Federer e sorelle Williams. Il potere torna ai veterani (Clerici). Che Federer! Torna la magia (Crivelli). Infinito Federer: “In finale perché sono vecchio” (Semeraro). Roger spavaldo in risposta, e il rovescio incide di più (Bertolucci). Ancora le Williams. Una storia infinita: “Il sogno ricomincia” (Crivelli)

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Federer e sorelle Williams. Il potere torna ai veterani (Clerici). Che Federer! Torna la magia (Crivelli). Infinito Federer: “In finale perché sono vecchio” (Semeraro). Roger spavaldo in risposta, e il rovescio incide di più (Bertolucci). Ancora le Williams. Una storia infinita: “Il sogno ricomincia” (Crivelli)

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Federer e sorelle Williams. Il potere torna ai veterani (Gianni Clerici, La Repubblica)

Si scopron le tombe, si levano i morti, i vecchi tennisti son tutti risorti. Scusate l’inizio, ma mi è stato ironicamente ricordato da Antonio, uno dei miei compagni teleutenti, dopo che Wilander e Barbara Schett avevano finito i loro commenti. Io stesso ho, con piacere, ricordato a tre televisioni e ad un paio di radio perché Roger Federer, sulla via dei 36 anni, e le Sorelle Williams, 35 e 36, siano ancora in gara, una Williams sicura di vincere lo AUS Open, e lo svizzero quasi. Parto da lontano, dai tempi in cui Big Bill Tilden rivinse Wimbledon a 37 anni e, dopo di lui, divenuti professionisti, altri Campioni furono impediti ad affermarsi da regole inumane, che permettevano solo ai ricchi di giocare in gare storicamente valide. Allo Australian Open, in tv, si è visto non solo Laver, ma quel Ken Rosewall che, dopo un’assenza di 43 Grand Slam, vinse il primo titolo Open a Bournemouth nel 1968, e a 39 anni arrivò in finale a Wimbledon e ai Campionati Usa 1974. Allora, perché sorprendersi se Roger ha quasi fatto suo lo AUS Open, e Serena o Venus, liberate dalle imposizioni di Papà, decideranno personalmente chi vincerà il loro tardo Slam? Parliamo del match di Roger Federer, perché quelli delle Williams erano prevedibili non solo dai bookmakers, ma dalle condizioni delle avversarie, una Mirjana Lucic di ritorno da quindici anni di umane sofferenze, e con le gambe malconce, l’altra, Coco Vandeweghe, calmatasi dalle psicovittorie che l’avevano condotta in semifinale. Ho seguito la semi non meno attentamente dei commentatori, l’ex tennista Ocleppo, e Federico Ferrero. Erano anche loro un poco sorpresi, quanto me, non soltanto per il ritorno di Federer a 35 anni compiuti l’8 Agosto, ma per la disinvoltura con la quale aveva vinto i primi due set. Avevo appreso, dalla loro memoria, che lo svizzero meno vecchio, Wawrinka, aveva perduto 13 volte contro Roger sul cemento. Federer è stato in testa, non mi spingo a scrivere “ha dominato”, i primi due set, dopo aver annullato nel primo una palla break sul 5 pari, e chiuso con due Falchi in suo favore. Nel secondo il gioco non mutava, Roger abbreviava gli scambi, e Stan non poteva far altro che seguirlo, pur raggiungendo meno di lui la rete. Nel subire il break decisivo che lo condannava al 2-4, Stan spezzava addirittura la racchetta, avendo poi cura di riporla educatamente nella borsa. Nelle interviste che ho poi letto, non gli è stato chiesto se simile gesto l’avesse aiutato a porsi una domanda sulle proprie responsabilità, per quei due set perduti. Una visita al fisioterapista, nel terzo, pareva renderlo più sicuro delle proprie condizioni fisiche, propiziare il break nel quarto gioco, e sollevarlo al set con un parziale di 12 punti a 4 che prometteva bene per la sua rincorsa. Sebbene con maggiori complicazioni anche il quarto terminava a suo favore, con un finale, incluso il decisivo break nel nono game, di 8 punti a 2. Pareva, almeno a me, che il quinto avrebbe visto la conclusione dell’handicap iniziale, soprattutto per la richiesta di Federer di un Medical time out, una visita alla mutua che non pareva deporre in suo favore. Dice Federer, «La gamba operata al menisco mi aveva infastidito per tutto il match, e speravo che le manipolazioni mi avrebbero aiutato, e mi avrebbero consentito di sentirmi meglio. Ma non mi aiutarono, purtroppo». La visita lo aiutò invece, credo di poter dire, a interrompere il ritmo di Wawrinka, bloccato per alcuni minuti, e costretto a far ginnastica e corsette, sino al ritorno del Divo in campo. Un Wawrinka che avrebbe avuto sulla racchetta la palla di un possibile break per il 2-1, ma, dissolta quell’occasione, avrebbe presto subìto, dal V al VII game, una serie di 14 punti a 6, decisiva, mentre scoccavano le tre ore di gioco: tempo insolitamente breve, o limitatamente lungo, per un Five Set. Rimarrà certo tempo, dopo l’altra semi, tra il rinato Nadal e un Dimitrov appena nato, di riflettere se quello di oggi sia stato il match decisivo per il ritorno di Federer allo Slam, il suo 18esimo. In questo istante, mi pare di poter escludere l’affermazione del vincitore dell’altra semifinale, sia il vecchio o il giovine. A meno non intervengano circostanze imprevedibili per lo scriba, quali il pianto notturno dei gemelli.

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Che Federer! Torna la magia (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Tu non puoi morire, Roger. Il tuo potere è oltre ogni immaginazione, come un Highlander che ha attraversato i secoli spargendo talento infinito e infinita eleganza. Sono arrivati in 15.000 alla Rod Laver Arena, il solito record di affluenza quando tu appari: loro lo sapevano. O meglio, ardevano di speranza fin dal primo minuto di questi Australian Open rivoluzionari, perché sognavano il tuo ritorno regale. E Federer è di nuovo tra noi. Ma non l’eroe bastonato con la faccia sull’erba per una volta amarissima di Wimbledon nella semifinale persa a luglio contro Raonic, quando il ginocchio fece di nuovo crac e gli invase l’anima di dubbi tremendi. Quell’uomo impaurito è stato purificato da sei mesi di pausa a questo punto benedetti, un intervallo forzato che ci ha restituito un titano immortale. Roger è di nuovo in una finale Slam, la 28^ di una carriera senza più aggettivi. Ma stavolta è diverso. Non giocava una partita ufficiale da quel lugubre pomeriggio londinese, se si eccettua la sgambata della Hopman Cup, e in due settimane ha triturato tre top ten (Berdych, Nishikori e Wawrinka) come non gli accadeva dal 2010 (allora furono Davydenko, Tsonga e Murray), guarda caso l’ultima occasione in cui vinse il Major degli antipodi, vinto all’epilogo contro lo scozzese oggi numero uno. Corsi e ricorsi: anche Sampras, come lui qui, era testa di serie numero 17 agli Us Open 2002, conquistati quando ormai il pensiero comune lo dava in ciabatte e sotto il plaid; ancora, Roger non vinceva due partite al quinto in uno Slam dal 2009 (Del Potro e Haas), dal primo e unico Roland Garros lucidato per la vetrina di casa; e sempre in quell’anno, nell’ultima finale di un Major in cui si sono incrociate le sorelle Williams almeno fino a domani, Fed vinse il torneo, che poi era Wimbledon. Destino, magari, o forse bisogna affidarsi semplicemente alla verità che esce dalla bocca di Stan The Man, sconfitto dal Maestro per la 19^ volta su 22: «Sono deluso, ma succede quando affronti il più grande di tutti i tempi». Povero Wawrinka, sballottato per i due set iniziali e poi tignoso e reattivo ad approfittare nel terzo e nel quarto del primo, vero passaggio a vuoto di Roger nel torneo, infine colpito e affondato quando l’inerzia sembra sorridergli, con due palle break non sfruttate nel secondo e nel quarto game del quinto set, e l’altro che sornione gli strappa la battuta nel quinto game. Una sfida intensa più che bella, dove contano anche le minuzie psicologiche, come il time out medico chiesto da Federer a fine quarto set che fa il paio con quello di Stan alla fine del secondo: «Io penso che questi time out — ammette candido l’ex numero uno — siano più per aiutare la mente che altro. Per la prima volta durante il match puoi parlare con qualcuno, anche se è solo un fisioterapista. Onestamente non sono un gran sostenitore del fatto che ai tennisti sia permesso farlo, non mi piace abusare della cosa e spero che in futuro resterà così». Perdonato, per l’orizzonte di gloria e di mitologia che è stato capace di tratteggiare di nuovo: «Sì, è tutto vero, finalmente posso parlare di una finale. Ho cercato di schivare l’argomento per tutti questi giorni, pensando a un match per volta, e così sono arrivato all’ultimo appuntamento. A questo punto, lascerò tutto sul campo, ci metterò tutte le energie che mi sono rimaste, e anche se poi magari non potrò più camminare per altri cinque mesi, mi vedrete dare tutto quello che ho dentro». Non si vedeva un finalista più vecchio in Australia dal 1972, quando Rosewall vinse il torneo a 37 anni e 62 giorni, e il segreto di Roger (35 anni e 174 giorni) è nella testa: «Le cose sono andate molto meglio di quanto mi aspettassi, perciò potevo solo rilassarmi. E’ quello che mi sono detto all’inizio del quinto set e che mi sto ripetendo da quando il torneo è cominciato: non ho nulla da perdere. Quanto a Rosewall, è un uomo fantastico. Anche quest’anno mi ha scritto una lettera per augurarmi di fare bene». Intanto, il buon Dimitrov prova a convivere con la pesante cappa dell’incomodo fantasma, perché non c’è finale più desiderata di quella con Nadal. Perfino da Roger: «Quando sono andato ad inaugurare la sua Accademia, io camminavo su una gamba e lui aveva il polso fasciato, abbiamo fatto qualche scambio a mini tennis e ci siamo detti che ormai quello era il nostro destino. Rafa è un giocatore fantastico, ha recuperato da tantissimi infortuni, lo ha fatto sembrare facile. E’ stato magnifico per il tennis e capisco che grande importanza avrebbe una finale con lui. Sarebbe una battaglia epica». Di più: tra giganti.

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Infinito Federer: “In finale perché sono vecchio” (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

Uno che si chiama Roger Federer non può certo accontentarsi. «Certo, capisco che partita una finale con Nadal sarebbe epica», spiega quando ha appena frantumato in cinque set tutte le certezze di Stan Wawrinka e di chi lo pensava sempre bello da vedere ma un po’ sfilacciato mentalmente dopo sei mesi passati a fare il baby-sitter ai quattro gemellini. «Ho un grandissimo rispetto per Rafa, e sinceramente all’inizio del torneo nemmeno nel più folle dei miei sogni immaginavo di poter arrivare fin qui. Ma a questo punto conta solo vincere. Pur di riuscirci sono disposto a non camminare per cinque mesi». Federer è di nuovo in una finale Slam, un anno e mezzo dopo quella giocata e persa contro Novak Djokovic agli Us Open del 2015, quattro anni e mezzo dopo l’ultima che ha vinto, a Wimbledon 2012 contro Andy Murray. E’ la numero 28 di una carriera che ormai può essere solo descritta dai numeri e dai record. Federer ha compiuto 35 anni lo scorso agosto: è il più vecchio finalista di Slam da Ken Rosewall, che ne aveva 39 (e 10 mesi) quando perse da Connors agli Us Open del 1974. Oggi Roger capirà se domenica dovrà giocarsela contro l’avversario di sempre, il suo dioscuro Rafa Nadal, o contro Grigor Dimitrov, il replicante bulgaro che tutti chiamano baby-Federer, alla fine di un torneo che pare una piscina miracolosa, capace di rigenerare i fenomeni. Come nel caso delle sorelle Williams, 71 anni in due, arrivate in finale a 14 anni di distanza. Ci vorranno anni, per capire bene cosa è stato Roger Federer non solo per il tennis, ma per lo sport in generale. Cosa sono stati Nadal e le due pantere di Compton. Lo stop di sei mesi necessario a ricucirsi il menisco, operato dopo il crac proprio a Melbourne un anno fa, e poi di nuovo dolorante dopo la caduta a Wimbledon nella semifinale contro Raonic, sembrava averlo allontanato dal sogno di un 18esimo Slam. Il Djokovic e il Murray del 2016 trasmettevano un carisma più giovane, un tennis diverso, meno elegante ma più soffocante. Il Genio era anche scivolato fuori dai Top 10, addirittura a quota 17 del ranking. Ma quelle lunghe settimane di felice (per lui) naufragio familiare non lo hanno scollato dal tennis, anzi: lo hanno rigenerato, come in passato era già successo ad Agassi, all’ultimo Sampras, allo stesso Nadal. «Sia io sia Rafa ci siamo resi conto che per tomare al 100% dovevamo sentirci liberi nel corpo e nella mente». Nel torneo Federer era già sopravvissuto ad un test in cinque set con Nishikori, ieri ha staccato alla distanza “Stan the Man”, n. 4 del mondo, il campione degli UsOpen in carica. Per due set Wawrinka ha giocato in punta di nervi, nel terzo si è fatto anche medicare un ginocchio, ma è riuscito a riacciuffare il match. «A metà del quarto – racconta Federer – ho però sentito che il mio tennis svaniva. Capita: a volte le cose improvvisamente iniziano a girare male, e non sai neppure perché. Così quando siamo andati al quinto, Stan era sicuramente il favorito». Il fenomeno è uscito dal campo, si è fatto massaggiare l’adduttore da un fisioterapista. Nei primi turni ha dovuto salvare due palle break, pareva spacciato, poi qualcosa ha spinto di nuovo il match dalla parte di Federer. «Ho ritrovato le mie energie, la fiducia in me stesso. Ho ricominciato a giocare bene. Stan mi ha regalato un break facile (quello del 4-2; ndr) e da allora non mi sono più guardato indietro». Tutta la Rod Laver Arena, compreso il Laver in came e ossa, lo hanno spinto avanti. A Melbourne ha vinto quattro volte, l’ultima nel 2010, quando, sconfitto in cinque set, scoppiò in lacrime in mondovisione. I campi tornati velocissimi lo hanno aiutato ad arrivare alla sua sesta finale australiana, «perchè noi “vecchi” siamo più abituati a colpire d’istinto, senza pensarci troppo», spiega. «E’ dall’inizio del torneo che mi dico che non ho nulla da perdere. E sta funzionando». Provaci ancora una volta, Roger.

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Roger spavaldo in risposta, e il rovescio incide di più (Paolo Bertolucci, La Gazzetta dello Sport)

Anche dopo la lunga assenza, non avevamo il minimo dubbio sulle enormi qualità del braccio d’oro di Federer. Molti interrogativi, invece, sorgevano sulla possibile tenuta fisica nella lunga distanza, sulla capacità di concentrazione e sulla mancanza di stimoli. Inaspettatamente siamo rimasti folgorati da alcuni accorgimenti tecnici e dalla disponibilità nel rivedere le certezze tattiche accumulate negli anni. Il gioco spavaldo e sbarazzino elargito a piene mani in questo torneo è il frutto del grande entusiasmo messo nella preparazione e dell’umiltà nel recepire i segnali provenienti dalla carta d’identità. Al di là del servizio dove non si notano accorgimenti particolari, è nella ribattuta dove si scorgono i progressi più rilevanti. Riposto quasi definitivamente nel cassetto il taglio in back, Roger adesso affronta la palla con una decisione che rasenta la spavalderia. Non contento, per limitare il numero degli scambi e le faticose rincorse laterali, ha sposato una tattica votata all’attacco dove le verticalizzazioni hanno assunto un ruolo decisivo. Il dritto, ben supportato dal prezioso gioco di gambe, flirta con le righe a velocità molto sostenuta. Una consistente modifica si può notare sul lato sinistro dove, per rendere più sicure e incisive le sbracciate di rovescio, ha guadagnato mezzo metro in avanti al momento dell’impatto e spruzzato leggermente il top spin. Restano le esecuzioni volanti, dove il campione si diletta in esercizi di alta scuola.

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Ancora le Williams. Una storia infinita: “Il sogno ricomincia” (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Là dove tutto è iniziato. Dove il progetto di un padre folle e visionario, ma coraggioso e ferreo nei suoi convincimenti, prese forma fino a diventare un’epopea leggendaria. Fino a segnare un’epoca, l’epoca di Serena e Venus Williams. Un tempo infinito, da quella prima sfida del 1998 tra due ragazzine non ancora maggiorenni, che proprio al secondo turno degli Australian Open tastavano la stranezza di una sfida tutta in famiglia che replicava quelle sui campi sgangherati e pericolosi del ghetto di Compton o nel giardino della casa in Florida, mentre papà Richard, allora inascoltato, ripeteva a chiunque che le sue bambine sarebbero diventate la numero uno e la numero due del mondo. Un tempo senza fine più forte e più testardo perfino del destino, più tenace della morte che a fine 2010 ha flirtato con Serena, atterrata ma non sconfitta da una misteriosa embolia polmonare e poi della malattia diagnosticata a Venus a fine 2011, la Sindrome di Sjoegren che ti prosciuga tutta l’energia. Ecco, più che il ritorno nella stessa finale Slam per la nona volta delle due sorelle (la prima da Wimbledon 2009), il 28° capitolo del romanzo di due fenomeni che, al netto del loro valore assoluto, hanno cambiato la percezione tecnica e mentale del loro sport, è una pagina di volontà, di perseveranza, di talento messo a disposizione di un’inesauribile ambizione a non arrendersi di fronte a nulla. Per questo, l’analisi di Serena è disarmante nella sua semplicità: «E’ la migliore finale possibile, non importa cosa accadrà, sarà una vittoria per entrambe». Non potevano essere la bombardiera Vandeweghe oppure la straordinaria Lucic-Baroni, che ha straperso da Serena ma ha vinto il torneo più importante, quello della vita dopo un passato di violenze, a interrompere un viaggio che è ripartito. Venere non giocava una finale in un Major dal 2009, quella persa a Wimbledon contro la sorella e adesso è qui a deliziare la folla in delirio con un balletto sfrenato che esorcizza le ombre di quattro anni a remare per riemergere dalle onde del destino: «Nel mio cuore sono ancora la bambina che giocò quella partita di 19 anni fa a Melbourne. Ora la posta è molto alta, è un momento storico, ed è bello esserci. Anche nelle partite in cui perdo, so che comunque avrei avuto una possibilità. È tutto nella mia racchetta, mettermi nella posizione in cui voglio stare. Se sono qui è perché voglio esserci in un certo modo, non solo per gironzolare per il mondo». Il 23° Slam di Serena con la Graf finalmente staccata e il conseguente numero uno ritrovato o l’ottava meraviglia di Venus che non alza una coppa in un Major dal 2008? Le malelingue, ai tempi, sostenevano che il risultato tra di loro fosse già scritto da Richard a seconda delle convenienze, ma adesso il signor Williams è a migliaia di chilometri di distanza con la sua nuova famiglia e le sorelle hanno cementato un legame ancora più forte: «Quando ci affrontiamo, sappiamo che abbiamo di fronte l’avversaria più forte che ci potesse capitare». Con Serena che chiude il cerchio: «Lei non è soltanto mia sorella, lei è la mia vita, lei è tutto per me. Questo è un sogno che torna a realizzarsi, e cosa succederà non conta: una Williams sta per vincere il torneo». Una storia infinita.

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