Wimbledon è assicurato contro la pandemia, ma gli altri tornei rischiano di non sopravvivere

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Wimbledon è assicurato contro la pandemia, ma gli altri tornei rischiano di non sopravvivere

Il ‘The Times’ e il ‘New York Times’ lo danno per certo, ed è uno dei pochissimi tornei ad averla stipulata. Questo rende meno amara la cancellazione. Ma cosa può accadere ai tornei più piccoli?

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Vista sul centrale di Wimbledon (foto Gianni Ciaccia)
 

Nella giornata di mercoledì – nessun pesce d’aprile purtroppo, tutto vero – è stata disposta una nuova sospensione dei due circuiti fino al 13 luglio, ma soprattutto è arrivata la decisione del Board of Governors di Wimbledon che ha cancellato l’edizione 2020 dello Slam londinese. Un turbamento che la quiete dei Championships non accusava dall’ultima edizione saltata a causa della guerra, quella del 1945. Ma ad attutire questa caduta sembra esserci un materasso di cui la maggior parte dei tornei non dispone.

Secondo il New York Times – in un articolo firmato da Christopher Clarey – e il The Times – la penna è quella di Stuart Fraser, non meno attendibile – lo Slam londinese è uno dei pochi tornei del circuito ad essere dotato di un’assicurazione completa che copre anche le pandemie (ecco la risposta alla curiosità espressa da Jon Wertheim). Va da sé che si tratta anche di uno dei pochi che poteva permettersi di stipularla: secondo le stime diffuse da Clarey, il premio annuale di una polizza contro l’annullamento è compreso tra i 200.000 e i 700.000 dollari con oscillazioni che dipendono dagli incassi – e dunque dalla caratura del torneo.

Eh, ma quanto incassa un torneo? Partiamo dagli Slam. Secondo Forbes, nel 2017 Wimbledon ha generato introiti per circa 289 milioni di dollari (americani), mentre lo US Open ne ha incassati 335 stra-vincendo la partita sul fronte del ticketing (120 milioni a 47). Sono dati piuttosto attendibili che vanno comunque interpretati con il dovuto margine di errore, mentre sull’Australian Open possiamo essere precisi al centesimo: Tennis Australia pubblica un report di oltre cento pagine dettagliando la situazione finanziaria del torneo. L’ultimo disponibile si riferisce all’edizione 2019 e denuncia un incasso complessivo di 373,591,596 dollari australiani, che al cambio attuale sono circa 229 milioni americani. Il Roland Garros si inserisce tra le cifre dell’Australian Open (lo Slam più ‘povero’, nonostante venda più biglietti di tutti) e quelle di Wimbledon.

Si consideri che gli Slam sono eventi molto in salute e incassano sempre più dell’anno precedente (lo testimonia il continuo aumento dei montepremi), dunque è opportuno comparare le cifre della stessa stagione. Un buon confronto è offerto dal grafico di statista.com che si riferisce alle edizioni 2015 dei quattro Major e conferma la classifica prima anticipata – US Open in testa, Aus Open in coda, in mezzo i due Slam europei – oltre a delineare una revenue media di 218 milioni per Slam,

Gli incassi dei quattro Slam nel 2015 (fonte Statista.com)

Questa media è sicuramente cresciuta. Di quanto? L’Australian Open (dato certo) ha fatto segnare un +31% in quattro anni, US Open e Wimbledon 2017 sono cresciuti rispettivamente del 9,8% e del 6,5% soltanto tra 2016 e 2017. È molto improbabile che l’aumento quadriennale sia stato inferiore al 25%, dunque si può ipotizzare che la revenue media degli Slam nel 2019 si sia aggirata tra i 250 e i 300 milioni di dollari.

Da qui, estrapolare il guadagno netto è piuttosto semplice per l’Australian Open che lo segnala a chiare lettere – nel 2019 il torneo ha intascato 6,5 milioni (circa l’1,7% degli incassi) – e per Wimbledon. Il The Times scrive che lo Slam londinese ha un surplus annuale di circa 50-55 milioni di dollari, il 90% del quale viene girato alla Lawn Tennis Association sulla base di un accordo stipulato con l’All England Lawn Tennis and Crocquet Club e valido fino al 2053. L’ultimo bilancio disponibile di LTA, quello del 2018, segnala in effetti 36,7 milioni di sterline provenienti dai Championships e da cui possiamo derivare il surplus della penultima edizione di Wimbledon: circa 51 milioni di dollari al cambio attuale. Nonostante nel 2014 lo Slam londinese venisse segnalato come quello in grado di ‘profittare’ di più (ma non possiamo essere certi che oggi accada lo stesso), la sproporzione con Melbourne appare davvero molto evidente.

Scendiamo adesso di categoria, analizzando gli incassi degli altri tornei del circuito.

Bill Oakes, ex direttore del torneo di Winston-Salem e chairman del gruppo che rappresenta gli interessi degli ATP 250, ha detto (sempre al New York Times) che i Masters 1000 vantano un profitto di circa 6 milioni/edizione.

A primo impatto colpisce subito lo scarto minimo con il surplus dichiarato dall’Australian Open. Ci sono due considerazioni che possono aiutare a contestualizzare il dato. I 1000 non sono tutti uguali, e quella media è verosimilmente portata in alto da Indian Wells (soprattutto) e Miami, i cui margini di profitto sono più vicini a quelli degli Slam che agli altri tornei di categoria. In seconda battuta, i 6,5 milioni di Melbourne appaiono una stima molto ‘severa’: il report australiano è incentrato quasi esclusivamente sulle attività finanziarie dello Slam e i contributi garantiti del governo (ben 8,5 milioni) costituiscono ad esempio voce a parte, non conteggiata nella revenue complessiva. Consultando il bilancio preventivo FIT 2019, che appunto pertiene all’intera attività federale stagione, si può dedurre che gli Internazionali d’Italia e le Next Gen Finals (alla voce ‘manifestazioni internazionali’) generano un surplus di circa 4,8 milioni, ma è difficile identificare eventuali spese relative all’organizzazione dei tornei eppure inglobate in altre voci di bilancio. Senza contare che parliamo di paesi diversi con regimi fiscali differenti.

Scendiamo ancora di categoria. Oakes dichiara che il surplus degli ATP 500 supera di poco il milione e quello degli ATP 250 (quando c’è, come vedremo tra poco) si ferma a circa 125000 dollari, con un budget operativo di circa 4 milioni. Bob Moran, direttore del WTA di Charleston, ha confermato che i margini sono simili nei tornei femminili.

Questo quadro restituisce già a sufficienza la difficoltà (per non dire l’impossibilità) per un torneo medio-piccolo di stipulare una polizza assicurativa. Ulteriori indicazioni arrivano dalle parole di
Edwin Weindorfer, CEO di e|motion, ovvero la compagnia di management sportivo che organizza il torneo maschile di Stoccarda e quest’anno avrebbe dovuto organizzare anche le new entry di Berlino (donne) e Maiorca (uomini, per il quale Weindorfer ha specificato che si tenterà l’impervia strada del rinvio): “Siamo assicurati contro terremoti e atti di terrorismo, ma che io sappia nessun torneo è assicurato contro la specifica evenienza del virus, dunque l’assicurazione non può aiutarci“.

Il torneo di Stoccarda è privo di un’assicurazione che copra la pandemia, come quasi tutti

Nel tragico scenario complessivo, Wimbledon sembra invece avere questo paracadute. Cadrà e si farà male, come tutti i tornei che non si disputeranno quest’anno, ma avrà più margine per rialzarsi e forse proprio per questo ha preso con largo anticipo la decisione di cancellare. La fragilità dei ciuffi di Perennial Ryegrass, la varietà d’erba di cui sono fatti i campi di Church Road, non consente di giocare quando le temperature sono troppo rigide e in questa finestra temporale (diciamo entro fine agosto) Wimbledon non ha ricevuto alcuna garanzia di poter giocare a porte aperte. E dunque si è fatto da parte, contando su quel margine di cui sopra.

Il margine, però, diventa progressivamente più risicato se si scende ai Masters 1000 meno ricchi, agli ATP 500 e soprattutto ai 250. Oakes dice chiaramente che ogni torneo dovrebbe preoccuparsi per questa situazione, e corrobora la scelta di Wimbledon sottolineando che cancellare un evento con maggiore preavviso aiuta a contenere le perdite. Dalla valutazione di questo precario equilibrio nasce dunque l’azzardo – che potrebbe anche pagare – di alcuni tornei, come gli Internazionali d’Italia, che non si sono ancora arresi e vogliono provare a giocare comunque quest’anno.

Per alcune manifestazioni, riuscire a giocare potrebbe costituire il discrimine per rimanere in vita. Se infatti nel 2018, stagione regolarmente disputata, l’impressionante quota di tredici ATP 250 su quaranta ha chiuso il bilancio in rosso, l’ipotesi che nel 2020 questo rapporto si trasformi in un bagno di sangue è molto più di una ipotesi. L’organizzatore di qualche torneo già in difficoltà economica prima della pandemia potrebbe decidere di pigiare l’unico bottone rosso disponibile sulla scrivania: vendere la licenza del torneo e salvare il salvabile. Per quella di un ATP 250 se ne può ricavare una cifra compresa tra un milione e dieci milioni di euro, scrive Clarey.

Insomma, secondo diversi modelli di studio il coronavirus avrà un impatto duraturo sulla nostra vita quotidiana, sulle nostre abitudini e sul modo di rapportarci agli altri. I calendari ufficiali di ATP e WTA potrebbero non fare eccezione, e non è detto che un eventuale repulisti di cui le due associazioni dovessero farsi promotrici – per quanto crudele – non possa giovare alla salute dei due circuiti probabilmente troppo pieni di eventi. E non tutti così sostenibili.

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