Karin, la montanara che bocciò lo sci e scelse il tennis (Clerici). Nadal, vittoria n. 200 negli Slam: “Contano soprattutto le buone sensazioni” (Crivelli). Sharapova a Rio? I russi la convocano, sperando nell’amnistia (Piccioni). Knapp, più forte di tutto e di tutti, c’è rimasta solo lei (Clemente). Svezia se ci sei batti un colpo (Carotenuto)

Rassegna stampa

Karin, la montanara che bocciò lo sci e scelse il tennis (Clerici). Nadal, vittoria n. 200 negli Slam: “Contano soprattutto le buone sensazioni” (Crivelli). Sharapova a Rio? I russi la convocano, sperando nell’amnistia (Piccioni). Knapp, più forte di tutto e di tutti, c’è rimasta solo lei (Clemente). Svezia se ci sei batti un colpo (Carotenuto)

Pubblicato

il

 

Karin, la montanara che bocciò lo sci e scelse il tennis (Gianni Clerici, La Repubblica)

Ancorché non sia comodo, e faciliti il mio maggior difetto, quello dello smarrimento, porto in viaggio i miei diari, annotazioni che spesso, per mancanza di spazio o per autogiudizio negativo, non figurano nei miei stracci, come definisco i cosiddetti articoli. Nelle note dei 2007, ho avuto la fortuna di ritrovare il mio primo occasionale incontro con Karin Knapp. Ero infatti uscito dal Centralino dedicato alla mia amata Suzanne Lenglen, quando l’apparizione di una bella ragazza, molto atletica, mi spinse a fermarmi. Mi rivolgo al diario per riferire quell’impressione: “Karin, col suo n. 85 e i suoi 18 anni, non era certo favorita contro la Bondarenko, n. 25 del mondo. Il torso a stento trattenuto da una canottiera rossa, la coda biondocastana ondeggiante ad ogni colpo, dirigeva gli scambi con una potenza insolita”. Karin terminò quella partita con il primo successo internazionale della sua giovane vita, e grazie alla sua nascita dolomitica non faticai ad associarla ai miei più cari ricordi sciistici: Franco Nones, che mi aveva offerto un letto, a poche ore dalla sua medaglia d’oro, oppure l’esordio di Gustav Thoeni, in Val d’Isere 1969. Dopo il successo di Karin andai alla abituale conferenza stampa per avere conferma che, nata a Castelrotto, terra di sciatori, Karin aveva a lungo esitato nel preferire il tennis allo sci, come suggeriva la mamma, al contrario di papà. Uno sport, lo sci, che le aveva offerto il titolo italiano baby a cinque anni. La scelta di papà sarebbe stata sicuramente preveggente, se Karin non fosse stata raggiunta da una successione di incidenti certo più tipici di uno sciatore che di un tennista, culminati con una ablazione al cuore per non parlare dei tre interventi al ginocchio. Oggi quella somma di infortuni negativi pareva dimenticata. Sul campo n. 4, contro una ragazza monomane qui giunta dalla lontana Lettonia, la Sevastova, Karin si muoveva con apparente disinvoltura, colpendo tutto dieci chilometri più veloce della sua avversaria. Sarebbe stato un sollievo assistere, insieme a molti colleghi minorenni, alla sua conferenza stampa, nella quale ci avrebbe ricordate le sue origini, la sua attuale migrazione interna a Anzio e, soprattutto, la sua ritrovata salute. Non altrettanto fortunato è stato il match della discussa Camila Giorgi, superiore soltanto nell’eleganza di un vestitino rosa, autocucito, ad una terribile avversaria quale l’olandese Kiki Bertens, un pugile che aveva già messo ko in primo turno la tedesca Kerber, favorita n. 3.

———————————————

Nadal, vittoria n. 200 negli Slam: “Contano soprattutto le buone sensazioni” (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Sono solo numeri. Ma portano con sé la forza dirompente di carriere da fenomeni. In attesa del probabile incrocio in semifinale, Nadal e Djokovic veleggiano senza problemi tra le onde di un tabellone che, soprattutto per il serbo, sembra una specie di passeggiata di salute fino ai momenti che contano. E non potevano essere il mancino argentino Facundo Bagnis, battezzato in tre set da Rafa dopo una partenza alla moviola (era sotto 0-2), o il belga Darcis, piegato senza troppa fatica da Nole, a interrompere un percorso immacolato. Per il maiorchino, il successo sul n. 99 del mondo vale la 200^ vittoria in uno Slam e l’ingresso nel club dei fantastici otto che hanno raggiunto quella quota, guidato da Federer con 302. Nadal, se supera i quarti, eguaglia Sampras a 203, ma la questione non sembra toccarlo più di tanto: «E’ solo una cifra in più. Ciò che conta è aver vinto di nuovo in tre set, avere buone sensazioni e provare ad alzare ancora il livello per le sfide che mi attendono». Per gli annali, la sua prima partita vinta in un Major risale al 2003, primo turno di Wimbledon contro Ancic: «Me la ricordo, fu una grandissima emozione, un momento importante per la mia carriera, già pensare di scendere in campo a Wimbledon era un sogno». Cifra tonda anche per Djokovic, approdato a 50 successi a Parigi eppure con un po’ di insoddisfazione: «Ci sono aspetti del mio gioco che non mi hanno soddisfatto, ho perso troppo facilmente un paio di servizi e in tutti i set gli ho sempre dato l’occasione per rientrare. Credo che all’inizio del torneo sia normale». Nel giorno della festa dei numeri, partecipa anche Tsonga, al 100° successo in uno Slam dopo la rimonta da due set sotto contro Baghdatis, letteralmente scoppiato: per lui ora c’è il redivivo Gulbis, rigenerato dall’aria di Parigi, dove solo due anni fa raggiungeva la semifinale dopo aver dato lezione addirittura a Federer. A braccetto avanzano anche le Williams (Venus è al terzo turno dopo sei anni), ma Serena è eccitata soprattutto per Snapchat: «Durante i tornei mi annoio, è uno strumento fantastico di divertimento». Solo che poi in campo ride solo lei.

———————————————

Sharapova a Rio? I russi la convocano, sperando nell’amnistia (Valerio Piccioni, La Gazzetta dello Sport)

Ore decisive per Maria Sharapova. A sorpresa, La federazione tennistica russa l’ha preconvocata per l’Olimpiade di Rio, mentre si attende da un momento all’altro la decisione da parte dell’ITF sulla sua positività al meldonium. D’altronde, la squadra olimpica dovrà essere confermata entro il 6 giugno. Insomma, ci siamo. Che la situazione sia diventata d’un colpo meno amara? Avventurarsi in un pronostico sarebbe temerario. L’iscrizione a Rio decisa dai russi potrebbe essere una forzatura diplomatico-sportiva, ma non avrebbe un grande senso giuridico. Lo stesso Shamil Tarpishev, presidente della federazione tennistica russa, continua a essere criptico nei suoi interventi. Siamo passati da una situazione «cattiva» e addirittura dal rischio che la carriera di Masha possa chiudersi in anticipo, a questo scatto in avanti verso Rio. Un colpo di acceleratore che però si tiene il margine per una frenata. La Sharapova, attualmente sospesa, è stata convocata con Svetlana Kuznetsova, Anastasia Paulyuchenkova e Daria Kasatkina, ma è stato specificato che c’è una quinta atleta pronta a entrare in scena (alle Olimpiadi, i posti per ogni nazione saranno quattro): Ekaterina Makarova. In realtà quella dei russi potrebbe essere una mossa tattica per accelerare una decisione da parte della federazione internazionale. In effetti, l’iniziativa può smuovere la situazione: per il 6 giugno deve arrivare una decisione. Anzi, «entro la fine della prima settimana del Roland Garros», dice Tarpishev. Dunque, molto presto. Il caso è comunque complicato. In aprile, la Wada ha spianato la strada a un perdono semi-generalizzato. Non c’è una sicurezza scientifica che riguarda i tempi di smaltimento della sostanza. Quindi è stato deciso di non prendere in considerazione le situazioni precedenti al 28 febbraio 2016. Quello di Masha risale a fine gennaio, Internazionali d’Australia, ma il problema è che i livelli di presenza della sostanza sarebbero superiori a quel microgrammo, che è la soglia scelta per punire o meno. Al tempo stesso, annunciando lei stessa la positività in marzo, la tennista russa non utilizzò questo argomento, quello di un’ultima assunzione molto indietro del tempo, per scagionarsi, come hanno fatto dopo altri suoi connazionali. Facendo pensare che l’assunzione sia avvenuta dopo la dead line di fine 2015. La situazione rischia però di diventare paradossale: tutti assolti o quasi per il meldonium dove il “quasi” si chiamerebbe soltanto Sharapova. Il caso deve essere discusso in primo grado da un tribunale dell’ITF, ma va a inserirsi in un quadro ricchissimo di punti interrogativi sul fronte Russia-doping. Dei 31 positivi “a scoppio ritardato” delle olimpiadi di Pechino 2008 (le famose provette rianalizzate otto anni dopo), 14 sono russi, che quasi sicuramente non andranno a Rio (controanalisi permettendo). Il 17 giugno a Vienna la IAAF deciderà sul reintegro dell’atletica di Mosca, sospesa in autunno. Senza considerare il buco nero dei Giochi di Sochi, con la sua spy story raccontata dall’ex direttore del laboratorio fra provette scambiate e servizi segreti in azione di notte. Queste situazioni, che presumibilmente porteranno a nuove squalifiche, potrebbero favorire la parola d’ordine del non infierire sul meldonium rimbalzando anche sul caso Sharapova. Magari optando per una squalifica soft. Ma fino al punto di rimettere in gioco pure Rio?

———————————————

Knapp, più forte di tutto e di tutti, c’è rimasta solo lei (Valentina Clemente, Corriere dello Sport)

In questa edizione del Roland Garros, avara di sorrisi per i colori azzurri, l’unica luce è arrivata dalla racchetta di Karin Knapp, sopravvissuta alla morìa della pattuglia italiana, scioltasi troppo in fretta lungo la via (ieri è toccato anche a Camila Giorgi). Forse tutto questo non è un caso, anzi analizzando la situazione di stallo che, per motivazioni completamente differenti, sta affliggendo gli italiani, il passaggio del turno dell’altoatesina (6-3 6-4 ad Anastasija Sevastova) deve far riflettere ma non sorprendere. Ritornata in campo da soli due mesi, la prospettiva della Knapp è piuttosto differente rispetto a quella delle sue colleghe: come raccontava lei stessa qualche giorno fa, oggi il suo unico pensiero è quello di concentrarsi sul tennis, ginocchio permettendo. A soli 28 anni, Karin ha già vissuto diverse vite: una per le tre operazioni al ginocchio, un’altra per i due stop imposti dalla Federazione a causa di un’aritmia cardiaca (2003 e 2008), senza contare poi l’infortunio all’anca: tutto questo l’ha costretta più volte a ricominciare dal basso e non lasciarsi sopraffare dai problemi, lavorando molto sulla propria motivazione. «Non è stata una partita facile quella contro la Sevastova, ma sono stata brava a rimanere calma. Due sono stati secondo me i momenti chiave dell’incontro: alla fine del primo set, quando lei ha perso un po’ il controllo e io ho saputo approfittarne, e poi verso la fine dove, nonostante i suoi molteplici tentativi nel mettermi in difficoltà, sono rimasta calma e concentrata. Senza dubbio la partita contro l’Azarenka mi ha trasmesso fiducia, e poi anche il mio servizio è stato all’altezza nei momenti cruciali». Giunta lo scorso agosto al suo best ranking (33 Wta), questa nuova risalita passa comunque per una serie di tappe e la prima Karin l’ha conquistata proprio contro la Sevastova, visto che era dal 2007 che non raggiungeva il terzo turno al Roland Garros. In passato il tennis non è stata comunque la sua unica passione, ma a far propendere l’altoatesina per la racchetta ha contribuito anche la sua voglia di vivere sotto il sole: «Ho deciso verso i quindici anni di dedicarmi esclusivamente a questo sport, perché prima mi dividevo con lo sci alpino, poi sono stati i miei a spingermi a prendere una decisione definitiva e alla fine ha vinto la passione di mia mamma». Ad attenderla ci sarà domani Yulia Putinseva, giovane kazaka dal comportamento a volte sopra le righe, con cui la Knapp ha già vinto lo scorso anno a Norimberga: «Gli atteggiamenti bizzarri in campo non mi danno fastidio, anche perché sta all’arbitro gestire la situazione in campo. So che è una a cui piace urlare o rompere racchette, ma io penserò solamente a fare il mio gioco».

———————————————

Svezia se ci sei batti un colpo (Angelo Carotenuto, Repubblica Venerdì)

Fra gli anni 70 e i 90, un Paese di otto milioni di abitanti ha dominato il tennis mondiale con Borg, Wilander e Edberg. Ma dopo di loro, il diluvio. Perché? Con un libro-guida, siamo andati a vedere. STOCCOLMA. Thomas corse a rete sulla smorzata dell’avversario, aprì il dritto, appoggiò la palla nell’angolo alla sinistra del russo Safin, e poi alzò lo sguardo per vedere dove andava a morire il pallonetto. Oltre la riga. Aveva vinto. Non si inginocchiò, non lanciò la racchetta, non baciò il cemento di Melbourne. Strinse banalmente i pugni e sorrise. Un gesto normale. «Non ebbi la sensazione che fosse qualcosa di storico». Nel gennaio 2002 la Svezia stava vincendo il suo ultimo Slam e non lo sapeva. Nella terra che dagli anni 70 associamo al tennis, non ci sono più campioni. Spariti in 14 anni. Non manca solo chi sia capace di vincere al Roland Garros, manca un titolo in un qualunque altro torneo, mai una finale negli ultimi 5 anni, neppure una semifinale, né un giocatore fra i migliori 100 al mondo. Ce ne sono in tutto due fra i primi 400. Come un Brasile senza calciatori. Thomas Johansson – quel Thomas – oggi ha 41 anni ed è il direttore del torneo di Stoccolma. Il suo nome è nello staff della PeakTennisAcademy, a Östermalm, zona residenziale della città, appartamenti per diplomatici e banchieri, 75 mila corone al metro quadro, al cambio fanno ottomila euro. Qui offrono pacchetti di cinque giorni ad amatori che per 5.300 euro vogliono provare il brivido di allenarsi nelle stesse condizioni dei professionisti. Il passeggio di Valhallavägen è alle spalle del circolo: solo il Valhalla è rimasto al tennis svedese, la memoria dei suoi eroi e delle loro battaglie. Il futuro dov’è? «Quando vinsi in Australia» racconta Johansson, «alla Svezia mancava un titolo da dieci anni. Eppure il mio successo non parve un’anomalia, avevamo molti giocatori da vertice». Otto fra i primi cento ancora nel 2000 e cinque nel 2004, dopo il picco toccato fra 1988 e 1990: tre fra i primi sei e ben dodici nei cento, dietro Edberg numero uno. Per provare a capire il vuoto d’oggi bisogna grattare sotto la fama di ieri. L’età dell’oro è stata raccontata in un bel libro da Mats Holm e Ulf Roosvald, Game Set Match, ricostruzione con interviste delle vite di Borg, Edberg e Wilander: arriva in Italia in questi giorni (add editore, pp. 384, euro 16). A loro Edberg racconta che «oggi ci vogliono molti soldi per riuscire ad affermarsi, a 14 o 15 anni significa spendere dalle 500 mila a un milione di corone all’anno». Roosvald spiega che «è esistita una buona generazione anche dopo Edberg, ma senza numeri uno lo spirito di emulazione s’è abbassato. Il tennis era per tutti, compravi una racchetta e giocavi: i coach erano ovunque, oggi devi pagarteli. Essere il numero 300 al mondo costa e molti campi sono stati regalati al calcio a cinque». Fra i parchi e i laghetti di Bromma, nel quartiere di Alvik, i 17 campi su due piani della Salk-hallen sono un buon punto d’osservazione. Holm e Roosvald spiegano che la Salk fu costruita negli anni Trenta, in risposta al Royal Club del re Gustavo, che aveva trapiantato il tennis nel Paese dopo un viaggio in Inghilterra. Uno sport dell’élite fino al luglio ’62, quando la tv trasmise un doppio, Lundqvist-Schmidt da una parte, dall’altra i nostri Pietrangeli e Sirola. 9-7 al quinto. La Svezia impazzì. Lo Stato costruì palestre nelle scuole, muri da palleggio alle spalliere, nei piccoli circoli si poteva provare questa cosa nuova chiamata tennis. Finché il signor Rune Borg, un commesso di Södertälje, vinse una racchetta e la regalò a suo figlio Björn. È alla Salk-hallen che bisogna passare, dove il giovane Borg veniva a prendere lezioni da Percy Rosberg, il suo primo maestro, oggi 83enne, ancora qui. Dice Rosberg: «A Borg ho insegnato a essere libero lasciandogli il rovescio a due mani. Gli allenatori di tutto il mondo chiedevano: dicci il tuo segreto. C’era un’organizzazione. La federazione radunava i talenti fra i 12 e i 18 anni a B’astad. Stavano insieme, si confrontavano. È stato stupido cambiare. Ognuno si è rinchiuso nel suo piccolo club ed è finito tutto». Rosberg indica i campi vuoti. «I ragazzi potrebbero venire qui a giocare. Se il campo non è prenotato da un adulto, per loro è gratis. Ma non gli interessa. Se ne stanno attaccati a quei cosi elettronici che slogano i pollici o vanno in palestra a farsi i muscoli. Il tennis era un pretesto per vedere il mondo. Forse oggi vivono benissimo con i genitori. Dopo una sconfitta vogliono tornare a casa, noi cercavamo un torneo da un’altra parte per la rivincita». È cambiata la Svezia, nel frattempo. Nel periodo in cui Borg si manifestava, il partito socialdemocratico era per il 44esimo anno alla guida del Paese. Olof Palme aveva introdotto l’assegno di maternità, gli stipendi crescevano del 30 per cento, la Svezia scavalcava gli Usa nel reddito pro-capite. Insieme all’abolizione dei voti alle elementari, nelle scuole il tennis entrava come attività ufficiale. Il Paese convertiva gli spazi dell’hockey alla nuova moda, mentre in questo maggio mite che Stoccolma si gode, il campetto pubblico di Kastellholmen è deserto. Ne restano 4.500 nel Paese, 900 al coperto. I club sono 423, 109 mila i tesserati, ma gli agonisti 11.440. Negli ultimi vent’anni la Svezia non ha avuto un challenger, i tornei di seconda fascia in cui i giovani fanno esperienza e punti. Ne hanno rimesso in piedi uno, mesi fa, a Jönköping, tremila spettatori al giorno. Martin Claesson ne è l’organizzatore, la federazione lo ha cooptato in Consiglio: «Forse si pensava non fosse necessario supportare i nostri giocatori. Da soli non hanno fatto il salto. Avviare un torneo è costoso, ma almeno proviamo a ridare un’occasione ai giovani. Il segreto forse è tornare a divertirsi, essere meno seriosi». In questi anni di nulla, tracce di vita apparente sono arrivate dal doppio, che grandi e grandissimi evitano, e dove il trentanovenne Robert Lindstedt ha trovato qualche consolazione in coppia con compagni stranieri: tre finali a Wimbledon, un titolo in Australia. Del doppio è stato interprete sublime Jonas Björkman, nove Slam fra 1998 e 2006, ex numero 4 in singolare. Dice: «Quando nel ’98 abbiamo vinto l’ultima Davis, nessun sondaggio di fine anno inserì la nostra impresa fra le prime tre. Sembrava scontato. Anche per la federazione. Siamo stati bravi finché le vittorie non sono parse normalità. Paghiamo gli errori commessi all’epoca. Nelle grandi città sono diminuiti i circoli, i ragazzi possono scegliere fra più passatempi. I genitori sono diventati folli, riempiono le giornate dei figli, i bambini si annoiano meno, ma hanno pure meno tempo per pensare a cosa vogliono da se stessi». Dopo sette Coppe fra il 1975 e il 1998 la squadra di Davis giocherà a settembre gli spareggi per evitare la serie C, e come dice il suo ct Fredrik Rosengren «tutti mi chiedono quando torneremo grandi, combattiamo pure contro la nostra storia, non so quale battaglia sia più dura». Trentasettemila persone all’anno entrano al museo dello sport di Stoccolma per vedere in una teca la Donnay di Borg del 1980, l’anno del tie-break a Wimbledon con McEnroe. Ma il vero tempio dei ricordi è a Kristineberg, dentro la Tennishall che fu Lundqvist a volere. Un romantico blocco di legno in un quartiere che si imborghesisce con delle pretese. I residenti ne chiedono l’abbattimento. Dicono che rovina la vista sul Màlaren. Sette campi da tennis, tutti al coperto. Come fossero teste d’alce, sulla parete di sinistra dormono le racchette appartenute a Borg, compresa quella con cui da bimbo tirava palle al muro. Gli scatti in bianco e nero di Jacob Fossell. La stampa del match del ’62 con gli italiani. Christer Lundberg, uno dei titolari, gioca con Borg tre ore a settimana. Tramezzini, caffè, una piccola bottega in cui si vende il nuovo pantaloncino della linea d’abbigliamento che porta il nome di Björn. Qui giocano tremila persone a settimana. «Ma solo veterani, i nati nell’epoca dei campioni. A Björn piace questo clima riservato. Passa, si ferma, scambia due parole. I pochi giovani che vengono, spesso scappano senza fare la doccia, ignorando che si diventa buoni giocatori un’ora prima e un’ora dopo l’allenamento, condividendo passione e sogni. Se la Svezia ne vuole di affamati, dovrà pescarli nella working class, fra gli immigrati, ma qualcuno dovrà finanziarli, perché ormai le Academy sono private, inseguono i soldi, e i soldi veri non sono più in Svezia». La Good to Great Tennis nella zona di Mjölnarvägen è tra le più celebrate al mondo. Qui cresce una nuova generazione di bravi coach. Magnus Norman ha portato lo svizzero Wawrinka a due Slam. Tillström allena il francese Monfils. Sostiene Thomas Johansson che «la federazione dovrebbe avere un’accademia sua», invoca un nuovo welfare dello sport. «Il tennis era ovunque, non può tornare uno sport per benestanti. È sparito dalle scuole e dalla tv pubblica. Al torneo di Jönköping ho incrociato ragazzi che non avevano mai visto una racchetta. Non riusciamo a sfondare nei sobborghi. Io sognavo una foto con Wilander, oggi sognano Ibrahimovic». I figli degli immigrati giocano a calcio, come Ssewankambo, Konate e Tankovic, che hanno portato la nazionale giovanile al titolo di campione d’Europa. Le speranze del tennis sono sulle spalle di Elias Ymer, figlio di etiopi, 120esimo al mondo ma già ventenne, e su quelle dei fratelli minori Mikael e Rafael. Papà Wondwosen correva, la mamma è medico. Immigrati e borghesi. Ma una famiglia non è un movimento. Bjorkman sorride: «Sarà dura eppure torneremo». Rosberg dice che serviranno anni «non per avere uno fra i primi 10 ma due fra i primi 100». Sorride pure lui. Ma preoccupato. Il prossimo Borg chissà dov’è. Ovunque, non in Svezia.

Continua a leggere
Commenti
Advertisement

⚠️ Warning, la newsletter di Ubitennis

Iscriviti a WARNING ⚠️

La nostra newsletter, divertente, arriva ogni venerdì ed è scritta con tanta competenza ed ironia. Privacy Policy.

 

Advertisement
Advertisement
Advertisement