Fognini è già caldo: “Ora sono sereno” (Crivelli). Wimbledon, fuga dalla rete. Il senso per l’erba di Seppi (Clerici). Vanni, Ymer e le storie del campo numero 12 (Giua). Ashe e quel trionfo di 40 anni fa: “Per Wimbledon fu uno choc” (Semeraro)

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Fognini è già caldo: “Ora sono sereno” (Crivelli). Wimbledon, fuga dalla rete. Il senso per l’erba di Seppi (Clerici). Vanni, Ymer e le storie del campo numero 12 (Giua). Ashe e quel trionfo di 40 anni fa: “Per Wimbledon fu uno choc” (Semeraro)

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Fognini è già caldo: “Ora sono sereno” (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)

Fa caldo. Molto caldo. Così caldo che sembra di stare a Melbourne a gennaio e non a Londra a fine giugno. Tanto che la direzione del torneo è costretta a tirar fuori dai cassetti impolverati le «heat rules», le regole sul clima che consentono di prendere un timeout di 10′ tra il secondo e il terzo set quando la temperatura supera i 30.1 gradi (e ieri eravamo a 29 e rotti). I bookmakers, che da questi parti sono legge, hanno già scommesso che in settimana si batterà il primato della giornata più torrida sotto il cielo di Wimbledon, risalente al primo giovedì del 1976, quando si arrivò a 34.6. E se Serena Williams fa sapere su Twitter di aver trascorso un po’ del pomeriggio immersa in una vasca ghiacciata dopo l’allenamento e di essersi ritirata dal doppio con Venus per evitare insolazioni, la Kvitova utilizza i metodi spicci per sfuggire ai 40 gradi che si percepiscono sul Centrale, battendo la povera Bertens in 35 minuti. Non è record, la famosa finale tra Graf e Zvereva di Parigi 88 durò un minuto di meno, ma certo impressionano i 29 punti su 30 ottenuti con il servizio dalla campionessa in carica.

SERENITA’ Insomma, è un mondo che cambia. Deve essere davvero così, se Fognini motteggia scherzoso con l’arbitro Ramos dopo un punto contestato e non molla mai la racchetta di mano, dopo che l’anno scorso ne aveva rotte un paio e si era preso 27.000 dollari di multa per oscenità varie, uscendo dal Club con la fama di demonio. Fermo dalla sconfitta con Paire al Roland Garros, Fabio scavalla in poco più di un’ora e mezza il primo ostacolo erbivoro della stagione, il piccoletto del Wisconsin e coetaneo Tim Smyczek, che in Australia aveva portato al quinto Nadal. Non inganni la prospettiva del saldo negativo errori-vincenti (3034), perché la statistica non racconta di un match nel quale è il numero 28 del mondo a dettare tempi e ritmi, a pungere con il dritto da fondo, a trovare angoli mirabili di rovescio, a ricamare tocchi delicati a rete. Un pomeriggio con il sorriso in bocca e racchiuso in una semplice parola: «Serenità, finalmente. Adesso sono sereno, il lavoro che sto portando avanti comincia a dare i suoi frutti, spero da qui alla fine della stagione di tornare ai livelli di febbraio, di giocare tornei da protagonista».

RESPIRO Forse aveva solo bisogno di vacanze, e allora sia benedetta la settimana di stop che si è preso dopo Parigi. Forse doveva approcciare l’erba con divertimento e senza pressioni, e così si spiega la scelta di giocare solo un’esibizione per prepararsi ai prati di Church Road. Coach José Perlas ne ha assecondato gli umori: «Lo abbiamo deciso di comune accordo dopo aver prodotto il massimo sforzo fisico e mentale fino al Roland Garros. Abbiamo giocato tutti i tornei sulla terra, quindi meglio respirare per qualche giorno». Borg ha vinto 5 Wimbledon senza mai giocare una partita ufficiale sull’erba prima di Londra, Djokovic dal 2011 passa direttamente dalla terra a questi campi e senza scomodarli con la grandezza delle loro carriere, Fabio guarda ai prossimi passi con ottimismo: «Questo è un torneo molto particolare, devi adattarti a una superficie che affronti per un mese soltanto. L’anno scorso feci la stessa scelta e arrivai al terzo turno». Dalla sua parte di tabellone occhieggia Nadal, per un possibile ottavo assai stimolante: Non ci penso, voglio solo concentrarmi sul secondo turno contro Pospisil. Sull’erba le partite ti possono sfuggire in un niente, ma se servi bene te la puoi giocare con tutti».

Lo sa bene la Giorgi, che con una battuta vincente annulla il secondo set point sul 6-5 del primo set alla brasiliana Pereira e poi si invola verso il secondo turno (come anche Seppi, facile sul tenero inglese Klein) con la forza di un destino che gli scommettitori londinesi giudicano già di possibile gloria (…)

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Wimbledon, fuga dalla rete. Il senso per l’erba di Seppi (Gianni Clerici, La Repubblica)

Dopo l’eroica sconfitta di Bolelli contro Nishikori, era questo un altro italian day, vicenda che, dai tempi in cui Pietrangeli perse un Wimbledon semi-vinto, contro Rod Laver, si risolve per solito nelle prime giornate. Ancora un poco confuso per l’ora mattutina, le undici, avevo così aperto il televisore sul match di Seppi , del quale non avevo ancora individuato l’avversario, tale Klein, che il programma mi presentava come un britannico. Ma, dal video, nel corso del palleggio di riscaldamento di Seppi, avrei avuto un’incredibile sorpresa, nel vedere il nostro palleggiare con un avversario che pareva il gemello di Stefano Meloccaro, il giornalista televisivo di Sky. Com’era possibile?, mi chiedevo. Come mai un sistema di ammirevole organizzazione aveva lasciato entrare in campo un giornalista, probabilmente privo dei contrassegni che ognuno di noi porta appesi al collo, per essere identificato sino all’albero genealogico. L’unica spiegazione al mio incredulo dubbio era che Meloccaro, peraltro ottimo giocatore di club, accanito in modo maniacale, fosse bruno, mentre quello che palleggiava con Seppi pareva biondastro. Indicando lo schermo a un collega, «si sarà tinto» mi sentivo rispondere. «Televisione eguale Finzione».

Avrei allora preso la coraggiosa decisione di recarmi, sotto un sole importato dal Sahara, al campo n.18, che sta a poco meno di un chilometro dalla refrigeratissima sala stampa. E, giunto vicino al campo, a pochi metri dal finto Meloccaro, mi sarei reso conto che quel giovanotto biondastro non era il teleman, ma un modesto tennista, tale Klein, nome tedesco di un australiano importato da Perth, e gratificato da un passaporto britannico, così come sono gratificati vari altri giocatori dell’isola, a partire dallo scozzese Murray. Sarò forse ingiusto con lo pseudo Meloccaro, la sua controfigura Klein, ma devo affermare che ci voleva altro per un Seppi a suo agio sui prati, come dimostrano la vittoria nel torneo di Eastbourne 2011, gli ottavi a Wimbledon 2013, e la recente finale ad Halle, perduta con Federer, noto giardiniere. Positivissime vicende che confermano come, sulla gramigna contemporanea, non sia indispensabile avvicinarsi a rete, ma soltanto servir bene, e tenere la palla bassa. Un altro azzurro che, senza servire particolarmente bene, al solito, ha saputo ricavare dalla palla non meno effetti di un giocoliere, è stato Fognini. Aveva davanti un altro ragazzo di etnia che non corrisponde al passaporto, il polacco USA Smyczek, e per un momento mi veniva da rammaricarmi che dall’Africa ci sia giunto solo un migrante dei miei tempi, l’eritreo Mogos. Ma, al di fuori di simili rammarichi, non altro mi suggeriva il gioco di Fabio, se non ammirazione (…)

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Vanni, Ymer e le storie del campo numero 12 (Claudio Giua, repubblica.it)

Mi piacciono le storie di speranza e fatica, che mica sempre finiscono con sorrisi e festeggiamenti. Quella di Luca Vanni, aretino di Foiano della Chiana, che solo a trent’anni s’affaccia da protagonista sui grandi palcoscenici del tennis, l’ho raccontata quando l’inverno scorso raggiunse la finale dell’ATP 250 di San Paolo, in Brasile. Per arrivare fin lì ha lottato per anni contro la sfortuna, sotto forma di incidenti invalidanti che avrebbero fermato chiunque, e contro i pregiudizi (“… non ce la potrai fare”). Nell’ultimo mese il gigante allenato da Fabio Gorietti è approdato prima al tabellone principale di Parigi (fuori per mano di Bernard Tomic) e poi anche a quello di Wimbledon, ripescato nonostante le qualificazioni a Roehampton perse all’ultimo tuffo.

Sul campo 12 degli Championships ha affrontato nel tardo pomeriggio il numero 4 britannico e 111 del mondo James Ward. Duello tra pari grado, visto che Luca è 113, non fosse per l’emozione dell’esordio sull’erba sacra del tennis. Il primo set è stato equilibrato, con un perfetto tie break giocato dall’italiano (7-6). Ward ha invece dominato il secondo set e gestito il terzo (2-6 4-6) perché Luca ha perso ritmo e concentrazione, sprecando le occasioni che pure non gli sono mancate e lasciando l’iniziativa troppo spesso all’avversario. Nell’ultimo set il momentum non è cambiato (3-6): per il britannico sarà il bis del secondo turno raggiunto nel 2012, per Luca il rimpianto di non aver giocato al meglio le proprie carte.

Un’altra bella storia è quella di Wondwosen Ymer, che non voleva che i figli nascessero e crescessero in Etiopia. Nel 1987 il suo paese, poverissimo, era devastato dal conflitto civile tra i governativi filorussi e i ribelli e dalla guerra senza fine con l’Eritrea, che chiedeva l’indipendenza. Mezzofondista – aveva eccellenti tempi sui diecimila – decise di tentare la fortuna in Svezia, paese allora più generoso di oggi con i rifugiati scappati dai luoghi più sfortunati del globo. Furono anni difficili, di vestiti rimediati e scarpe rotte, di lavoretti malpagati, di qualche gara su strada, poi venne il tempo dell’università e del matrimonio con Kelemework.

Il primo figlio della coppia, Elias, nacque a Skara, a metà strada tra Norrkoping e Goteborg, nel 1996. Due anni dopo arrivò Michael (come Chang?) e nel 2006 Rafael (Nadal?), il più piccolo. Wondwosen avrebbe preferito vedere i suoi ragazzi correre come lui in pista e magari puntare alle Olimpiadi. Ma gli piaceva anche seguire il tennis in tv. Erano gli anni di Magnus Norman, Thomas Enqvist, Jonas Björkman e poi Robin Soderling. Fu così che Elias a quattro anni impugnò per gioco la prima racchetta per non lasciarla più. I pochi campi da tennis a Skara, ventimila abitanti scarsi, erano così poco frequentati che Wondwosen si decise a chiedere ai guardiani di lasciare allenare Elias gratis. Racconta oggi: “Ci siamo andati per parecchi anni. Gratis. Ogni volta che potevamo. Dopo un po’ cominciò a venire con noi anche Michael”. Il quale dopo qualche mese pretendeva già di competere con il fratello maggiore. I soldi, nonostante il capofamiglia lavorasse come ingegnere in un caseificio, scarseggiavano: “Portavo in giro i ragazzi su una vecchia auto scassata, un vero relitto. A volte durante i tornei dormivamo in macchina. Veniamo dall’Africa, non siamo abituati a pensare che tutto ci è dovuto, eppure mi pesava svegliare Elias e Michael rannicchiati sui sedili posteriori e buttarli in campo contro avversari meglio riposati”. Una volta montarono una tenda in un campeggio poco lontano dalla sede di un torneo: “La notte piovve senza interruzione e vennero a farci compagnia un sacco di rane”. Di regola, i tre correvano insieme tre o quattro volte ogni settimana, per alcuni chilometri. Fino a qualche tempo fa, Wondwosen staccava enrambi. Adesso, non si sa: ma a trotterellare accanto a lui è soprattutto Rafael, anch’egli deciso a fare del tennis una ragione di vita.

Nel 2010 qualcuno raccontò dei due fratelli Ymer a Magnus Norman, oggi allenatore di Stan Wawrinka. Andò a vederli e fu colpito dalle botte che si scambiavano in campo. Gli diede economicamente una mano, e lo stesso fecero Stefan Edberg, coach di Roger Federer, e una catena di hotel.

I fratelli Ymer odiano perdere anche quando giocano l’uno contro l’altro. Ha raccontato Elias ad Alessandro Mastroluca: “Una volta ero in campo con Michael, stavo vincendo io, mio padre è entrato per filmare e mio fratello si è arrabbiato moltissimo con lui”. Diciannove anni compiuti in aprile, per ora Elias è il più forte dei due. Nel 2014 ha vinto cinque Futures ed è entrato tra i primi duecento giocatori del ranking ATP (adesso è 127). Quest’anno ha giocato i primi turni a Melbourne e a Parigi uscendo di scena con onore. Due domeniche fa s’è preso il primo titolo importante a Caltanissetta, piegando in finale un altro giovane di buone speranze, l’americano Bjorn Fratangelo. Poi, nelle qualificazione londinesi della scorsa settimana, ha letteralmente sbaragliato il campo. Oggi ha esordito contro l’uomo che con il suo servizio fa tremare il mondo, il croato Ivo Karlovic, numero 26 ATP, classe 1979. La lezione per il ragazzino svedese – che adesso di allena in Spagna con Galo Blanco – è stata severa, come i diciassette anni di esperienza impongono: 6-7 6-2 6-4 7-6. Ma nel primo e nel quarto set gli spettatori che affollavano il campo 12 (sempre lì!) hanno intravisto in Elias le caratteristiche del potenziale campione: grinta e coraggio, notevole mobilità, buon servizio, ottima risposta soprattutto di rovescio. Deve migliorare l’esecuzione dei vincenti, per ora ancora una rarità.

Per colpa del campo 12, dello svedese e poi di Luca Vanni mi sono perso i primi turni di Andreas Seppi, Fabio Fognini, Camila Giorgi, Karin Knapp e Paolo Lorenzi. Agevoli le vittorie per entrambi i nostri giocatori più forti in tre set. Il sudtirolese, che mi dicono in eccellente forma dopo la finale persa ad Halle contro Federer dieci giorni fa, ha tenuto lontano (6-3 6-2 6-2) l’australiano naturalizzato britannico Brydan Klein, ATP 167. Il ligure ha regolato in poco più di un’ora Tim Smyczek, americano, ATP 77, per 6-4 6-3 6-2. Raccontano che Corrado Barazzutti, che ha seguito Fabio dagli spalti, sia più che soddisfatto. Nessun trionfalismo: buoni allenamenti o poco di più per gli azzurri. E se a Fabio tocca tra due giorni il canadese Vasek Pospisil, ATP 56, che è alla sua portata, più ostico risulta l’impegno per Andreas, che affronterà il croato Borna Coric: il diciottenne fenomeno, che è numero 40 al mondo, ha superato in cinque set (l’ultimo è finito 9-7) e altrettante ore il veterano ucraino Sergiy Stakhovsky. Puntare sulla fatica, vista l’età del ragazzo, sarebbe un errore.

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Ashe e quel trionfo di 40 anni fa: “Per Wimbledon fu uno choc” (Stefano Semeraro, La Stampa)

L’immagine è quella: il servizio slice di Ashe che taglia il Centre Court, Connors che ruzzola fuori dal campo e in qualche modo riesce a rispondere. Ma Arthur è già a rete, veloce come una bruma nera, alto e regale come un principe masai. Battezza una facile volée di diritto, poi alza il pugno verso le tribune. È il 5 luglio del 1975, per la prima volta nella storia un maschio nero ha vinto Wimbledon. Ashe in quel momento ha 32 anni, e quella finale avrebbe dovuto perderla. Jimbo è il campione uscente, il n.1 del mondo. E un fuoriclasse di antipatia. L’uomo che ha portato in tribunale l’Atp, l’associazione dei tennisti nata pochi anni prima di cui Ashe è il presidente, e che ha querelato Ashe stesso, per un’accusa di scarso patriottismo. «Ogni volta che lo incontro negli spogliatoi – giura Ashe – devo trattenermi dal tirargli un pugno». Il cazzotto arrivò in campo, in un indimenticabile pomeriggio di 40 anni fa. Scomparso nel 1993 La storia era iniziata negli Anni 50, su un campo del profondo Sud americano a Richmond, in Virginia. «Nei tornei giovanili ci si arbitra da soli, tu chiama ogni palla fuori di 10 centimetri a favore del tuo avversario: eviterai che ti diano del negro ladro. Perderai qualche partita, ma se sei forte alla fine riuscirai a dimostrarlo».

Arthur Ashe era un ragazzino testardo, ma ascoltò quello che gli diceva Walter Johnson, il vecchio coach di Althea Gibson, la prima nera capace di trionfare ai Championships. La lezione servì, i risultati arrivarono in fretta. L’università in California, la Coppa Davis, le copertine di «Sport Illustrated», il primo Slam vinto a Forest Hills nel ’68. Poi l’impegno civile, le lotte contro l’apartheid, l’amicizia con Mandela prima della morte per Aids, dopo una tra- sfusione, nel 1993. «Ma la vittoria a Wimbledon – spiega Peter Bodo, giornalista americano che alla rivalità Connors-Ashe ha dedicato un libro – fu quella che gli regalò l’autorità definitiva». La sfida con Connors Una finale vinta prima di scendere in campo. «Arthur era abituato a spazzare via gli avversari – racconta John Barrett, storico del tennis e membro dell’All England Club –, ma sapeva che con Connors non poteva. Così stravolse il suo stile: palle leggere, angolate, corte, per togliere peso ai colpi mancini dell’avversario. E Connors uscì di testa. Ai cambi di campo estraeva dai calzini i foglietti che gli aveva scritto mamma Gloria e li leggeva nervosamente. Ashe sedeva immobile, gli occhi chiusi. La personificazione della calma. Uno spettatore gridò: “Datti da fare, Connors!”, Jimmy gli rispose. “Ci sto provando, dannazione!”. Lo stadio venne giù. Ma vinse Ashe, e per Wimbledon fu uno choc. Uno choc meraviglioso».

40 anni dopo, cosa è rimasto di quella vittoria? Sorelle Williams (e Malivai Washington) a parte, il tennis afroamericano non ha prodotto molto. «Il ricordo di Arthur, un uomo straordinario. Fosse sopravvissuto sarebbe diventato un politico, avrebbe anticipato Obama», sostiene Barrett. «Ashe ha fatto dire agli afroamericani: ecco, voglio che mio figlio assomigli a lui», sottolinea Bodo. «Ha avvicinato i neri al tennis, anche se per Leggenda Lo stile impeccabile di Arthur Ashe Il campione Usa morì a soli 50 anni di Aids, contratto in seguito a una trasfusione di sangue molti di loro resta ancora uno sport estraneo. Ha seminato. In futuro avremo altri campioni neri come lui (…)

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