Game, set, Clerici (Cresto-Dina). Ma come dongiovanni vincevo io (Carotenuto). I novant'anni di Gianni Clerici dal Grande Tennis a Orwell (Lobasso)

Rassegna stampa

Game, set, Clerici (Cresto-Dina). Ma come dongiovanni vincevo io (Carotenuto). I novant’anni di Gianni Clerici dal Grande Tennis a Orwell (Lobasso)

La rassegna stampa di venerdì 24 luglio 2020

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Game, set, Clerici (Dario Cresto-Dina, La Repubblica – Venerdì)

Ci giocò nel 1953, di anni ne aveva ventitré, fu sconfitto da un avversario che sul mare e sul rosso della Costa Azzurra aveva sempre battuto. «Primo turno sul campo numero 16, quattro spettatori e due spie titine. Ho perso con Stefan Laslo, jugoslavo che se la passava male sotto il regime di Tito. Era sorvegliato anche negli spogliatoi, temevano disertasse e chiedesse asilo all’Inghilterra. Posso dire che quella volta mi ha fregato l’altruismo». Per affermarsi davvero a livello internazionale gli mancavano un dritto che fa male, i punti vincenti e la cattiveria nel sangue. Cominciò allora a intuire precocemente che del tennis giocato doveva scrivere e che in quella professione forse sarebbe diventato un autentico campione. Crebbe un fuoriclasse. L’anno dopo da Wimbledon raccontò la sua prima finale sulle pagine della Gazzetta dello Sport e descrisse con questa pennellata la faccia forestiera dell’esule cecoslovacco Jaroslaw Drobny subito dopo la vittoria sull’australiano Ken Rosewall: «Ha il sorriso profondo di un santo sulla bocca chiusa». Gianni Brera, Gianni Clerici, Gianni Mura, Mario Fossati: sono stati i quattro moschettieri del giornalismo sportivo lombardo. Cronisti e scrittori,non sapresti dire dove finiva un mestiere e ne cominciava un altro. Domando a Clerici quando si è reso conto di trasformarsi in un tipo speciale nel picchiettare con le dita su una macchina da scrivere. «Quando me lo dissero Soldati e Bassani» risponde «e anche Attilio Bertolucci e Oreste Del Buono, che mi pubblicò quando nessuno mi voleva». Gianni Brera lo portava allo stadio della Juventus, e lui di calcio fingeva di capire poco o nulla perché in verità lo trovava di scarso interesse, noiosissimo e anche un po’ volgare. Brera scriveva anche di atletica e pugilato, discipline che gli parvero subito più nobili, e sempre Brera lo presentò a Mario Soldati, il quale lo adottò dal punto di vista letterario. Con Giorgio Bassani si accompagnava invece al Foro Italico. Bassani era una enciclopedia vivente del tennis. Conosceva giocatori, risultati storici, numeri cabalistici, da fare invidia a Rino Tommasi: «Avrebbe dovuto scriverci su, sarebbe stato persino migliore di me». Quando un ventenne Adriano Panatta buttò giù dal trono nazionale il trentasettenne Nicola Pietrangeli, Bassani commentò la notizia con un epitaffio: «Vedi Gianni, oggi se ne va tutto il nostro passato». Da più di un anno Clerici ha smesso di viaggiare, si è ritirato nella villa di campagna, sotto Brunate, al riparo di un bosco. Durante le lunghe giornate si riposa volentieri nella poltrona vicino al telefono fisso. Lo chiamano in tanti: antichi amici, colleghi delle redazioni, compresi i giovani che non lo hanno conosciuto ma continuano a leggerlo per imparare e ai quali si affeziona. A nessuno è consentito di venirlo a trovare, mia moglie, spiega lui, è terrorizzata dal coronavirus. Possono i figli. Luigi, che amministra le proprietà di famiglia, e Carlotta, scrittrice anch’essa e autrice teatrale, parigina d’adozione ormai da mezza vita. Il vuoto intorno si allarga come una macchia d’olio, occupa uno spazio sempre più vasto. «Alla mia età il tempo trascorre lentamente come fa soltanto quando non succede niente» dice, «ma nei ricordi tutto si è fatto breve. La memoria è una scintilla che si accende solo quando vuole lei». A novant’anni, li compie oggi, le parole si asciugano, le frasi si accorciano. «Capita addirittura che non le trovi più. Lo hai visto no? quando se n’è andato Gianni Mura, sul giornale sono riuscito a ricordarlo in cinque righe appena: “Gianni ha raccontato il Tour de France come Stendhal aveva raccontato l’Italia e ci ha lasciato una lista di sostantivi che andrebbero raccolti ci fosse ancora Maria Corti all’università di Pavia”». Nel giorno dell’addio a Mura, Clerici ha consegnato una confessione ai suoi lettori, ha svelato senza imbarazzo di essere stato colpito da un ictus e che non gli restavano più lacrime per piangere. «Non sono di buon umore neppure adesso, ma i medici mi assicurano che guarirò e riprenderò a camminare. Devo rieducare il lato destro del corpo, faccio ginnastica, meccanica di riparazione, manovre di scrittura. Sono per una metà tornato un neonato e per l’altra metà un atleta. E pensare che li immaginavo rotondi, quasi morbidi i miei novant’anni. Sono invece spigolosi, acuminati come ferri da calza. La vecchiaia porta unicamente con sé il senso della perdita. La perdita di troppe cose. Un giorno ti svegli e non sai più fare un gesto che hai compiuto prima di allora milioni e milioni di volte: chiudere l’ultimo bottone al collo della camicia, annodare la cravatta, allacciare una stringa. Il tempo non regala nulla, neppure la saggezza. È una continua ineludibile sottrazione.Tre sono le pene più grandi con cui ci affligge: la prestanza fisica che se ne va, la deambulazione che diventa periclitante e il sesso che si trasforma in rinuncia». […] Non ricordo, dice, sono smemorato dal giorno dell’ictus. Perdonatemi. Non riesce a rinverdire i contorni netti delle immagini d’infanzia, gli pare di rammentare che la sua prima lettura fu un libro di Walt Disney, poi molto dopo arrivarono i suoi autori preferiti: Dante, Jack London, Hemingway, Orwell, Evelyn Waugh. «Papà vendeva carburante, era un’industria redditizia. La mamma, come quasi tutte le mogli borghesi di quell’epoca, stava in casa. Io passavo il tempo libero tra i libri. Sono stato educato senza sciagure, mi hanno insegnato a essere corretto. Non rubare, non dire il falso, non pronunciare il nome di Dio invano. Il timbro morale di un famiglia perbene. Niente di più. E non mi hanno mai consegnato a un destino. Vai dove ti portano i desideri, questomi hanno fatto capire. Devo riconoscere che ho potuto permettermelo». Dice: oggi un desiderio ce l’ho ancora, vorrei poter tornare sulla spiaggia di Alassio degli anni Trenta, rituffarmi in quel mare una seconda volta e provare la gioia di allora e il cuore in gola. […] La prima cronaca di un incontro la dedicò a Augusto Rado. «Era un omino leggerissimo quanto veloce, con un tocco da illusionista. Fu sfortunato, un malore lo colpì tra capo e collo e lo costrinse a giocare solo di rovescio, credo sia stato l’unico al mondo capace di mantenersi dignitosamente in prima categoria nonostante un simile handicap. Oggi posso ben dire che ho avuto il giornalismo che desideravo. Ho rifiutato sempre le grandi occasioni. E non per codardia, anche se Calamandrei sosteneva che gli italiani sono un popolo di vigliacchi. Ho viaggiato molto per il mondo e posso garantire che in questo campo, la viltà, siamo in buona compagnia». Ha stretto con i denti il suo orgoglio fino a quando ha potuto snobbare la realtà: «Tilden, Laver e forse pure Rosewall sono stati meglio di Federer». Salvo poi abbandonarlo con candore: «Mi devo ricredere, Roger è immortale». Ha comprato quadri e preziose antichità fino a diventare egli stesso un’opera d’arte nella Hall of fame del tennis. Unico italiano con Pietrangeli. Ha seguito la politica con aristocratica comprensione e responsabile distacco. Ha sempre votato da una parte sola: «Sinistra, radicali, socialisti e verdi. Ho conosciuto personalmente Alcide De Gasperi, Giuliano Amato, discreto tennista, e Marco Pannella. Sono stato ospite a casa dellaThatcher. Credo nel buon politico come credo in Dio. È difficile essere sicuri della sua esistenza. Ma in caso di giudizio universale mi candido all’assoluzione, non sono stato altro che un piccolo peccatore. Penso spesso a ciò che ha scritto Agassi: c’è tanta pace nel prendersi cura delle persone. Lui lo fa. Io, forse, me ne sono reso conto un po’ tardi e ora temo non mi resti tempo a sufficienza per rimediare. Ho deciso in autonomia quel poco che la vita mi ha concesso di decidere. Studiando storia delle religioni ho trovato una risposta comune sull’esistenza dell’aldilà: verremo esaminati come studenti alla maturità, dopo saremo accolti o respinti. Mi piace illudermi che sarà così, anzi, la ritengo una opzione molto probabile e alla quale, perché no? ci si può affidare come estrema consolazione rispetto all’angoscia per tutto ciò che ci lasciamo dietro. Oggi, ti confesso, sarei pronto a morire». […]

Ma come dongiovanni vincevo io (Angelo Carotenuto, La Repubblica – Venerdì)

Nicola Pietrangeli dice che del suo vecchio amico non si stancherebbe mai di parlare. «La vita è divisa a spicchi e nel suo spicchio Gianni Clerici è un genio». Hanno fatto insieme un tratto di strada lungo ormai 70 anni. «Ci siamo conosciuti a un torneo ai Parioli, sarà stato il 1952 o il 1953. Lui era un tennista classificato di Prima Categoria, io un diciannovenne o ventenne di Seconda, e questo qui più grande di me di tre anni mi batte con un punteggio tipo 6-3 6-4. Ecco, così ci siamo incontrati. Da avversari. Per poi diventare amici. Credo che fra me e Gianni non ci sia mai stato un solo momento di tensione o di asprezza. Mai una discussione. Come giocatore Gianni aveva uno stile bellissimo, nulla a che vedere con queste bestie che girano oggi sui campi. Non credo che si offenderà se dirò che non era un grande giocatore. Forse è stato migliore come doppista che come singolarista. Il Clerici giocatore è del tutto coerente con il giornalista e con la persona. Faceva della piacevolezza la sua caratteristica principale. Un giocatore gentile. Non un picchiatore. Non mi viene in mente un contemporaneo a cui possa assomigliare. L’unico accostamento possibile è con Marcello Del Bello, un tennista romano che nel 1948 arrivò a giocare i quarti di finale al Roland Garros».

Poteva avere una carriera migliore?

Ha giocato per divertimento. Per essere uno che lo faceva per diletto, Gianni è arrivato a giocare un Roland Garros e un torneo di Wimbledon. Direi che la carriera l’ha fatta. Ma a lui interessava altro. Credo che perfino durante gli interessasse il dopo. Voleva scrivere, il tennis voleva raccontarlo. Il tennis raccontato da lui non è mai ruffiano. Sempre obiettivo. Un racconto libero. Perché lui è libero. Non ha mai avuto bisogno di nessuno. Ha scritto almeno due libri, “500 anni di tennis” e “Divina” su Suzanne Lenglen, che fra due secoli saranno ancora consultati per sapere com’è che andavano le cose nel nostro sport. Quelli sono capolavori. Non romanzetti. come “I gesti bianchi”. Sa perché l’ha scritto? Legga le prime trenta pagine, ma bastano anche le prime venti. L’ha scritto per far vedere che rispetto a me lui c’aveva più donne.

Ne aveva di più?

Così dice lui. Gli è sempre piaciuto passare per un dongiovanni più di me. Onestamente, mi ascolti, non c’era partita. […]

È stato difficile restare amici nel rispetto dei ruoli? Lui giornalista, lei prima giocatore, poi capitano della Nazionale di Davis.

Siamo sempre rimasti noi stessi. Nei momenti in cui ho avuto dei problemi, mi ha sempre difeso. Non credo l’abbia fatto per amicizia o per partito preso. Io non sono la bocca della verità, né credo di aver avuto sempre ragione, ma siamo sempre stati in sintonia e me lo sono sempre trovato al mio fianco. Se sono nella Hall of Fame del tennis lo devo a lui. Per il 50 percento è merito delle mie vittorie, per l’altro 50 percento delle sue pressioni sul comitato. Gianni era molto amico di Bud Collins, giornalista americano assai influente. Ha molto spinto perché io entrassi. Ancora oggi siamo i soli due italiani ammessi. […]

Il Clerici telecronista le piaceva?

Lui e Tommasi non erano mica telecronisti. Erano la legge. Non mancavano di rispetto allo spettatore dicendo: doppio fallo, nastro. Doppio fallo e nastro, io da casa lo so vedere anche da solo. Loro raccontavano la storia della partita. Sa cosa facevano che non si fa più? Quando la regia inquadrava qualcuno in tribuna, ti dicevano chi era. Oppure avevano l’onestà di dire: non so chi è.

Che cosa dirà a Clerici per fargli gli auguri?

Che non ci vediamo da tanto, e dobbiamo sbrigarci.

I novant’anni di Gianni Clerici dal Grande Tennis a Orwell (Marco Lobasso, Leggo – Milano)

Gianni Clerici compie oggi 90 anni. Lo Scriba, uno degli ultimi giornalisti-monumento in Italia, ci regala articoli, saggi, libri, romanzi, poesie e pillole di saggezza da sempre. Si dice che Clerici sia un fuoriclasse della scrittura prestato al tennis. Benedetta la sua scelta, allora, che ci dà la possibilità di godercelo nel mondo dello sport, pulito, democratico e ancora romantico. Che tennis troveremo ad agosto, se lo troveremo? «Difficile dirlo, la situazione è in continua evoluzione e l’America se la passa male, proprio lì dove dovrebbero iniziare i tornei internazionali di questa stagione assurda. Ma senza le condizioni sarà difficile giocare negli Usa».

Se come per incanto si riprendesse davvero, che tennis troveremmo: ancora i big al vertice o finalmente il sorpasso dei giovani sfidanti?

Io credo che ancora per quest’anno non ci saranno sorprese e i grandi come Federer, Nadal e Djokovic riusciranno a difendere i propri ruoli di vertice. Certo, Federer ha ormai quasi 40 anni, ma è ancora magnifico vederlo giocare; si può soprassedere ancora un poco all’età anagrafica. Però, basta chiedermi se è lui il più grande di sempre, non si risponde a queste dommande.

Le hanno assegnato tanti soprannomi: scriba è quello più famoso. E quello più divertente per lei?

Potrei dire “quello del tennis”, ci ho fatto anche un libro. Però, in fondo, ne cito uno che mi dà la possibilità anche di ricordare il mio amico Rino Tommasi, ottimo giornalista e compagno di tanti anni di lavoro e di telecronache: mi chiamava Dottor Divago, perché amavo andare oltre il tema del match che commentavamo. Mi è caro quel soprannome.

Alla soglia dei 90 anni Gianni Clerici è tornato in libreria con un volume fantastico, che sfiora soltanto il suo amato tennis e si proietta in un romanzo ambientato nel 2084, che in qualche modo segue la falsa riga del successo mondiale di George Orwell e del suo “1984”.

Lo avevo già scritto prima dell’avvento del Covid, il lockdown mi ha permesso di perfezionare il tutto e di essere pronto a pubblicare. E’ stato un lavoro bello, difficile e faticoso. […]

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