Murray senza pressioni. La figlia e Lendl i segreti (Lopes Pegna). Una sconfitta non cambia il destino da grande di Raonic (Clerici). Nadal prova a riscoprirsi Nadal: “E cos’altro potrei fare?” (Azzolini). Sul Centrale un tetto che fa discutere (Zanni)

Rassegna stampa

Murray senza pressioni. La figlia e Lendl i segreti (Lopes Pegna). Una sconfitta non cambia il destino da grande di Raonic (Clerici). Nadal prova a riscoprirsi Nadal: “E cos’altro potrei fare?” (Azzolini). Sul Centrale un tetto che fa discutere (Zanni)

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Murray senza pressioni. La figlia e Lendl i segreti (Massimo Lopes Pegna, La Gazzetta dello Sport)

Appena hai di fronte Andy Murray fuori dal campo, la cosa che noti è la sua calma. Un ragazzo tranquillo che riflette prima di rispondere e lo fa con voce pacata e monocorde. Persino un po’ noioso. Difficile immaginare che uno così possa tormentare la racchetta, insultare se stesso e la corte dei suoi amici in tribuna, come gli capita con una certa frequenza mentre affronta l’avversario di turno. Questo succede quando la flemma britannica se ne va e inizia a ribollirgli nelle vene il sangue scozzese. E’ accaduto anche ieri quando con lo spagnolo Granollers faticava a chiudere il primo set. Succedeva più spesso quando non vinceva. Quattro finali Slam e zero titoli fra il 2008 e il 2012, prima di conquistare gli U.S. Open del 2012. E poi a rovinare le sue serate c’è da anni il suo pericolo pubblico numero uno, nato appena una settimana dopo di lui dall’altro lato dell’Europa: Novak Djokovic. Una sorta di nemesi. Otto a due negli Slam per Nole, che lo ha castigato cinque volte in finale (contro due), incluso gli Australian Open e Parigi di quest’anno. «Ma no, Nole si merita di essere il numero uno: ha giocato l’ultimo anno e mezzo da fenomeno», dice sereno. Anche perché da Parigi in poi il trend si è invertito: Andy ha rivinto Wimbledon, conquistando il terzo Major, e si è appena appeso al collo l’oro olimpico, bissando l’impresa di Londra 2012. Qual è il motivo di questo cambiamento, Andy? Sembra persino divertito dalla domanda: «Dopo l’Australia, c’è stato un bel terremoto nella mia vita: è nata mia figlia Sophia Olivia e diventare padre per la prima volta oltre a essere la cosa più bella che mi sia mai capitata, inevitabilmente ti trasforma». Prova a spiegare: «Significa che il tennis non è più la priorità assoluta. Lo era fino a quando ero single. Non più. E questo cambio di prospettiva ti aiuta a togliere di mezzo una buona parte di pressione. Quando vado in campo non sento più lo stress di qualche anno fa». Con Federer fuori, Djokovic e Nadal con problemi personali (Nole) ai polsi (entrambi) ancora non completamente risolti, è lui, superstite sano dei Fab 4, ad avere il ruolo di favorito qui a Flushing. Liquida l’argomento con semplicità: «Sono entrambi dall’altra parte del tabellone, per cui per arrivare in finale non li incrocerò». Aggiunge: «Ma noi quattro, e includo Federer, siamo nella fase finale della nostra carriera, è normale subire qualche infortunio. lo e Novak siamo nei top 10 da una decina d’anni, Roger e Rafa da molto più tempo». Si considera vicino al ritiro? «No, ma ho 29 anni ed è un fatto oggettivo: se sono fortunato posso avere davanti forse altre tre o quattro stagioni. Per questo voglio dare il massimo fino a quando sarò fisicamente a posto». E per questo dopo una parentesi con Amelie Mauresmo allenatrice, ha richiamato Ivan Lendl. Perché l’ex numero uno del mondo, con quel carattere scorbutico da antipatico cronico, pare sia l’unico che riesca a dirgli le cose in faccia. Già perché Andy non è una persona facile da gestire. La Mauresmo non aveva quell’autorità, mentre il ceco è uno che affronta le magagne tecniche senza troppi giri di parole. Andy ci scherza su: «Provo persino a farlo ridere, ma con scarso successo». Però alla base dei suoi trionfi c’è proprio Ivan il terribile. Racconta Murray: «Adesso allena anche i giovani e si è un po’ ammorbidito. Ha un modo di dire le cose molto brusco e diretto. Ma con i ragazzini non puoi andare da uno di loro e dirgli: “Oggi il tuo servizio fa schifo”. Perché rischi che s’intimorisca e non azzecchi mai più una battuta. Ma è un uomo intelligente e un grande allenatore». E se lo tiene stretto.

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Una sconfitta non cambia il destino da grande di Raonic (Gianni Clerici, La Repubblica)

Milos Raonic, che dopo la finale di Wimbledon, perduta contro Murray, pareva il più accreditato della Nouvelle Vague a sostituire i Fab Four, è stato battuto in secondo turno allo US Open. Da chi, ci si domanda subito? Da un altro futuro grande? Non si era mai sentito nominare, questo americano, Ryan Harrison, conosciuto, sin qui, soprattutto per il fatto di avere un fratello anche lui professionista, anche lui modesto, Christian Harrison. Come lui, ammesso al tabellone finale attraverso dignitose qualificazioni, dopo che nei precedenti Slam aveva raccolto una collezione di facili sconfitte contro Nadal, Murray, Djokovic, Cilic e Isner. Cos’è accaduto, allora? Causa Harrison, o causa Raonic? Causa il sole, rispondono gli spettatori del match, tra i quali il coach Riccardo Piatti. Accade infatti che, come l’Australian Open, anche lo US Open vanga programmato durante il mese più caldo dell’anno tanto che, prima della chiusura del tetto australiano oltre i quaranta gradi, chi scrive fece cuocere un uovo a bordo campo, per dimostrare la crudeltà degli organizzatori, attenti al denaro degli sponsor molto di più che alla salute degli attori. Milos Raonic non avrebbe certo perduto senza i crampi che l’hanno devastato, tanto che alla fine del match era cosi incrampato che non è nemmeno riuscito a sollevare la sacca in cui aveva riposto le racchette. Colleghi stranieri più disinformati dello scriba trovano nell’eliminazione di Raonic cause inesistenti. McEnroe, che l’aveva motivato a Wimbledon, si sarebbe staccato da Milos per ragioni misteriose. La ragione principale è che Mac non vuol perdere il suo ruolo di commentatore televisivo, che è, da quando è uscito dai campi, il suo vero mestiere. Raonic continua così la sua collaborazione con Piatti nel ruolo di coach, e con Moya in quello di palleggiatore. Sarà a Montecarlo per riprendere gli allenamenti in vista del Masters di Londra. Rimane, come a Wimbledon, il primo tra i prossimi sostituti dei vecchi, ammirabili Fab Four. Se non ha i crampi. certo.

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Nadal prova a riscoprirsi Nadal: “E cos’altro potrei fare?” (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Rafa ci crede. Forse. Gli altri meno. Glissano, girano al largo, restano sul vago. Però lui dice di crederci, «come ci ho sempre creduto, nella mia carriera». Vero, fiducia e ottimismo non gli hanno mai fatto difetto. Anzi, erano parte integrante del suo arsenale tennistico. «Certo, penso di poter tornare competitivo, di vincere ancora i tornei più importanti». Con questi auguri ha abbordato gli Us Open dopo un’edizione dei Giochi decisamente migliore di quanto si potesse supporre, eppure dolente nel polso sfrigolato dall’usura, e un po’ anche nell’animo, perché perdere non è sempre la ricetta migliore per ritrovare slancio. In semifinale Del Potro, poi Nishikori a soffiargli anche la medaglia di bronzo. «Da Rio sono uscito distrutto», e non intendeva solo nel fisico, segnato da tre mesi di riposo forzato. A ciò si aggiungono i commentatori illustri di questo Slam, che non ripongono molta fiducia in lui: Rusedski è certo che Rafa non vincerà più uno Slam. McEnroe non lo vede ancora pronto, Wilander ribadisce che non potrebbe nemmeno esserlo, Mouratoglou ne fa una questione di giri del motore. «Nadal prima dell’infortunio al polso – spiega il coach di Serena Williams, – colpiva il dritto con uno spin che imprimeva alla palla una rotazione di 3600 giri al secondo». Al secondo?? Ma la spiegazione di Mou (anche il tennis ha il suo) è comunque interessante. Che si tratti di giri al secondo, al minuto, o rapportati alla traiettoria della palla per coprire la lunghezza del campo, il coach rivela che al momento la rotazione di Rafa non supera i tremila. Dunque, «abbiamo a che fare con un Nadal depotenziato», conclude. E forse è proprio così. «E infatti cerca più punti con il rovescio», spiega Mouratoglou, «cosa che non ha mai fatto in tutta la sua carriera». Che viaggi o meno a marce ridotte, Rafa viene da una facile vittoria su Seppi («Ma il sei zero del primo set è ingiusto – commenta generoso – eravamo molto più vicini di quanto non dica il punteggio») e non avrà avversari fino agli ottavi, seppure si sforzi di dipingere il prossimo, Andrey Kuznetsov, come un tipaccio particolarmente velenoso. Nei quarti potrebbe trovare Monfils (secondo logica), ma non Raonic, uscito contro Ryan Harrison. L’appuntamento centrale resta quello della semifinale con Djokovic: lì Rafa potrà fare il punto della situazione. A conti fatti, male non va. Basta non chiedergli quante possibilità abbia di arrivare fino in fondo. «Che cosa? La finale? E secondo voi potrei davvero pensare alla finale? Vengo da un infortunio e sono già contento che il polso stia migliorando. Faccio i conti giorno per giorno. Che altro potrei fare?».

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Sul Centrale un tetto che fa discutere (Roberto Zanni, Corriere dello Sport)

E tetto fu. Mercoledì sera alle 22 e 38 ora di New York ecco la prima pioggia, partita sospesa e in 5’38” il tetto retrattile dell’Arthur Ashe Stadium si è chiuso permettendo ai giocatori di ricominciare a giocare dopo una sosta di 8′. «Rafael Nadal – recita il comunicato dell’organizzazione – ha avuto l’onore di essere il primo giocatore ad allenarsi e a disputare una partita con il nuovo tetto chiuso». Per la cronaca c’era anche Andreas Seppi in campo, ma la partita dell’azzurro non è stata tale da fargli meritare una menzione, visto che in tre set Rafa ha chiuso tetto e incontro. Il tetto-evento poi ha avuto subito un bis ieri nella mattina locale per l’incontro Halep-Safarova, vinto in due set dalla rumena, e soprattutto per Murray-Granollers: la pioggia a quel punto scrosciante s’è fatta sentire e come, determinando un fastidioso rumore di fondo. «Da principio non capivo cosa fosse – ha detto Andy – In campo non si sentiva l’impatto sulla palla, un handicap soprattutto sul servizio». Dimenticate così, almeno per il Centrale, le lunghe attese, le macchine asciugatrici e i raccattapalle con gli asciugamani. Però, come sempre, c’è qualcosa che non va.. Se Nadal ha detto che non ha avvertito differenze di rumore, tra aperto e chiuso, non tutti i colleghi sono d’accordo con lui. «Non importa come sia il tetto: quello che ho notato – ha aggiunto lo spagnolo – è che c’è più rumore». Un indizio? Forse sì perché sempre Rafa ha aggiunto che gli addetti a far entrare gli spettatori nello stadium devono essere più attenti, cosa che deve fare anche il pubblico. E durante la partita tra lui e Seppi, sono stati diversi gli avvertimenti del giudice di sedia ai pubblico di fare silenzio, il problema però è che, almeno nei settori più alti, nessuno sentiva. Chi non ha gradito è stata la connazionale Garbine Muguruza. «Ho sentito rumore in continuazione». Giudizio obiettivo? Non c’è la certezza perché la Muguruza ha parlato appena dopo essere stata buttata fuori, al secondo turno, dalla lettone Anzstasija Sevastova, 48 delle classifiche e che tre anni fa, dopo tanti infortuni si era ritirata dal tennis. Ma la Sevastova, che non aveva mai giocato all’Arthur Ashe Stadium, dopo aver regalato la grande sorpresa della giornata ha detto che sì nel primo set non riusciva a sentire il rumore della pallina sulla racchetta, ma poi nel secondo si era subito abituata. Chi non è assolutamente d’accordo è l’USTA, United States Tennis Association, che organizza il torneo e ha speso i 150 milioni per il tetto. «Questa è New York – ha detto Gordon A. Smith, direttore esecutivo – Il pubblico è rumoroso e vogliamo che la gente faccia il tifo e pensiamo che tutti si abitueranno, fan e giocatori».

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