei spagnoli ed europei in genere. «I talenti ci sono, eccome – continua Patrick – dobbiamo però lavorare meglio con loro, aiutandoli anche dopo i 14 anni, preparandoli sia tecnicamente sia tatticamente».

Per altri osservatori il problema e più ampio e ha a che fare con il sistema sportivo americano, impostato su high-school e college. Nel caso di basket e football lo sport universitario costituisce una vera e propria anticamera del professionismo, una fabbrica di talenti che li consegna già pronti alle grandi leghe pro; nel tennis rischia invece di ritardare l’ingresso nel circuito dei giovani americani (fino a 22, 23 anni), svantaggiandoli nei confronti della concorrenza europea. La USTA punta molto su nuovi centri tecnici disseminati nel Paese, e in particolare in quello di Orlando, in Florida, ma per Nick Bollettieri, 83enne guru di una generazione di fenomeni forse irripetibile, le vacche magre negli States dureranno ancora a lungo. «Una volta il tennis si giocava solo negli Usa e in quattro-cinque altri Paesi – spiega Nick – oggi invece è diffuso in tutto il mondo. Per creare un tennista professionista occorre un investimento di 150 dollari, e i risultati sono incerti. Nel basket e nel football invece le spese sono molto minori e i possibili guadagni più alti, visto che lo stipendio medio di un giocatore di football è di un milione e mezzo di euro».

Insomma, il tennis negli States è troppo caro, e mentre il ceto medio alto si è ormai “imborghesito”, l’immenso serbatoio dei talenti atletici afro-americani e ispanici (e ormai anche asiatici) viene attirato da discipline più popolari e più redditizie. La soluzione? Per molti non esiste. Per Nick resta quella che fra anni ’70 e ’90 ha fatto la fortuna della sua celebre academy dalla quale sono usciti, fra i tanti, Andre Agassi, Jim Courier e Maria Sharapova. «Per ottenere risultati con i nuovi centri tecnici ci vorranno ancora molti anni – sorride Bollettieri – Io invece farei un paio di selezioni a livello nazionale, reclutando i 40 migliori fra le ragazze e i ragazzi in base ad altezza e potenza, e li farei allenare tutti nello stesso posto. Sum quel materiale si potrebbe lavorare bene». Sarà, ma nel frattempo agli amici yankee conviene sperare che Serena Williams continui ad aver voglia di giocare ancora a lungo.

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La favola di Viti Estrella Burgos non finisce a Flushing Meadows (Claudio Giua, repubblica.it)

C’è uno sconfitto che ha fatto spellare le mani al pubblico del Grandstand, il primo tennista della Repubblica Dominicana a arrivare tra i Top 100 (ora è 69, subito dopo Dmitry Tursunov e prima di Robin Haase). Si chiama Victor Estrella Burgos, detto “Viti”, ed è nato 34 anni fa a Santiago del los Caballeros. È bianco, come tutti i dominicani più ricchi, eppure la sua famiglia era molto modesta. Prende la racchetta in mano quando ha già undici anni, fa una gavetta durissima (nel paese caraibico non esiste un circuito pro e la Federazione arranca, anche se ha una nazionale persino per la FedCup, dove gioca anche una romana, Francesca Segarelli, classe 1990) e diventa professionista nel 2002. Racconta adesso: “Non avevo i soldi per viaggiare, quindi per quattro anni non ho lasciato il mio paese”. Per vivere, deve adattarsi a fare il maestro di tennis a casa sua.

Ci riprova a 26 anni, si trasferisce a Miami ed entra nel circuito dei Futures e, più avanti, dei Challengers. Il suo primo Future americano, a Vero Beach, lo ricordano in tanti: sconosciuto, Viti va avanti fino alla finale dove viene fermato dalla promessa Ryan Sweeting. Il suo problema restano i soldi: “Se non passavo i primi turni di un torneo, non sapevo come iscrivermi al successivo”. E’ questo il tennis lontano dai riflettori degli Slam e dei Masters.

Nel 2008 tenta il grande salto: ha i punti sufficienti per fare le qualificazioni del Masters 1000 di Cincinnati, dove elimina l’indiano Bopanna e il cileno Capdeville. Al primo turno trova però l’inaffrontabile Fernando Verdasco. Si torna alla casella precedente.

Viaggia e vince. Viti si prende 25 tornei in otto anni, senza mai attraversare l’Atlantico o il Pacifico, tanto che nemmeno il mio amico Giovanni, che segue con metodo i circuiti minori sul sito dell’ATP, l’aveva mai visto in campo prima di Flushing Meadows. Dieci Futures a Santo Domingo, cinque negli Stati Uniti, gli ultimi – compresi i Challengers – a Città del Messico, Medellín, Quito, Salinas. Qui e là si toglie belle soddisfazioni, come eliminare Richard Gasquet e poi vincere la finale con Thomaz Bellucci a Bogotà, conquistare i titoli a Brownsville e Medellín ai danni di Vasek Pospisil e Alejandro Falla. Numero uno della squadra di Davis dominicana dal 1998, con il suo contributo il team ottiene il bronzo ai giochi panamericani del 2011 e fa ottimi piazzamenti, compreso un oro, nei giochi del Centro America e dei Caraibi. Tutta roba che dà poco da mangiare ma lo rende popolarissimo nel suo paese e nella grande comunità della diaspora dominicana.

La svolta arriva nell’ultimo anno, con i successi in Challengers importanti come Quito e Salinas, l’ingresso tra i primi cento dell’ATP, la qualificazione al Masters 1000 di Miami, l’emozione del primo turno al Roland Garros e a Wimbledon, la progressione agli UsOpen, con Igor Sijsling e l’annunciato fenomeno Borna Coric battuti entrambi in quattro set. La partita con il diciassettenne croato è tra le più seguite e rumorose del torneo, in un campo 6 preso d’assalto dai dominicani del Queens. Ma forse è una sensazione perché “dieci dominicani fanno casino come cento newyorkesi”, spiega Viti ai giornalisti.

Ho sofferto per la gioiosa uscita di scena di Estrella Burgos per mano di Milos Raonic, numero 6 del ranking ATP. Il risultato basta a dare l’idea della battaglia: 7-6 7-6 7-6. Il dominicano non molla mai sul proprio servizio, recupera quando il bombardiere canadese tenta di prendere il volo, cede solo nei tie break perché il ragazzo nato in Montenegro è probabilmente oggi il più forte al mondo al servizio.

Estrella Burgos è cresciuto quando si insegnava ancora il rovescio a una mano, che purtroppo ha solo in back e usa a scopo difensivo. Supplisce con una mobilità laterale come se ne vedono di rado, che gli consente di colpire di diritto anche quando l’avversario mette sulla riga di sinistra. Con il diritto fa letteralmente quel che vuole, sia in accelerazione sia quando accorcia. Sotto rete è reattivo e preciso. Ovviamente, il suo gioco è fisicamente dispendioso e pretende preparazione molto intensa e capacità di concentrazione senza pause.

Finita la partita con Raonic, Viti è rimasto sul campo quattro minuti, come non accade mai a uno sconfitto in un turno dello Slam. Di fatto, c’era una standing ovation. Ha sistemato le racchette ad una ad una, senza fretta, si è alzato dalla sedia un paio di volte per salutare il pubblico del Grandstand, poi s’è fermato a lungo a firmare le megapalle da tennis dei ragazzini che lo attendevano prima degli spogliatoi. Era il suo giorno, lo sapeva, e se l’è goduto. Ce ne saranno altri, potete scommetterci.

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