Djokovic in lacrime perde il Grande Slam ma finalmente è amato (Crivelli). Berrettini ha ipotecato le Finals. Lo stop di Nadal fa sperare Sinner (Mastroluca). Medvedev, la rivoluzione non sarà solo russa (Mastroluca). Le lacrime di re Djokovic. Crolla nella caccia al record ma riscopre l'umanità (Piccardi). Se Djokovic nelle lacrime di una sconfitta nasconde la vera vittoria di una carriera (Lombardo)

Rassegna stampa

Djokovic in lacrime perde il Grande Slam ma finalmente è amato (Crivelli). Berrettini ha ipotecato le Finals. Lo stop di Nadal fa sperare Sinner (Mastroluca). Medvedev, la rivoluzione non sarà solo russa (Mastroluca). Le lacrime di re Djokovic. Crolla nella caccia al record ma riscopre l’umanità (Piccardi). Se Djokovic nelle lacrime di una sconfitta nasconde la vera vittoria di una carriera (Lombardo)

La rassegna stampa di martedì 14 settembre 2021

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Djokovic in lacrime perde il Grande Slam ma finalmente è amato (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Anche gli extraterrestri possiedono un’anima. E dunque, come i comuni mortali, di fronte all’appuntamento che può definitivamente cambiarti la vita per renderla un fantastico viaggio nella leggenda, si scoprono nudi e impotenti, si fanno piccoli fino ad essere inghiottiti dalla tensione, arrendendosi alla maledizione della storia. Certo, che potesse accadere a Novak Djokovic, cioè al giocatore che più di ogni altro ha costruito sull’eccelsa solidità della mente uno straordinario percorso di successi, uscendo sempre rafforzato da ogni difficoltà incontrata, può suonare come una sorpresa, ma il Grande Slam e l’ombra di Rod Laver (che era in tribuna a New York) si sono rivelati un’impresa superiore anche alle sue energie. Va aggiunto, poi, che Daniil Medvedev si è dimostrato l’avversario peggiore, e non era scontato: non ha regalato nulla, ha usato la battuta come una clava dall’inizio alla fine e non ha mai ceduto una stilla di concentrazione, se non quando è andato a servire per il match per la prima volta sul 5-2 del terzo set, una debolezza durata appena qualche minuto fino all’apoteosi del triplo 6-4 della vittoria.

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Dopo anni e anni passati a tormentarsi sulla passione che il mondo riversava soltanto su Federer e Nadal, ha ascoltato il cuore della gente battere per lui e chissà se questa nuova connessione, scaturita senza dubbio dallo svelamento del suo lato umano davanti a un destino avverso, non possa fornirgli stimoli supplementari per il futuro, dopo che per più di un decennio ha tratto linfa dalla situazione contraria. Sicuramente questa nuova consapevolezza lo ha fatto lacrimare a dirotto addirittura già sul campo, negli ultimi punti del match: «Ho provato tante emozioni diverse. Certo, una parte di me è molto triste, è una sconfitta difficile da digerire, visto ciò che c’era in palio. D’altro canto, però, ho avvertito qualcosa che non avevo mai avvertito prima a New York, il pubblico mi ha fatto sentire davvero speciale, e la cosa mi ha piacevolmente sorpreso. Non mi aspettavo niente, ma il supporto e l’energia che ho ricevuto me li ricorderò per sempre.

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Si erano fatte tante illazioni sul futuro del Djoker qualora avesse realizzato il Grande Slam, addirittura fino a immaginare un ritiro in pompa magna per oggettiva mancanza di altri traguardi da raggiungere. Fallito il traguardo più alto, gli resta tuttavia l’obiettivo non banale degli Slam complessivi, che al momento condivide ancora a quota 20 con gli arcírivali Federer e Nadal. E, dalla sua, Djokovic ha l’età, la salute e la possibilità di essere al top su tutte le superfici

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Berrettini ha ipotecato le Finals. Lo stop di Nadal fa sperare Sinner (Alessandro Mastroluca, Corriere dello Sport)

Le buone notizie per l’Italia del tennis non vengono mai da sole. I quarti di finale allo US Open, terzi di fila in uno Slam, insieme all’assenza del campione in carica Dominic Thiem proiettano Matteo Berrettini al numero 7 della classifica ATP. Il romano, diventato due anni fa il quinto azzurro di sempre tra i primi dieci del mondo, è ufficialmente settimo questa settimana. Ha dunque eguagliato il best ranking di Corrado Barazzutti (1978), il terzo di sempre per un tennista italiano dopo Nicola Pietrangeli (numero 3 nel 1959 e nel 1960 nella classifica stilata dal giornalista Lance Tingay) e Adriano Panatta, numero 4 nel 1976, quando si era ormai entrati nell’era del computer. Le possibilità di salire ancora ci sono tutte, considerato che Matteo è a soli 642 punti da Rafa Nadal, che però non giocherà più per tutto 112021 e via via dovrà scartare i punti di tornei disputati più di un anno fa. Il risultato di Flushing Meadows avvicina il numero 1 azzurro alla qualificazione per la prima edizione italiana di sempre delle Nitto ATP Finals, in programma a Torino dal 14 a121 novembre. Otto i posti disponibili, per i migliori nella Race to iluin, la classifica che considera solo i piazzamenti nei tornei di questa stagione. In tre sono già sicuri di esserci: Novak Djokovic, Daniil Medvedev e Stefanos Tsitsipas. Berrettini al momento è sesto con 3955 punti, un migliaio in meno di Alexander Zverev, quarto e anche lui a un passo da Torino. SINNER PER IL BIS.

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È infatti in corsa anche Jannik Sinner, che è undicesimo, scavalcato questa settimana dá Felix Auger-Aliassime, fresco di prima semifinale Slam in carriera. Entrambi, però, hanno ancora davanti Nadal e dunque vanno virtualmente considerati nono e decimo. L’altoatesino dovrà presumibilmente giocarsi uno degli ultimi posti a Torino anche con il polacco Hubert Hurkacz e il norvegese Casper Ruud. Intanto, Sinner ha migliorato il best ranking, è 14° questa settimana nella classifica ATP. Laltoatesino dal 27 settembre andrà a difendere il titolo a Sofia: al momento è Il giocatore con la miglior classifica tra gli iscritti. I suoi rivali nella corsa alle Finals resteranno invece negli Stati Uniti prima di Indian Wells, Masters 1000 spostato al 7 ottobre a causa del Cbvid-19.

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Medvedev, la rivoluzione non sarà solo russa (Alessandro Mastroluca, Corriere dello Sport)

Ha esultato come in un videogame, con la mossa del pesce morto tanto comune a FIFA. Ha fatto rumore, e non per nulla. Il trionfo di Daniil Medvedev allo US Open segna un punto di non ritorno. II russo è la versione tennistica di Gene Wilder che nella scena cult di Frankenstein Junior grida: «Si può fare!». Si, si può fare davvero. Si può vincere uno Slam battendo uno dei Fab 3, e nessuno dell’attuale generazione di giovani attesi campioni (quella Medvedev, Tsitsipas, Zverev, Rublev, Berrettini, Shapovalov, Auger-Aliassime) aveva ancora fatto. Dominic Thiem, che di anni ne ha 28, aveva per certi versi aperto la strada l’anno scorso, vincendo lo US Open ma in finale su Zverev.

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Medvedev, peraltro nel terzo anniversario del suo matrimonio, nel luogo dove due anni fa giocava la sua prima finale Slam, ha avvicinato il domani del gioco. «Le prime volte sono sempre speciali. Lo e stato vincere il mio primo torneo Juniores e il primo torneo da professionista. E stato speciale conquistare per la prima volta le Finals – ha detto – Ma ho sempre voluto di più. In quel momento, ho cominciato a pensare che avrei desiderato vincere uno Slam. È successo e sono felice».

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Paradossalmente, vista la differenza di risultati dell’anno scorso, Medvedev ha guadagnato meno di Djokovic in classifica rispetto a due settimane fa. Il divario nel ranking si è fatto leggermente più ampio. Non solo per questo, al momento, il russo non pensa alle chances di diventare numero 1 del mondo.

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Da oggi, avrà però l’obiettivo di tutti puntati addosso. Lo studieranno, cercheranno di imitarlo e di batterlo. Ha mostrato al mondo che si può fare, e la lotta per un angolo di cielo cambierà natura.

Le lacrime di re Djokovic. Crolla nella caccia al record ma riscopre l’umanità (Gaia Piccardi, Corriere della Sera)

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E lì, nel caldo torrido del , Giappone, dove si è spolmonato inutilmente volendo troppo e nulla stringendo tra le mani, che Novak Djokovic ha seppellito il sogno del Grande Slam 52 anni dopo Rod Laver (1969).

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Ma l’ambizione smodata dei due ori ai Giochi per superare il Golden Slam ’88 di Steffi Graf (i quattro Major più il titolo dell’Olimpiade di Seul) è il peccato di superbia che ha presentato al numero uno il conto nella finale di New York. Lì, sull’immenso centrale da 20 mila spettatori, dalle pagine della letteratura russa è uscito un moscovita allampanato e sghembo, ghiotto di croissant, appassionato di videogiochi (la buffa esultanza, quel tuffo da pesce lesso sul cemento, nasce così), capace di esaurire in tre set le ultime energie fisiche e nervose del campione esausto, prosciugato dal suo stesso folle inseguimento alla missione (im)possibile. Aveva perso spesso il primo set (con Nishikori, Brooksby, Berrettini e Zverev), il Djoker. Li avevamo considerati momenti di distrazione, segnali di una carburazione lenta da saldi di fine stagione, invece erano le spie della riserva. Quel Medvedev che batte Djokovic facendo Djokovic — servizio implacabile, dritto assassino, 50% di palle break convertite, un ritmo ansiogeno imposto al match per non invertirne mai l’inerzia — è la nemesi più spietata che l’esistenza potesse riservargli. L’Achille che Ettore ha trovato sulla sua strada a un passo dalla leggenda non è Medvedev. Achille era dentro Djokovic dall’inizio, quando è entrato in campo bianco come se avesse visto un fantasma, rassegnato al suo destino: il break al primo gioco che ha deciso il set. E nel momento in cui gli altri hanno dubitato, l’inizio del secondo set, il russo non ha tremato. Novak ha provato a tessere la sua ragnatela di palleggi, ma era piena di buchi. Non è vero che il Djoker è crollato proprio quando tutti tifavano per lui. II pubblico di New York, che sa essere generoso ma anche sguaiato, l’ha fischiato al primo turno contro il giovane danese Rune, poi l’ha sostenuto con il rispetto che si deve a un campione ossessionato dall’idea di grandezza, ma domenica ha soprattutto tifato per il prolungamento della finale, perché non finisse in tre set: era tifo egoista, per giustificare il costo del biglietto e il viaggio da Manhattan a Flushing. Eppure l’uomo che sussurra agli Slam, abituato ad esibirsi controcorrente (valga, per tutte, la finale di Wimbledon 2019 con Federer), l’ha scambiato per un gesto d’affetto totale: «Mi avete fatto sentire speciale, grazie». Speciale, piuttosto, è stata l’emozione del re del tennis nudo alla meta, scoppiato in lacrime sotto l’asciugamano all’ultimo cambio di campo e spogliato di quell’ambizione con cui in quasi 14 anni, dal nulla, è riuscito ad agganciare Federer e Nadal a quota 20 titoli Slam, essendo quegli altri due partiti a caccia ben prima di lui.

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Non ci serviva l’atroce k.o. di New York per scoprirlo sensibile. Però lo avvicina all’umanità degli altri due. E questa, forse, è la vera vittoria del Djoker.

Se Djokovic nelle lacrime di una sconfitta nasconde la vera vittoria di una carriera (Marco Lombardo, Il Giornale)

Nel momento in cui è sgorgata la prima lacrima, all’improvviso, senza controllo, Novak Djokovic è diventato un altro. Forse non sarà mai più il tennista imbattibile, però l’uomo che c’è in lui è finalmente tornato. E forse non sarà più l’eroe che voleva essere, «ma gli eroi mediocri sottomettono i loro nemici, quelli autentici conquistano se stessi». Lo diceva il poeta persiano Rumi, ed in effetti quel momento è stata pura poesia. Le lacrime, successive e implacabili, così come non si erano mai viste sul volto di Robonole, hanno cambiato perfino la sua espressione, probabilmente la sua anima. Anni di lavoro per annientare se stesso per un unico obbiettivo lo avevano trasfigurato: ma è stato proprio in quell’attimo che si è riaperta la sua finestra sulla vita

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Eppure, davvero, il pianto di Djokovic ha segnato un’era: quello che c’era prima infatti è stata solo la ricerca sfrenata del successo, quello che verrà dopo ha come simbolo il tifo scatenato del pubblico dell’Arthur Ashe Stadium, lo stesso che lo aveva maltrattato beceramente anni prima in una finale contro Federer (e che ha fatto lo stesso domenica con Medvedev). «Nole, Nole, Nole», un grido che è diventato un tornado, quando il grande campione a un passo dalla sconfitta ha ritrovato un po’ di speranza, recuperando uno dei due break al russo nel terzo set: «E in quel momento, proprio in quel momento – dirà Medvedev -, ho capito che se me ne avesse strappato un altro poi avrei perso la partita». Pensarlo due set e un break avanti (finirà poi con un triplo 6-4), vuole dire arrendersi all’inevitabile. E invece non è successo, ma del primo titolo Slam di Daniil non si ricorderà il tuffo a pesce sul campo quando Djokovic manda a rete l’ultima palla («lo capisce solo chi gioca a videogame, ho fatto il comando L2+sinistra»), ma quella faccia un po’ così di Novak, stravolta dal pianto, che accompagna il cambio di campo e l’inizio del game successivo.

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Novak Djokovic non ha fatto il Grande Slam, il sogno di onnipotenza probabilmente è spento per sempre: vincerà altri Slam, batterà altri record, ma il tutto non avrà lo stesso sapore di una volta. Ferito ma finalmente amato, ha perso la sua sfida. Eppure sa, lo sanno tutti, di avere vinto.

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