Djokovic dopo Agassi cerca il tecnico full-time (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)
Ogni goccia di pioggia che cade è una lama infilata sotto pelle all’orgoglio nazionale e un po’ sciovinista di un paese intero. A Londra, dove gli scrosci estivi sono una tradizione consolidata come il té delle cinque, gli storici arcinemici inglesi un tetto sul Centrale lo hanno messo nel 2009, mentre gli australiani, laggiù nell’altro mondo, ce l’hanno da quasi trent’anni e adesso è perfino triplicato. Invece qui a Parigi, se la coda della primavera fa le bizze, bisogna ancora aspettare che il cielo la mandi buona. Insopportabile, per la grandeur, ma fortunatamente con una scadenza: la copertura dello Chatrier, dopo anni di polemiche e di referendum respingenti, sarà pronta per il 2020.
Nel frattempo, si consumano le solite litanie di una giornata bagnata, con sospensioni, teloni messi e tolti, annunci di ritardi e i giocatori che nella lounge attendono pazienti un match che non verrà mai. Djokovic e Nadal, infatti, apprendono ufficialmente alle sei del pomeriggio che saranno rinviati a oggi e chissà se nelle more Note ne avrà approfittato per telefonare, come ha fatto fino a un mese fa con Agassi, a chi possa affrancarlo nel delicato ruolo di coach. Già, lo schema che il numero due del mondo ha in testa è quello che riprodurrebbe il binomio Becker-Vajda del triennio dei successi più esaltanti: Andre consulente, consigliere e motivatore affiancato da un allenatore più di campo. Il Djoker ne ha parlato alla stampa serba: «Agassi non ha sempre tempo per me. Insieme a lui cerchiamo un altro ex tennista, più giovane, più presente, più capace di trasferire energie positive». Caccia aperta, dunque, mentre il piccolo di casa Stefan comincia ad assaporare le gioie di una vita in viaggio: «Bello portarlo in giro qui a Parigi. Siamo andati al museo di Scoria naturale, lui è rimasto affascinato dagli animali. E anche sulla Tour Eiffel era tutto eccitato. Quando eravamo in cima voleva guardare la città al telescopio, ma non avevo un euro… Gli ho dovuto dire che era rotto! Il nome del nostro secondo erede? Io e Jelena non l’abbiamo ancora deciso».
A casa Nadal, invece, tutto è già stato programmato, tanto che l’uscita di Toni dal team per occuparsi dell’Accademia, prevista per gennaio, sembra addirittura aver fornito motivazioni extra al nipote, da sei mesi affiancato da Moya proprio per gestire il passaggio. Lo zio coach, l’uomo che ha preso un bambinetto di tre anni sottraendolo al caldo e lo ha portato a vincere 14 Slam (record per un allenatore di un solo giocatore, meglio di Bergelin e gli 11 con Borg), è convinto che non ci saranno traumi: «Rafe conosce un solo verbo, vincere. Perciò anche senza di me continuerà a fare ciò che ha sempre fatto, cioè provare a conquistare il maggior numero di titoli possibile». E siccome il rispetto dei ruoli e la gerarchia sono state le chiavi di un favoloso successo più che decennale, a inizio anno Toni, malgrado sapesse di essere diventato transitorio, le ha cantate chiare a Rafa, spiegandogli che per tornare ai vertici doveva migliorare in due aspetti: l’attitudine mentale e il dritto.
Ora, se esiste un colpo che marcherà per sempre la storia del tennis, è il suo gancio mancino che ha aperto milioni di ferite nel cuore degli avversari. Eppure anche Moya, non appena ingaggiato, ha concentrato le attenzioni, e Nadal si è prontamente adeguato: «Non sono stupido né arrogante, se due persone così importanti per me mi dicono che il dritto può funzionare meglio, lavoro per ottenere risultati migliori. Nel 2015 non ero in fiducia, non avevo il controllo del mio gioco, perciò su quel colpo ero davvero in difficoltà. E poi ci si è messo l’infortunio al polso. L’inizio di stagione rappresenta perciò la sublimazione delle idee di Carlos: «Il dritto resta molto importante: forse la palla non rimbalza alta come un tempo ma stiamo cercando di imprimere più velocità. Il difficile è stato convincerlo a allenarsi di meno, ma io preferisco sessioni di allenamento brevi e specifiche. Perché adesso la priorità è rimanere fresco e a volte è più importante cosa fai fuori dal campo piuttosto che quello che fai dentro (…)
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Le tenniste clonate col doppio passaporto e dal rovescio bimane (Gianni Clerici, La Repubblica)
Un collega australiano ha proposto una colletta per aiutare i poveri francesi a costruire finalmente un campo coperto, a Melbourne esistente dal 1988, da quando abbandonammo l’amato Kooyong, il posto delle anatre in aborigeno, e ci trasferimmo in centro, dove una stazione ferroviaria si rimpiccioliva. Quel figlio di un paese che funziona, ignorava forse che, in Francia, troppi interessi ostavano a una decisione, prima tra tutte la giusta protezione delle Serre del Jardin des Plantes, che dall’ottocento crescono felici, ignare del progresso. Così si sono visti dapprima tre progetti per Versailles, Eurodisney e il vicino aeroporto di Le Bourget, poi il sindaco di Parigi Anne Hidalgo ha favorito l’ampliamento del vecchio stadio, i comitati di quartiere si sono opposti, infine è in corso la costruzione di uno stadietto detto Le Fonds des Princes, e nel 2020 avremo alfine il tetto sullo Chatrier.
Tutto ciò non poteva non ricordarmi l’incontro che ebbi con l’assessore che vietò il tetto romano del Foro Italico, un genio che mi assicurò di non essere responsabile della copertura dell’Olimpico. Mal comune, doppio gaudio. Detto ciò, tra una ventata e uno scroscio, mi è parso di trovarmi in una regata, spesso sospesa per i soffi oltre i venti nodi. Tra le quattro ragazze che hanno occupato i Centrali tra uno scroscio e un acquazzone ho notato due caratteristiche comuni. Il rovescio bimane, ormai tanto affermato che è vietato non farlo e, meno frequente, il fenomeno di scegliere un passaporto più vantaggioso della originaria etnia dei genitori.
Infatti la applauditissima francese Mladenovic ha papà e mamma serbi, ex campioni di handball. La sua avversaria svizzera Bacsinszky ha i genitori ungheresi. La Wozniacki, nel 2010 insolita numero 1 del mondo senza vincere uno Slam, è danese con papà e mamma campioni di caldo e pallamano della Polonia. Infine la Ostapenko è la sola a non aver scambiato il suo passaporto lettone con quello di un paese più ricco. Simili caratteristiche potrebbero condurre a credere all’esistenza di un’Europa felicemente priva di nazioni, se non di regioni. Un’Europa che si chiamasse Stati Uniti d’Europa, senza bisogno di racchette (…)
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In attesa di Djokovic vs Thiem (Claudio Giua, repubblica.it)
Come – credo – molti altri, ho bisogno di stupirmi, altrimenti rischio d’annoiarmi. Se i quarti di finale di uno Slam propongono Murray vs. Nishikori, Wawrinka vs. Cilic, Nadal vs Carreno Busta e Djokovic vs. Thiem, lo spettacolo è assicurato ma può succedere come quando Sky Cinema dà per una settimana tutti i film di 007 o l’intera saga di Guerre Stellari: tanto divertimento, poche emozioni. Spero di sbagliarmi.
Sono state sbrigate le restanti pratiche degli ottavi del Roland Garros. Solo il match tra il giapponese e il veterano della Grande y Felicisima Armada impropriamente detta “Invencible”, Fernando Verdasco, ha avuto bisogno di un quarto set (0-6 6-4 6-4 6-0). Tuttavia, né questo né il confronto a braccia piene che ha avuto come protagonisti Stan Wawrinka e Gael Monfils sono stati impegni leggeri per i diretti interessati. Lo svizzero ha dovuto penare per oltre due ore prima di stroncare la resistenza dell’avversario, sostenuto dal pubblico amico (7-5 7-6 6-2). Meno combattuto il passaggio di turno da parte di Andy Murray, finalmente determinato e concentrato (6-3 6-4 6-4). Irrisorio il dispendio di fatica di Marin Cilic, che dopo tre quarti d’ora, quand’era avanti per 6-3 3-0, ha incassato il ritiro di Ken Anderson per infortunio.
Ho seguito con curiosità anche oggi Karen Khachanov, all’esordio contro lo scozzese numero 1 al mondo: un impegno all’altezza dell’ambizioso ragazzo russo, di cui ho scritto nei giorni scorsi. Consapevole delle qualità fisiche e tecniche del più in forma tra i Next Gen, Murray ne ha messo in evidenza le qualità fisiche e tecniche: contro giocatori così, che alle botte replicano con botte più violente, lo scozzese s’esalta. Karen però ancora non lo sa, anche perché non legge i tweet di Michele Pascolini che in diretta nota: “Qualcuno dovrebbe dire a Khachanov che tirare fortissimo non è la tattica giusta con Murray: si risveglia il leone!”. Per ora i nove anni di esperienza a favore di Andy fanno la differenza, ma il ragazzone moscovita – 198 centimetri come Juan Martin del Potro, del quale possiede la stessa mobilità innaturalmente leggera – è il futuro.
Con il suo exploit parigino, Khachanov si candida tra la cinquina dei più talentuosi e affidabili ventenni, o di poco più anziani. Come accadde con Nadal e Djokovic in tempi ormai lontani, è la stagione sulla terra rossa a indicare i protagonisti dei prossimi anni in Dominic Thiem che fa sempre tanta strada nei tornei, in Alexander “Sascha” Zverev che ha stupito a Roma, in Borna Coric che scalda il motore, In Hyeon Chiung in crescita esplosiva. Più Khachanov, appunto. Li troveremo tutti tra i Top Ten tra due o tre anni d’anni. Thiem e Zverev già ci stanno. La spiegazione tecnica c’è: la terra esalta il tennis che accoppia la potenza alla qualità del toccco più di quanto non lo facciano l’hard o l’erba. Chi gioca bene sulla terra ha qualche chance in più di fare strada.
Vedremo di nuovo in campo l’unico nato negli anni novanta (Nishikori ha fallito l’ultimo decennio del millennio, per colpa della madre, di solo 48 ore: è nato il 29 dicembre 1989) degli otto approdati ai quarti di finale: Thiem, classe 1993, numero 7 ATP dopo la serie di risultati positivi della primavera. Il match tra l’austriaco e il numero 2 ATP Novak Djokovic è di gran lunga il più incerto del programma e servirà a testare entrambi (…)
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La Coppa Davis fa la rivoluzione, ma ai grandi non piace ancora (Stefano Semeraro, La Stampa)
L’Italia dovrà aspettare ancora un mese per sapere se dal 2018 al 2020 ospiterà le finali di Fed Cup e Coppa Davis – Torino è fra la candidate insieme a Vienna, Miami, Sochi, Abu Dhabi, Ginevra e una città australiana ancora segreta – ma il mondo del tennis può già rassegnarsi (o gioire, fate voi): la Coppa Davis cambierà formato. La riunione del board dei direttori dell’Itf, la Federazione internazionale, che si è tenuta ieri in una Parigi in allarme per il pericolo terrorismo, ha infatti approvato la rivoluzione. Le finali dei due campionati mondiali a squadre si terranno in sede unica e fissa, la Davis manterrà i tre giorni di competizione ma i singolari verranno disputati al meglio dei tre set, mentre solo il doppio resterà sulla distanza tradizionale dei tre set su cinque. Inoltre il vincitore avrà il diritto di giocare comunque in casa il primo turno dell’anno successivo, e in programma c’è anche l’abolizione dei match a risultato acquisito.
Tutte decisioni che dovranno essere ratificate dall’annuale assemblea generale dell’Itf, in programma dall’1 al 4 agosto ad Ho-Chi-Minh City, in Vietnam; ma a questo punto dovrebbe trattarsi di un atto dovuto. Meno sicuro che si tratti di un atto gradito. La vecchia Zuppiera (anno di nascita: 1900) sarà magari un po’ ossidata e polverosa; negli ultimi anni è stata spesso snobbata a turno – dai miglior del mondo (che la giocano quando gli conviene) ma fino ad oggi ha mantenuto una sua rispettabile stabilità, e il fascino un po’ selvaggio degli incontri in casa e in trasferta. Accorciare i match, annullando l’epica che da sempre accompagna gli incontri di Coppa, e stabilire a priori la sede della finale può rendere le cose più facili agli organizzatori, ma rischia di snaturare lo spirito di una gara che ha sempre vissuto sul calore dell’ambiente. Con il pericolo di trasformarla in un evento freddo, magari gradito alle televisioni ma poco trascinante. Trattasi fra l’altro di una scelta non condivisa dai giocatori, che semmai ritengono l’attuale calendario della Coppa troppo invasivo e avrebbero preferito ridurre da quattro a tre i turni del tabellone principale.
Novak Djokovic, ad esempio, aveva proposto di disputarla ogni due anni, mentre per Rafa Nadal la si potrebbe spalmare nell’arco di due stagioni, primo turno e quarti in un anno, semifinali e finale l’anno successivo: «non è una questione di accorciare i match, ma di rendere la Davis più comoda da giocare per i migliori giocatori. È una gara molto bella ed emozionante, ma se i più forti non la giocano rischia di essere svalutata». Non sono insomma la sede fissa e la riduzione dei numero dei set a poter incoraggiare la partecipazione dei big, anche perché le ragioni più frequenti del disamore sono altre: la citata fatica di conciliare gli impegni della nazionale e quelli dei tornei, e/o un rapporto conflittuale con la propria federazione nazionale (…)